- Scoperti
- Un nuovo personaggio
- Angelo e Diavolo
- Le lettere scarlatte
- La lista
- Atto secondo
- Le prove generali
- L’altalena blu
- In scena
- Sipario
- “Giulietta e… Giulietta”
- Un’altra storia
*Scoperti*
Lui lo aveva scoperto. Anzi, ci aveva scoperti.
Fingere di vivere una relazione felice era troppo, pure per un’attrice come me. E pretendere che tutto fosse normale, che nulla fosse successo, che io fossi la solita compagna amorevole di un tempo, era decisamente troppo, anche per una mente come la sua.
Lui sapeva tutto. Lo aveva capito da quel bacio che gli avevo negato più volte, dai giorni e poi dai mesi in cui evitavo perfino il suo sguardo, e ovviamente dal mio essere altrove.
Lo aveva intuito dal nostro letto, diventato un giaciglio scomodo per passare ormai innumerevoli notti agitate e rigide, di quelle che non vedi l’ora che finiscano, prima di riviverle nuovamente e forzatamente l’indomani.
So che la colpa è stata sicuramente la mia. Cedere così a un altro uomo, lasciarlo entrare e invadere testa, occhi, cuore, corpo.
No, Norbert non se lo meritava.
Eppure, che dire di tutte quelle volte in cui mi ignorava perché troppo preso dalle sue ricerche? Un matematico come lui, come poteva decidere di spegnere le emozioni per concentrare tutte le sue energie solo sulla logica e sulla razionalità?
Nonostante ciò, io gli parlavo e gli parlavo pure tanto! La sera, a cena, quando finalmente ci vedevamo dopo una giornata durante la quale eravamo stati separati dai nostri rispettivi lavori, ero sempre lì che tentavo di estrapolare quel minimo di conversazione. E sebbene i miei metodi fossero di scarsa inventiva, come il semplice farmi passare il sale, l’acqua, e infine un po’ più d’amore, la conversazione non si elevava mai oltre ai livelli di:
-“Com’è andata oggi?”
-“Bene e a te?”
Bella domanda; come mi doveva essere andata l’ennesima giornata senza lui?
Vedete, il fatto è che ormai dovevo attirarlo con tutti i mezzi a disposizione. Patetico, eh? Il mio intento era quello di dargli un pizzicotto morale attraverso le mie parole, perché volevo che tornasse a notarmi. E allora gli raccontavo della mia giornata a lavoro, del regista della nuova compagnia teatrale che mi dava sotto, e magari esageravo anche qualche dettaglio, ma solo per dirgli tramite quei racconti: “Sono qui, eccomi!”.
E se, un tempo, lui si sarebbe acceso a quei discorsi e avrebbe inveito contro il mio direttore, inondandomi di idee e consigli su come tirare fuori quella creatività richiesta, adesso se ne stava lì, silenzioso e pensoso, con il suo solito capo chino su un libro di fredde e rigide regole algebriche, che di amore, non avevano proprio niente.
No, non potete dirmi che sono stata io la causa primaria di tutto. Lui non c’era più già da prima, da quando gli offrirono quel nuovo lavoro all’University of Manchester. Certo, in qualcosa fui davvero la prima: infatti decisi di spingerlo a prendere quel posto e così dare una svolta alla sua carriera, senza pensare alle conseguenze.
Probabilmente, se con il senno di poi, mi avessero chiesto cosa avrei fatto se avessi potuto tornare indietro, mi sarei comportata nello stesso identico modo: avrei sempre continuato a volere il meglio per lui, perché si trattava della sua vita, della sua felicità e, di riflesso, anche della mia.
Se non era amore questo, ditemi voi che nome poteva avere. E dopo un anno di trasferimenti e appoggio morale, più gli ero vicino e più diventavo scontata, invisibile, superflua. Ero ormai colei che più veniva ignorata -perché il nuovo lavoro gli costava un’infinità di energie e tempo, a detta sua- e più perdeva di creatività e di concentrazione. E in quanto attrice e artista, la concentrazione era il mio pane quotidiano.
Ma com’era possibile che una mia caratteristica così fondamentale, quella basata soltanto sulla volontà e sulla mia mente, adesso, a ventisette anni, derivasse da un altro essere umano?
Peraltro, ormai non riuscivo più a interpretare una parte che non appartenesse a una Penelope. Eppure l’archetipo della moglie in continua attesa del ritorno del suo amato, era lontanissimo dal personaggio che mi si chiedeva di interpretare in quel momento. Io dovevo essere una nuova Giulietta moderna, sebbene ancora nei panni del XVI secolo: innamorata della vita, dell’amore, di Romeo. Una fanciulla affascinata dalla speranza di un’esistenza piena e colma di forti passioni. Tuttavia, non potevo essere più lontana da quel personaggio: invece di correre alla scoperta del mondo con occhi avidi di curiosità, io continuavo ad aspettare che Ulisse tornasse su di un palcoscenico nel quale, per ovvi motivi, non poteva comparire.
Quella non era la sua storia.
Dunque, sì, io amavo Norbert e soffrivo nel vederlo sempre più distante, sempre più lontano da me. Nei giorni in cui la sua distrazione, rispetto alla mia presenza, andava aumentando, ecco che questa lontananza andava lentamente spegnendo una lucina dentro di me. E questa luce diventava sempre più fioca, sempre più lontana, come candela che a un soffio deciso, infine, si spegne.
*Un nuovo personaggio*
Quel soffio deciso fu Steve: il mio collega Steve. Era lui che mi consolava dopo la solita ramanzina del regista da dietro le quinte, dovuta alle mie scarse prestazioni del momento. Come biasimarlo? Aveva ragione, in quel periodo non ero più io.
“Che fine ha fatto la tua grinta per cui hai ottenuto la parte di Giulietta? Ridi, Giulietta, esulta, Giulietta! E non stare lì ferma, a camuffare il tuo dolore, come una Lady Macbeth fatta pure male”. Non posso negare che a quelle parole del mio direttore, gli occhi mi divennero lucidi.
Purtroppo, questo è una caratteristica che ha l’arte: e cioè quella di essere un’arma a doppio taglio. Essa ha il potere di curare molte delle ferite che ci portiamo dietro negli anni, ma nel momento di maggiore sofferenza, ecco allora che l’arte riverbera la nostra pena al mondo, aumentandone le dimensioni e portandola sotto gli occhi di tutti, come fosse un proiettore che fissa su parete bianca una grande e vivida lettera scarlatta. E sebbene tentassi in tutti i modi di camuffare la mia, niente riusciva a dissimulare la sua presenza, stampata sulla fronte.
Ma c’era sempre Steve ad aspettarmi in silenzio in un angolo del palcoscenico. Col tempo cominciò a inondarmi di tutta l’autostima di cui avevo bisogno e di cui mi nutrii per continuare a camminare a testa alta e con il sorriso deciso, anche all’interno di una compagnia teatrale così importante e rispetto a cui mi sentivo al momento inadatta. Pertanto, tra lo sconforto e un compagno assente, abbassai le mie difese così tanto che cominciai a vedere con altri occhi, quel semplice collega così premuroso.
All’inizio non ci fu malizia da parte mia, dovete credermi. Anzi, quando lo invitavo a berci una birra nel mio appartamento, dopo le prove, lo facevo in tutta amicizia, senza premeditare il fatto che il mio compagno non fosse in casa: tanto lui lavorava sempre.
Eppure, la bomba con Norbert doveva scoppiare prima o poi, e successe una sera di febbraio. Dopo cena, si stava ripetendo nuovamente quel solito quadretto che continuando in quel modo, si sarebbe reiterato all’infinito. Ancora una volta, ero lasciata a me stessa nella stanza da pranzo a guardare la tv, mentre il mio fidanzato se ne stava nel suo studio a fare ricerche. La casa era talmente tanto silenziosa che mi sembrava di essere completamente sola. Al che, stanca di quella situazione, mi feci coraggio e andai a parlargli.
-“Nor, perdonami se ti disturbo”
-“Amore, dimmi.”
-“Senti…” mi fermai: “Cosa stai facendo?”. Norbert rise, sapeva che pur spiegandomelo, io non avrei capito niente. Quindi andò al punto.
-“Vuoi davvero sapere che faccio o mi vuoi dire qualcosa?”. Ecco l’introduzione che volevo, tutto era pronto perché finalmente parlassi. Un bel respiro e così lo feci, o almeno ci provai.
-“Amore, tu lo sai che ti sono vicina e che sono la tua sostenitrice numero uno.”
-“Certo che lo so. Ma…”, lui mi anticipò.
Ecco ci siamo!, pensai: “Ma tu non sei più tu.”, gli dissi infine. Tuttavia, mi fermai: volevo capire la sua reazione alle mie parole. Lui rise, ma non era una risata sincera.
-“Ma certo che sono sempre io, che ti succede? Hai il ciclo per caso?”. Una frase come quella sarebbe stata capace di trasformarmi in diavolo nel giro di poco tempo.
-“Dovrei avere il ciclo per venirti a dire le cose come stanno?” La lite era ufficialmente cominciata: “Tu sei cambiato, sei distante, sei irriconoscibile. Da quando siamo venuti in questo posto e -sottolineo- per il tuo lavoro, è come se mi fossi trasferita con un’altra persona. Siamo ormai dei coinquilini, e non più la coppia che siamo sempre stati.” A queste parole lui non disse niente, mi lanciò semplicemente uno sguardo sorpreso, a causa di quella mia reazione secondo lui spropositata. Al che, io continuai, ancora più sicura: “Per favore, non dire che niente è cambiato! Perché, sappi che dal mio punto di vista, è come se, nel mentre che ti derubano in casa, uno dei ladri ti dice: “Ma no, stai serena! Non stiamo facendo una rapina a casa tua: guarda, lo vedi quello lì che sta mettendo i tuoi gioielli in un sacco? Li sta solo spostando altrove per conservarli meglio! Tranquilla che non sta succedendo niente!”. E nel mentre tu sei lì ad assistere impotente a quella scena, sapendo perfettamente che quel dannato ladro sta mentendo e sta modificando la realtà per i suoi comodi. E no, non ho il ciclo!”.
Norbert non rispose subito e questo mi fece spazientire maggiormente. Poi, dopo una lunga pausa si limitò a dire: “Sono troppo stanco per discutere oggi, ho avuto una giornata pesante, vado a dormire.”
A quelle parole la mia rabbia aumentò a dismisura; e il tutto era inversamente proporzionale a quella sua calma piatta che mi faceva morire dentro. “No, noi non ne parleremo domani! Noi ne parliamo adesso, perché dobbiamo risolvere. Evidentemente, ancora devi imparare il fatto che io non accendo discussioni, come questa, soltanto per il gusto di litigare, ma per migliorarci!”.
-“A me sembra proprio che tu voglia litigare invece, e che non è vero che ti interessa del mio lavoro, se quando vedi che ci perdo gran parte della vita a stargli dietro, cercando di dare sempre il meglio di me, tu mi inveisci pure contro!”.
Con queste frasi mi destabilizzava ogni volta. Non era vero quello che diceva, ma, come sempre, non mi sentivo capace di spiegarglielo. Aveva ribaltato la situazione con una velocità da maestro e così, mi aveva fregato nuovamente.
-“Perfetto!”, dissi io, cercando di tornare più razionale, “allora troviamo un compromesso! Facciamo che la sera, almeno un paio di volte a settimana, almeno una volta a settimana, tu chiudi ogni libro e noi stiamo insieme! Perchè non è possibile che siamo lontani da mesi, pur vivendo nella stessa casa!”
-“Ma lo capisci che ho delle scadenze? E lo capisci che voglio fare bella figura perchè ci tengo a ottenere quella promozione?”
-“Certo che lo capisco, ma così facendo, mentre lotti per ottenere una promozione nel tuo lavoro, vieni bocciato e torni -e torniamo- indietro all’interno di quella che è la nostra storia. Prova almeno a trovare una misura ed equiparare lavoro e amore, perché sennò va a finire che o perdi l’uno o perdi l’altro.”
-“Bene”, rise sarcastico “siamo arrivati al: o il lavoro o me. Complimenti, neanche i discorsi che facevamo da più giovani arrivavano a tanto”.
-“Ma io non ho detto questo! Ho detto che…”. Mi interruppe.
-“Me ne vado a letto”, ripeté.
Io feci silenzio. Quella sensazione di parlare con la parete della mia cucina, mi stancava come dopo una lunga giornata di fatiche. Dunque, questa volta non lo fermai. Ci pensai un attimo e poi replicai: “E io raggiungo i miei colleghi al pub”.
In quel modo, si concluse la nostra conversazione, con il mio stomaco che era sempre più in subbuglio, come se mi avesse presa a pugni, piuttosto che parlare.
*Angelo e Diavolo*
Quel che dissi, subito lo feci. Non potevo rimanere neanche un solo momento in più in quella casa. Mi vestii in fretta, mi misi un filo di trucco, presi chiavi e borsetta, poi corsi giù per le scale. Una volta in strada, fermai un taxi e, appena arrivato, finalmente partii.
Giunta al locale, notai subito che c’era anche Steve. Non posso descrivere l’emozione che provai quando vidi che i suoi occhi brillarono nel vedermi. Mi fece cenno e poi anche spazio su quella panca su cui sedeva.
Io, allora, salutai tutti e andai spedita da lui, sentendomi per la prima volta contenta per la sua presenza d’amico. Non appena presi posto accanto a Steve, percepii un cambiamento in me stessa. Lui, da fuori, era quello di sempre: mi sorrideva e alternava alle chiacchiere con gli altri, qualche frase rivolta soltanto a me. Eppure, forse sarà stata quella camicia bianca leggermente sbottonata, lo sguardo vispo, la sua attenzione ad ogni mio movimento, ad ogni mio gesto e quel sorriso dolce che lo accompagnava al suono di ogni mio discorso. In quell’occasione, sentii un’affinità mai provata prima con lui. Tuttavia, quasi subito mi resi conto che quel tipo di chimica non mi era affatto nuova, specie dopo sei anni di relazione con Norbert
Quella sera passò rapidamente, tanto che in un lampo ci ritrovammo soli io e lui, a camminare tra le strade deserte di una città dormiente. Steve si propose di riaccompagnarmi a casa e, giunti davanti al mio portone, dopo quattro battute e qualche silenzio, mi avvicinò a lui e ci baciammo.
Non fu un bacio premeditato, ma è stato come una scarica elettrica che ci ha legati di colpo e irrazionalmente. Lasciate che vi spieghi la dinamica: mentre ero ancora ai piedi delle scale del mio ingresso, mi limitai a dargli la buonanotte, e fu proprio nell’istante che feci per girarmi verso l’uscio del mio palazzo, che Steve mi afferrò per un braccio. Posso assicurarvi che neanche questo suo gesto fu premeditato, lo fece e basta. Così io mi rigirai lentamente e lui era lì, che mi fissava intensamente negli occhi. No, non fu nemmeno in quel frangente che mi baciò sulle labbra, poiché si limitò a darmi un bacio in guancia. Io, un po’ sorpresa e imbarazzata, mi sporsi in avanti per ricambiargli quel bacio e così fummo così vicini che, non so chi per primo, chiuse gli occhi e si diresse intuitivamente alle labbra.
E quindi, quello fu il nostro bacio, accaduto per la prima volta davanti al portone del mio palazzo; un portone che anticipava il mio ingresso di casa, il quale era distante di pochi metri dalla porta della stanza in cui, in quel momento, il mio compagno si era addormentato, ignaro di tutto.
Richiuso il portone alle mie spalle, mi sentii divisa in due: c’era un angelo sopra la mia spalla destra che mi sgridava e un diavolo sulla sinistra che ancora non si era ripreso da quel bacio. Il mio viso, i miei capelli, i miei vestiti, tutto di me sembrava riportare la fotografia di quell’istante. Temevo che il mio corpo si fosse impregnato del profumo di Steve. E Norbert, Norbert avrebbe capito tutto appena avrei messo piede in casa?
Mi sentivo sporca, cattiva, una debole, eppure non riuscivo a rallentare i battiti del mio cuore. Non era mia intenzione che succedesse, e non avevo nemmeno idea di come tutto fosse successo. So solo che in quel momento, non ero mai stata tanto Dott Jackyll che scopre Mr Hyde; perché, per quanto mi riguarda, ero sicura che mai e poi mai avrei guardato un altro uomo, all’infuori del mio.
Fortunatamente, rientrando in casa, il silenzio regnava su tutto, a partire dalla nostra camera da letto. Norbert dormiva sonni tranquilli, e nel mentre io non riuscivo a calmare i miei pensieri. La guerra nella mia testa non sapeva se svegliarlo e dire tutto, o tenerselo per se’, come segreto da custodire fin dentro la tomba. Anche perché, almeno di una cosa ero certa: che non ci sarebbero state altre volte.
*Le lettere scarlatte”
Ovviamente ci furono altre volte.
La mattina successiva non vidi Norbert; si era svegliato prima del solito per andare all’università; alla faccia del “ne riparliamo domani”. Ma non vi feci troppo caso, tanto sapevo già che sarebbe andata a finire così. Dunque, come se niente fosse successo, mi preparai alla svelta e mi recai alle prove in teatro.
Poco dopo il mio arrivo, rimasti soli nel buio del backstage e nonostante una certa distanza che ci tenevo a rispettare, improvvisamente Steve mi prese nuovamente il braccio, attirandomi a se’. E fu così che il mio instabile castello di autocontrollo innalzato durante una notte insonne, crollò miseramente. Non mi baciò, ma si limitò soltanto a tenermi stretta e avvicinare il suo viso al mio, giusto il tempo di un attimo eterno e fugace, passato di nuovo insieme; furono giusto pochi secondi che mi servirono a capire che la chimica di un corpo non può essere governata dalla testa.
-“Ragazzi, ci siamo, tutti in scena per provare il secondo atto”. E mentre gli altri si chiedevano dove fosse finito Romeo -ovviamente, era lui Romeo-, ecco allora che Steve si staccò da me, raggiungendo il gruppo sorridente e con fare così sereno, da lasciarmi credere che quelle farfalle nello stomaco, miste ad ammonizioni nella testa, stessero scombussolando solamente me. Pertanto rimasi immobile; ero ancora visibilmente frastornata da quella vicinanza inaspettata e che volevo evitare a tutti i costi.
Mi chiesi e mi chiedo tutt’ora, come si può resistere all’attrazione?
Respirai profondamente e cercai di calmarmi, ma intanto non era più una sola la lettera scarlatta che portavo in fronte; perché, oltre a una relazione che si stava sciogliendo lentamente, c’era anche un secondo bacio che aleggiava nell’aria di un teatro chiuso al pubblico, e che cominciava a legarmi sempre più a quello che stava diventando davvero il mio Romeo.
-“Insomma, Miranda, con i tuoi tempi! Aspettiamo te per fare la scena del balcone e tu perdi tempo nel backstage?”, era il regista che mi dava il buongiorno.
-“Mi scusi, eccomi, ci sono!”. Quella chiamata da parte sua, mi aveva fatto riprendere dal mio stato di trance, come se avessi ricevuto cinque schiaffi dritti in faccia, schiaffi morali -si intende- che mi lasciarono ugualmente con due guance rosse ben visibili.
Avanzai verso il centro del palco e man mano che mi avvicinavo a Norbert, il suo sguardo riuscì a rasserenarmi.
-“Allora, ricapitoliamo! Romeo entra nell’orto dei Capuleti e vede Giulietta al balcone. Si giurano amore eterno e decidono di sposarsi. Forza Steve e Miranda, vi voglio concentrati. Miranda, fammi vedere la ragazzina che eri un tempo, quella sognatrice che credeva nell’amore e in un futuro felice. Fammi sentire la passione, l’amore, la volontà di credere che esistono solo cose belle al mondo. Dai, su! Confido in te!”. Con quel “confido in te” del maestro, ricordo che fu come se qualcuno mi avesse iniettato una dose di fiducia nelle mie capacità, qualcosa che avevo perso già da tempo. A pensarci bene, aveva ragione: non dovevo interpretare un personaggio tanto diverso da ciò che, in realtà, io stessa ero un volta. Anzi, mi ricordo bene della piccola me, nella casa affacciata sul mare dove vivevo con miei, quando quella leggerezza, quella gioia, quella vita mi appartenevano per davvero.
Prima che Norbert entrasse nella mia vita, la stessa Giulietta del libro o quella dei tanti film, è sempre stata un modello per me; una bella fanciulla che trova un amore talmente travolgente da sfidare persino la morte. Io sono cresciuta con questo ideale; io sono cresciuta rincorrendo le farfalle per vedere dove mi portassero. E, in cuor mio, ho sempre coltivato la speranza che da qualche parte nel mondo poteva esistere per davvero un Romeo pronto ad aspettarmi; ad attendere me che, nonostante tutto, non ero Giulietta.
Tuttavia, se un tempo collegavo questo magnifico personaggio shakespeariano all’amore e al sogno, adesso non riuscivo a fare altro che legarlo alla morte. Amore e morte sono due fasi che hanno segnato l’alfa e l’omega di questo personaggio: Giulietta per amore ha conosciuto la morte, e questo non potevo togliermelo dalla testa. E se dovevo riscoprire quella parte di lei che era stata sempre nascosta in me, non potevo fingere che il tempo non avesse agito anche nella sua ombra, nascosta nei meandri della mia anima. Infatti, sentivo che la Giulietta che in qualche modo mi risiedeva ancora dentro, era ormai cresciuta e per questo, era anche più disillusa. Pertanto, la domanda che mi venne in mente, giusto prima di cominciare a provare fu: che io -Giulietta- abbia già conosciuto la morte? Che questa mi sia stata procurata proprio da colui che ho ritenuto essere Romeo –Norbert-, la cui data del decesso venne a coincidere con il giorno stesso del nostro trasferimento in quella città?
*La lista*
“Sono più tragica di quanto pensassi”, ecco il sunto di tutte quelle riflessioni che esplicai ad alta voce, pur sempre tra me e me. Come potevo definirmi attrice se non riuscivo a modellare la mia mente e il mio corpo a seconda delle fattezze del personaggio che andavo a interpretare? La mia Giulietta non poteva essere leggera: piuttosto si trattava di una ragazza che ne aveva viste tante, nonostante la sua breve vita, più volte riproposta nei secoli.
Eppure, non era ancora il momento di portare sulla scena la tragedia, pertanto dovevo trovare un pensiero che riaccendesse in me tutta la delicatezza e la dolcezza, tipiche di una giovane della sua età.
E alla fine di questo mio soliloquio interiore della durata di pochi secondi, i miei occhi caddero su Romeo. Ripensai alla sera prima e una parte di me, sorrise come in preda a un solletico, proprio come quando da ragazzina tornavo a casa dopo un appuntamento con la mia cotta di turno. Quell’avvicinamento così fugace, così intenso e segreto, avvenuto poco prima dietro le quinte, servì a darmi la giusta ispirazione di cui avevo bisogno. Allora sorrisi a Steve, lui ricambiò, io chiusi gli occhi e quando li riaprii: divenni davvero Giulietta.
Finite quelle prove, arrivò il tempo di tornare a casa. Quel giorno, sentivo che dovevo tanto al mio partner teatrale, perché la sua presenza mi stava sostenendo in un momento in cui da sola, probabilmente avrei solamente mollato. Nonostante ciò, seppur a malincuore, decisi di non passare del tempo con lui quel pomeriggio. Piuttosto tornai a casa, cominciando a pensare alla battaglia di quella notte con colui che era ancora il mio partner nella vita reale.
Tuttavia, giusto quella sera, Norbert si mostrò più gentile: tornò a casa con delle rose e con un dolce da mangiare insieme dopo cena. Io, visibilmente non serena, lo ringraziai abbozzando un sorriso, ma gli dissi che avremmo dovuto parlare.
Non starò a dilungarmi su quella conversazione che è stata poi il mio ennesimo monologo. Dopo avergli ripetuto per l’ennesima volta che si stava chiudendo e che andava somigliando sempre più a suo padre, lui ribatté intimandomi di crescere: “Hai ventisette anni, ma a volte sembri ancora una scolaretta del liceo! Diventa donna, Miranda! Che la vita non sarà sempre così gentile con te, come lo è stata in passato, specie se ti ostini a vivere nella bambagia come una ragazzina!”.
Dunque, alla fine dei conti, il punto rimaneva lo stesso: lui avrebbe continuato a lavorare secondo quei ritmi, mentre io mi sarei dovuta abituare a quella vita. Così, noi avremmo continuato a vivere in due mondi distinti, governati da tue teste cocciute che insistevano a non volersi incontrare, seppur continuando a condividere lo stesso letto.
Insomma, da questa strada non c’era uscita: se mi stava bene, perfetto, sennò mi veniva ricordato che quella casa non era mai stata una prigione. E chi vuole capire, capisca.
Una volta a letto, ricevetti un messaggio di Steve che mi mandava un semplice bacio virtuale: mi serviva molto più di quello in quel momento.
No, non fraintendetemi. Con questo, non intendo che avrei preferito Steve al mio fianco, ma piuttosto avrei tanto voluto avere una lista di ipotetiche soluzioni da seguire per poter finalmente sciogliere quel masso che mi impediva di avanzare con la mia vita.
Il lavoro di Norbert non era una questione di qualche mese: quello sarebbe stato diverso, avrei potuto vedere una luce in fondo al tunnel. Ma in questo caso si parlava di anni, di una ricerca che lo avrebbe portato a una promozione, poi a una successiva, mentre nel mezzo ci stavano altre innumerevoli ricerche. E io sarei dovuta stare in silenzio e in un angolo per un tempo indefinito che non lasciava presagire un barlume di via d’uscita?
Se la mia casa non era una prigione, quella storia cominciava ad esserlo. Tuttavia, mi sentivo quasi in colpa di avere quei pensieri: amavo o non amavo Norbert? E se lo amavo, potevo mai dire che la nostra relazione era asfissiante, solo perché lui era così dedito al suo lavoro?
Dunque mi alzai dal letto, Norbert era accanto a me che leggeva: “Dove vai?” disse sorpreso. “Ho bisogno di scrivere”, risposi frettolosamente.
Mentre uscii dalla camera, sentii il suo lumino che si spegneva. Ecco l’ennesimo momento in cui, invece di abbracciarmi, preferiva dormire pur di non stropicciare la sua preziosa faccia da professionista. Dopotutto, quanta stanchezza avrebbe potuto recargli il grave gesto di una carezza?
E mentre la nostra storia vedeva spegnere lentamente, a una a una, tutte le sue candele, per provare a salvarla e mantenere accesa la nostre luce che ci distingueva dal resto, decisi di sedermi in cucina. Così, appoggiata al tavolo, stilai una lista dei Pro e dei Contro di quella lunga relazione.
Cominciai dai Contro: ricordo che all’inizio non me ne veniva in mente nemmeno uno. “É distratto”, scrissi. Poi ci pensai, mi avvicinai al foglio e, dopo un poco, aggiunsi “Lavoro-dipendente”. Mi chiesi se fosse un reale contro, ma mentre stavo per cancellarlo, pensai che in tutto quel tempo in quella città, eravamo usciti a malapena cinque volte. Quindi non solo lo lasciai, ma cominciai ad aggiungere altri aggettivi a raffica, insieme a frasi e momenti che allungarono la lista dei Contro fino a superare una cinquantina di elementi. Decisi di fermarmi, e intanto ridevo tra me e me: ecco che succede a scoperchiare il vaso di Pandora.
Pertanto, passai a ragionare sui Pro; scrissi qualcosa come: “lo amo”, “a volte mi porta dei fiori a sorpresa”, “a volte è dolcissimo, anche se cambia subito umore”. Mi fermai nuovamente: no, quel Pro era diventato un Contro e allora cancellai l’ultima parte. Infine, rilessi quei punti che avevo stilato fino a quel momento, e oltre a notare il grande dislivello che c’era con i Contro, pensai: “E io che cercavo la Giulietta che era nascosta in me: mi basta rileggere cosa ho scritto nei Pro, per notare che una parte di me non ha mai smesso di avere quindici anni”.
Con la lista in mano, cominciai a prendere finalmente consapevolezza di cosa avessi davanti, e la domanda che ne nacque fu: “Ne valeva ancora la pena?”.
Più confusa che persuasa, dunque, decisi di nascondere la lista in un posto sicuro e me ne ritornai a letto. “Hai finito di scrivere?”, mi chiese Nor, rigirandosi su un fianco, mentre io mi infilavo sotto le coperte:”Sì”, risposi io, seppur con scarsa convinzione.
*Atto secondo*
L’indomani mi svegliai stranamente euforica. Feci colazione, accesi la radio e me la portai addirittura in bagno. In casa non c’era nessuno; le brave formichine erano andate tutte a lavorare di buonora.
Mi vestii, mi truccai, presi la giacca, gli occhiali, la borsa e corsi in teatro.
Trovai Steve lì fuori che si stava fumando una sigaretta. Quando mi vide, buttò la cicca a terra e la spense con la scarpa. Poi mi venne incontro con un sorriso aperto quanto le sue braccia.
Appoggiata al suo petto, respirai a fondo come se stessi facendo scorta di tutto l’ossigeno che sentivo mi fosse mancato. Mi baciò e io non opposi resistenza; e con quello stesso sorriso, entrammo in teatro, seppur separati: dopotutto noi eravamo Romeo e Giulietta, i due protagonisti di un unico segreto.
Quelle prove furono le più belle. Il mio personaggio andava prendendo forma e anche la mia recitazione era più credibile: finalmente Giulietta era una fanciulla in balia del suo primo amore, euforica e innamorata.
Dal canto mio, riuscivo a riassumere bene tutti questi concetti: i gesti, i toni, gli sguardi, perfino i pensieri, ognuno di questi elementi non era più di Miranda, non c’era più tragicità in essi. Ormai ero Giulietta, al felice inizio della sua tragedia.
Quella non fu l’unica prova degna di nota: ne seguirono altre e quasi non credetti alle mie orecchie quando anche il maestro, mi fece i complimenti: “Brava Giulietta! Sì, finalmente riesco a vederti!”.
Sorridevo con occhi lucidi e intanto, dopo aver ringraziato quelle mani che batterono dopo la prova di una scena particolarmente difficile, infine il mio sguardo ricadeva sempre su di lui: Romeo.
Quel pomeriggio volli festeggiare: proposi al cast di tornare nel pub di quella famosa notte, proprio per brindare dei progressi dell’intera compagnia e tutti accettarono di buon grado. Alla fine di quello che fu un semplice aperitivo, ognuno si diresse a casa propria, tranne Steve che decise di seguirmi nella mia.
“E se c’è il tuo fiancé?”, mi chiese. “Non c’è. Ma se ci tieni a trovarlo, allora devi recarti all’università e vai a colpo sicuro. Mentre, nel caso raro in cui ci fosse, che problemi ti fai? Siamo solo amici io e te, Steve.”, gli rivolsi uno sguardo furbo. al quale lui rispose con tono sarcastico: “Ah sì?”, allora mi baciò e dopo aggiunse: “Se lo dici tu…”.
Non vi nego che anche io non ero contenta del mio comportamento; sì, so perfettamente a cosa state pensando: stavo tradendo il mio ragazzo. Ed era vero.
Entrai in casa, e qualche minuto dopo Steve era già in cucina a cercare il cavatappi per aprire il vino che si era portato dietro. E tra l’alcool e la profondità dei nostri discorsi, era chiaro che finimmo diretti in camera da letto. Una volta dentro, per sicurezza, ricordai di chiudere la porta della stanza a chiave, perché nella vita, non si sapeva mai.
Un’ora passò rapida come se si fosse trattato soltanto di una manciata di minuti. Steve era accanto a me che mi leggeva ad alta voce il libro di Goethe che avevo sul comodino “Affinità Elettive“. Io lo ascoltavo mezza assopita, mentre intanto si fecero le nove di sera. Conoscendo Norbert, sapevo che non sarebbe rientrato prima di un’altra ora, quindi, ringraziando per una volta la sua routine, decisi di godermi quel tempo, come la coccola che forse mi meritavo.
Soltanto che, ad un tratto, sentii la porta d’ingresso aprirsi e in quell’attimo a me e a Steve prese un colpo. Ci alzammo di corsa, e mentre lui cercava di rivestirsi, la mia testa navigava così velocemente che io stessa capii di essere entrata in panico.
Finché ci fermammo di botto: e nel mentre che puntavamo l’orecchio a ogni possibile rumore, cercammo di divenire silenzio. E mentre un calpestio di passi prese ad avanzare verso la stanza in cui pretendevamo di non esistere, subito dopo percepimmo che qualcosa stava agguantando la maniglia: la mano di Norbert stava evidentemente provando ad abbassarla per aprire la porta. Eppure, il gesto non fu marcato, tanto che presto la maniglia tornò impercettibilmente nella sua posizione originaria e avemmo la sensazione che la stessa mano si fosse subito ritratta, mollando delicatamente la presa. Con il cuore in gola, sentimmo i suoi passi indietreggiare, la scena sembrava svolgersi a rallentatore. Nuovamente, la porta di ingresso si riaprì e quel visitatore se ne andò, proprio da dove era venuto. Infine, quegli stessi passi si distinsero chiaramente, mentre scendevano le scale.
La via era libera, la mia anima un po’ meno.
Steve colse quel momento per uscire dalla stanza: io mi sporsi leggermente dalla finestra per vedere se Norbert si fosse appostato nelle scale esterne del palazzo, ma lui non c’era. Alla fine, vidi la sua macchina passare nella via e fermarsi davanti al garage: “che sia salito per prendere il telecomando della saracinesca?”, pensai.
Il mio amante -perché non c’era altra definizione ormai- andò via, lasciando in me una tempesta di sentimenti contrastanti e senza ordine: ci avrà scoperti? Era davvero venuto a casa per prendere il telecomando? Che cosa ho fatto? C’era motivo che mi comportassi come una ragazzina totalmente egoista?.
I sensi di colpa mi divorano, eppure decisi di mantenere in viso un’espressione neutra: se non aveva capito niente di quello che era successo, non sarei stata di certo io a farlo insospettire di qualcosa.
Dopo una ventina di minuti, ancora affacciata alla finestra, vidi Norbert che fuoriusciva dal garage e finalmente si dirigeva verso la porta d’ingresso.
Dentro di me, come vi dissi all’inizio di questa storia, sapevo che lui ci aveva scoperti; ero da sempre consapevole che non avrei mai potuto avere segreti per lui e che un intelletto come il suo, non poteva non aver unito tutti i puntini che, come briciole di pane, avevo seminato così poco diligentemente in tutto quel tempo.
Ad ogni modo, mi dissi che dovevo essere pronta ad affrontarlo: appena avrebbe aperto la porta di casa, io sarei stata capace di dire tutta la verità e fare ammenda dei miei peccati. Dunque, mi sedetti sulla poltrona ad aspettarlo. Il cuore continuava a battere forte e avevo la bocca asciutta, per cui mi alzai un attimo per prendere un bicchiere d’acqua e levare i bicchieri del vino che mi avevano fatto abbassare fin troppo la guardia, in compagnia di Steve.
Appena il mio compagno mise piede dentro casa, io mi stavo dirigendo verso la poltrona e con nonchalance mi sedetti. :”Ciao Nor”. Sentendo la mia voce, lui alzò lo sguardo, come se solo in quel momento si fosse accorto della mia presenza. Teneva in mano le bollette e con fare distratto, mi disse: “Tutto bene alle prove, oggi?”. Una domanda fin troppo normale, non potevo negare che ero confusa: “Sì, tutto bene… Ma senti, sei entrato tu poco fa? Ero in camera da letto che mi cambiavo e ho sentito dei rumori in casa.”, decisi di rompere il ghiaccio in quel modo.
Norbert, continuando a leggere la bolletta del gas, mi rispose con un distratto: “Come?”. Alzò nuovamente lo sguardo per mettermi a fuoco: “Ah, sì, sì, ero io che mi ero dimenticato di prendere il telecomando del garage per posteggiare la macchina”.
Non vi nego, che quella conversazione era riuscita a peggiorare la situazione. Mi alzai dalla poltrona realmente agitata e andai in cucina per tentare quantomeno di pensare a cosa avrei potuto cucinare, sebbene avessi lo stomaco chiuso.
Aprii il cassetto delle padelle e lo fissai a lungo. Poi lo richiusi. Dunque mi spostai dal lato del lavandino, aprii lo sportello dei piatti messi ad asciugare e fissai anche quello: com’era possibile che non ci avesse scoperti?
“Che si mangia stasera?”, la sua voce proveniva dallo studio. Cercai il primo oggetto commestibile all’interno di quella cucina e i miei occhi caddero sulla scatoletta di tonno davanti a me: “Eh, tonno”, dissi cercando di darmi un tono e, non convinta di esserci riuscita, ripetei in modo più deciso: “Tonno all’insalata, va bene?”. “Okay.”.
Presi il tonno e nella foga di aprirlo, ruppi la linguetta. Allora presi un coltello, stavo combinando un macello con la mia vita.
Lui aveva abbassato la maniglia, lo ricordavo perfettamente. Ma la aveva abbassata talmente tanto da capire che la camera era chiusa a chiave? Insomma, non serve molto per capirlo. E comunque, ho detto che mi stavo cambiando; è raro che io mi cambi con la porta chiusa a chiave, ma a mia discolpa posso dire che mi sento più sicura a cambiarmi con una mandata, quando sono sola in casa. Dopotutto, quella non è nemmeno la mia città.
Ad ogni modo, dovevo trovare una soluzione dentro me stessa: o andavo nello studio e gli spiattellavo tutto, oppure facevo gli straordinari e continuavo a esercitare il mio mestiere di attrice anche da casa.
Optai per la seconda: condii l’insalata con tutto il contenuto del mio frigo -reparto insalata- e qualche spezia. “Agire come se niente fosse”, mi ripetei più volte a mo’ di mantra e aggiunsi qualche noce perché, vista la mia stupidità degli ultimi tempi, avevo bisogno di un poco di Omega 3 per il mio cervello regredito fin troppo bene all’età del personaggio che stavo interpretando.
Mi sentivo come al secondo atto di una storia in cui mai avrei pensato di finire coinvolta. Quella notte presi una decisione: l’indomani avrei detto a Steve di chiuderla lì; almeno non fino a che non avrei rasserenato quella tempesta che mi portavo dentro e capito il ruolo di Norbert nella mia vita. Intanto, sperai soltanto che il mio fidanzato, per una volta, non avesse davvero capito niente. Dopotutto, il lavoro lo distraeva.
*Le prove generali*
Passarono due mesi da quella sera e in quel tempo io cercai di non cadere tra le braccia di Steve, sebbene lo volessi maledettamente. Voi mi chiederete, perché frenarmi con Steve? Perché non chiudere definitamente con Norbert? E la mia risposta é: volevo delle certezze.
Le cercavo come un’investigatrice: studiai ogni momento speso con il mio fidanzato e ogni attimo passato in compagnia del mio Romeo. E se il primo non riusciva più a trasmettermi gioia di vivere, il secondo me ne trasmetteva fin troppa, tanto che una volta a casa, dovevo forzarmi a tornare ai livelli della Miranda di sempre. Quel sorriso che ogni tanto mi si stampava in viso era peggio di un profumo, un indice di un tradimento avvenuto una sola volta, ma capace di farmi sentire sporca per un tempo indefinito. Eppure, c’era anche poco da fare: io, con Norbert, non sorridevo più così.
Tuttavia, nemmeno con Steve potevo essere me stessa fino in fondo: un pomeriggio affrontammo l’argomento, e dissi che, nonostante quell’unica volta insieme e i nostri continui avvicinamenti in cui la sola regola rimaneva: “guardare e non toccare”, io ancora appartenevo a Norbert e, fintantoché non avrei capito che strada intraprendere, non mi sarei potuta sbilanciare.
Qualche tempo dopo, Steve tentò di replicare, dicendo che non potevo guardare anche il mio ragazzo allo stesso modo in cui guardavo lui; che due occhi che brillano in questa maniera, non possono brillare con la stessa luce per due persone contemporaneamente; che io ero già sua, senza però volerlo ammettere. Diceva anche che la storia con Norbert apparteneva al passato e che io ero troppo legata all’abitudine, per potere sciogliere il nodo. E mentre, nel prestare la mia attenzione a ogni sua parola detta, il mio primo gelato dell’anno si andava sciogliendo in quella stranamente calda giornata di fine aprile, noi così vicini, dovevamo comunque rimanere lontani. E questo, vi assicuro, che non diminuiva il desiderio, il quale adesso cominciava a impossessarsi della mia testa, come mai prima di allora. Ad ogni modo, gli diedi una data di scadenza per la fine dei suoi e dei miei tormenti: dopo la prima dello spettacolo, mi imposi, che avrei preso una decisione.
Eppure, il buono di tutta questa situazione c’era: e cioè che la mia performance in quanto Giulietta andava migliorando a dismisura; non solo ero credibile come amante, ma anche come giovane spensierata. Assurdo, non è vero? E sebbene mi trovassi tanto a mio agio alla presenza di questa persona che la vita mi mise accanto in una città nuova e in cui mi sentivo un’outsider ancora dopo un anno, mancava un qualcosa, un “non-so-che” che potesse darmi la certezza che davvero Steve, potesse essere il mio Romeo.
E così i giorni passavano e man mano ci andavamo avvicinando alla prova generale che sarebbe stata il 15 di maggio. Intanto, l’atmosfera si andava facendo sempre più elettrica in teatro; io stessa prestai meno attenzione ai fatti del cuore, specialmente una settimana prima del grande evento.
Il giorno della prova generale, dissi a Norbert che sarei stata via fino a tardi quella notte. Lui non protestò; perché avrebbe dovuto, dopotutto? In compagnia dei suoi libri, non avrebbe nemmeno notato la mia assenza. E dopo uno sterile in bocca al lupo, io richiusi alle mie spalle la porta di quella che era sempre casa nostra.
Entrata in teatro, non vidi Steve venirmi incontro come ogni volta. A quanto pare, era nel suo camerino a rivedere dei dettagli insieme all’assistente alla regia. Allora, io andai dritta dal regista, che finalmente riprese a salutarmi con dei grandi sorrisoni. “Miranda, sei un fiore questa mattina!” -Sí, certo, come no, pensai. Il maestro continuò: “Allora, oggi riproveremo tante volte la scena della morte apparente del quarto atto. Ti voglio un angelo dormiente; voglio che rimani soave per tutto il tempo della scena e che mi mantieni quella leggerezza del tuo animo candido, anche al momento della tua morte reale. Tutto chiaro?”. “Sí, maestro. Sono pronta.”.
“Non ho dubbi”, disse il regista sorridendo, fiducioso. Chissà, magari anche lui stava recitando la parte del capitano sicuro di sé, mentre la nave era in balia delle onde. “Allora, Giulietta, bevi l’intruglio e muorimi soavemente. Quando vuoi.”.
Avevo una fialetta vuota in mano, e sebbene la trasparenza non mi lasciasse dubbio sul fatto che non ci fosse nessun contenuto all’interno, quel potente sonnifero lo potevo vedere e odorare a pieni polmoni: era l’odore di Norbert.
Dormire, ah quanto sarebbe stato bello dormire. Eppure, non avevo forse dormito per tutto quel tempo? Quel senso di morte che sentii in quei giorni di un febbraio glaciale e turbolento, quando tutto cominciò a smuoversi fuori e dentro di me, tornò a farsi sentire nel pieno della sua tragicità. Tuttavia, era proprio il senso tragico a rendermi fin troppo pesante, come masso che cade da un’altezza infinita; questo, unito a quella stanchezza accumulata dopo ormai tanti mesi senza amore, mi fecero ricadere a peso morto, sulle travi di legno del palcoscenico.
“Ferma, Miranda! Tesoro, che fai? Abbiamo detto con leggerezza! Tu mi sei caduta come un cervo ferito!”. Tutti risero all’ennesima metafora stramba del regista. “Sí, maestro, mi scusi. La rifaccio”. Per altri tre tentativi, non riuscii a essere la ragazza-angelo che mi veniva chiesto. Pertanto, mentalmente sfinita, chiesi di fare una pausa: avevo bisogno di camminare per ritrovare la concentrazione e rientrare nel personaggio. E, cosa più importante di tutte, avevo ancora bisogno di vedere Romeo per poter tornare ad essere Giulietta.
In quel momento, venne fuori Steve dal backstage: era piuttosto serio, ma non mi risparmiò il suo solito sorriso, sebbene questa volta un po’ forzato, donatomi ugualmente alla pari di un fiore. Con una scusa, lo chiamai in disparte e così uscimmo insieme nell’atrio per prenderci una boccata d’aria. Questa volta fui io che mi avvicinai: avevo bisogno della sua leggerezza come stratagemma alla pari del sonnifero per Giulietta, e decisi di cercarla apertamente tra le sue braccia. Steve mi accettò dopo tanto tempo nel suo petto, e seppur senza parlare, l’affinità che ci legava mi faceva percepire che qualcosa non andava. “Tutto ok?” gli chiesi. “Certo Juliet”, così aveva preso a chiamarmi: “Tu, piuttosto, mi vuoi dire cosa ti tormenta questa mattina? Ho sentito da dietro le quinte che hai dovuto ripetere più volte la tua parte, che è successo?”. Non era successo davvero niente, forse soltanto il mio inconscio che cominciava a ribollire, ormai in preda a una sua rivoluzione irrazionale e ancora sconosciuta alla mia razionalità.
“Niente, Steve. Forse non ho dormito bene, ecco perché mi sento più stanca e pesante.”. “Dillo che è tutta una scusa per farti abbracciare!”. “Ammetto che avevo bisogno di vederti per risvegliare la Juliet che è in me.”. Poi ci riflettei un attimo: era davvero così? “E si è risvegliata?”, continuò lui, dandomi un bacio in fronte. A quella domanda, tornai alla realtà e mi scrollai di dosso quei pensieri: “Adesso, sì”, risposi. E, con questa carica, tornai a recitare, cerando di zittire la voce di quell’angelo sempre dentro di me che continuava ad ammonirmi di smetterla all’istante.
Quelle prove, nonostante l’impiccio iniziale, andarono molto bene. Noi due eravamo talmente affiatati, che anche gli altri attori ci fecero i complimenti. Un amico del regista, un giornalista, chiese di intervistarci per un articolo dedicato alle giovani promesse, e tra le tante domande, ci fu anche la seguente: “Data la vostra affinità sul palco, ci chiedevamo se ci fosse anche spazio nella vostra vita privata per un rapporto di questo tipo”. Per primo, fu Steve a rispondere: “Beh, se ci fosse, almeno ci augureremmo che non finisse nello stesso modo dei due amanti shakespeariani”. L’intervistatore rise, ciononostante, io presi subito la parola per chiudere definitivamente quel discorso: “Di certo, si è creata una bella simpatia tra di noi, ma no, nella vita reale siamo soltanto due colleghi e amici sicuramente molto affiatati”. E lo guardai sorridente; lui mi ricambiò quello sguardo, tuttavia rimase serissimo.
*L’altalena blu*
Giustamente, vorrete sapere come si è comportato Norbert con me, in tutto questo tempo.
Lui ha percepito che io mi fossi allontanata, che avessi cominciato a riprendermi i miei spazi. Vero, come già vi ho detto, ho cercato a lungo di continuare a mostrarmi amorevole e di tentare ancora di mantenere un certo dialogo tra di noi. Eppure è impossibile negare che con il passare dei mesi, anche io stavo realmente cambiando. E sebbene, ogni tanto, anche lui provava a colmare quel distacco con una parola gentile e forzata -aggiungerei io-, il resto delle giornate in cui eravamo riuniti, a dividerci c’era sempre la porta -spesso chiusa- del suo studio.
Niente. Non era cambiato niente; dalle mie parole, da quei monologhi ormai lontani, nulla aveva generato un miglioramento. Semmai, più le settimane e i mesi passavano e più mi rendevo conto che il suo lavoro divenne il suo unico amore. Lui ormai era un trentenne barbuto e taciturno, che ogni tanto si alzava per rispondere a qualche chiamata e che si muoveva solo per aprire la porta di casa e andare all’università. Sembrava invecchiato di anni in pochi mesi, quasi che cominciai a chiedermi se quel lavoro, manna dal cielo dal punto di vista professionale, non fosse sbagliato dal punto di vista personale. Ogni tanto, a cena, sebbene non avesse il libro davanti per leggere -dato che gli avevo chiesto la cortesia di non studiare almeno mentre mangiavamo-, trovava ogni volta una nuova scusa pur di non aprire una conversazione con me: ormai soltanto il silenzio avvolgeva la nostra tavola, finché lui, una volta finito, tornava a nascondersi da me, blindadosi con i suoi tomi, da dietro la sua scrivania.
Più che il mio Nor, andava somigliando sempre più a suo padre: tutto quello che aveva odiato di lui e da cui era scappato, come ad esempio la sua anaffettività e il suo carattere silenzioso, ecco che, nonostante la distanza, lo stava comunque raggiungendo, come un triste “dono” a cui il mio vecchio compagno non poteva sottrarsi, perché questo era il volere della sua natura.
Tutti quei ricordi di quattro anni di vita insieme, passati nella mia città del sud Italia e dove lui si trasferì per studio, erano così lontani, che quasi quei due giovani abbracciati in quell’altalena blu ai confini del mare, nella foto in salotto, non ci rispecchiava più.
Era inutile fingere ancora che la nostra storia fosse sempre lo stesso baluardo alzato, visibile da lontano e resistente alle intemperie. Ci aveva travolti un uragano silenzioso, e noi, da bravi affezionati, continuavamo a pretendere che non fosse così. Lui stesso era stanco, lo capivo da tutti i suoi comportamenti. Eppure, per quanto io avessi fatto un grande sforzo per trasferirmi con lui, forse quella convivenza è stata più una benedizione che un danno: abbiamo capito che, crescendo, i nostri pezzi avevano smesso di incastrarsi.
Dunque, il dramma era che né lui sapeva come dirmelo e né io riuscivo a trovare motivi validi per dire a me stessa: “Guarda, cieca che non sei altro! È finita!”.
Non nego che ci furono dei momenti in cui avrei dato oro purché la situazione avesse potuto ritornare quella di un tempo: ogni tanto passavo dal suo studio rischiarato dalla luce della lampada sulla scrivania, e quando la porta era aperta, mi sorprendevo a fissarlo, appoggiata alla parete; in cuor mio, una parte di me era davvero fiera di lui e del suo impegno. La sua persona bastava a ricordarmi che nella vita bisogna sempre lottare per raggiungere i propri sogni, e lui lo stava facendo con le unghia e con i denti, anche col rischio di perdere molto altro. Quelle volte, dimenticavo di avercela in fondo con lui, per come mi aveva messa da parte: a dire il vero, avrei tanto voluto abbracciarlo. Ma anche gli abbracci erano diventati, di punto e in bianco, elementi ridondanti e fuori luogo in quella storia. Allora, lui che leggeva il mio sguardo, sapeva bene che il semplice alzarsi, venirmi incontro e stringermi di nuovo forte, sarebbero stati i primi e timidi passi per ricominciare a sistemare l’impossibile. Eppure rimaneva lì, chiuso in se stesso e nel suo silenzio, che poi divenne anche il mio. Mi guardava e riabbassava lo sguardo, tornando ai suoi libri, mentre io, tornavo nella solita camera da letto, accompagnata dalla mia infelicità.
Ciononostante, quello che non potevo sapere con razionalità, ma di cui avevo sempre dei vaghi e incerti ricordi, era che Norbert mi rimboccava le coperte durante la notte, oppure mi tranquillizzava, quando ero in preda a qualche incubo; uno dei tanti in cui evidentemente il diavolo ero sempre e solo io. L’indomani mattina mi svegliavo ogni volta, come se, di notte, un angelo avesse gettato dell’acqua nel fuoco sulle mie paure. Ma in fin dei conti, sapevo -o meglio- sentivo che lui continuava a vegliare sui miei sogni, seppure fosse così distante nella vita reale.
La sua vita reale: se solo avessi potuto viverla attraverso i suoi occhi, avrei potuto capire molto di più, invece di limitarmi a giudicarla monotona in base a ciò che potevo vedere io.
Ogni tanto, durante quelle chiamate che lo intrattenevano a camminare avanti e indietro nel balcone, mi sono pure chiesta se magari avesse conosciuto un’altra. Tuttavia, ogni volta mettevo da parte quel pensiero, ritenendo che lui non fosse il tipo e che il suo interesse era puramente rivolto al lavoro. A tal proposito, mi ricordava tanto proprio quell’omonimo personaggio della Gradiva di Jensen, il quale sublimò il suo amore, nascondendolo dietro l’esasperata passione per l’archeologia.
Inutile, comunque, dirvi che mi ritrovavo a ridere da sola in modo sarcastico: ero tanto sicura che non fosse il tipo da avere un’altra donna, ma “da che pulpito!”, mi dicevo. A pensarci bene, come lui non era il tipo che tradiva la propria compagna, a regola, nemmeno io avrei dovuto esserlo: e guarda che è successo. Invece, per quanto riguarda il lavoro, lui ha sempre avuto in se’ quella scintilla da primo della classe, stacanovista nel senso buono, che lo facesse arrivare in alto in ogni cosa che intraprendeva, spinto dall’obiettivo di andare via dalla casa dei suoi per crearsi una vita tutta sua. Soltanto che, da una moderata dose di risolutezza, ecco che la sua sete di sapere e di successo professionale, si trasformò in una brama che lo rese un uomo capace di mettere da parte i sentimenti, a riprova che in quella vita che si stava finalmente costruendo, io praticamente non esistevo.
Nonostante tutti questi ragionamenti, era come se la mia mente avesse rimosso il fatto del tradimento. Dentro di me, era come se tutto fosse accaduto attraverso dei banali flirt, con parole sussurrate e sguardi scambiati in segreto, sopratutto a lui. Norbert mi aveva fatto capire talmente bene di non averci scoperto, che il mio cervello aveva voluto prendere quella come unica verità: così, niente era successo in realtà e lui non aveva mai abbassato la maniglia della porta che teneva nascosti me e Steve, ancora su quel letto.
Alla fine di tutte quelle riflessioni che consumavano sistematicamente le mie energie alla pari di un’estenuante scalata sotto al sole di Agosto, mi ritrovavo sempre a dover rimuovere un peso dalla bilancia. Che sia stato Steve o Norbert, oppure che si sia trattato di me stessa a dove lasciare quell’equazione, non aveva importanza: quello che mi premeva in quel momento era di riappropriarmi di una vita felice e coerente con i miei desideri.
Dunque, molte volte tentai di affrontare con me stessa il tema del “lasciare”: lasciare andare le cose, seguendo il loro flusso. Lasciare andare lui e con lui, tutto ciò che era rimasto della vecchia me. E infine, lasciarmi andare a mia volta, aprirmi a ciò che la vita stava decidendo di mettermi davanti. E non posso negare che quando mi soffermavo a fare questo tipo di ragionamenti, l’ansia veniva placata soltanto dal sorgere del volto di Steve nella mia mente.
Con tutto ciò, non avevo intenzione di chiudere la relazione con Norbert, solo per Steve. La decisione doveva provenire da me, dal profondo della mia anima e per delle motivazioni più valide del semplice “chiodo schiaccia chiodo”. Tutte basi che io avevo già bellamente individuato, ma che preferivo ancora tenere lì, in un angolo della stanza come pacchi da riempire, continuando a fingere che quell’ennesimo trasloco -questa volta in solitaria- non stesse arrivando come un presagio dolceamaro.
“Dopo la prima dello spettacolo. Soltanto allora risolverò tutto”, mi ripetei ad alta voce. E così, dopo un caffè corretto con quella miscela di pensieri, mi diressi in teatro ancora un’altra volta.
*In scena*
Il cuore batteva all’impazzata e lo stomaco era in subbuglio. Quell’attimo prima dell’apertura del sipario, un momento in cui il tempo si cristallizza e in cui spesso si odia, si odia profondamente quello che si sta andando a fare, era anche il più magico. Ciononostante, piuttosto che entrare sul palco, marionetta di mille sguardi, avrei preferito scappare altrove, togliermi quegli abiti e ritornare me stessa. Ma io ero Giulietta Capuleti, la protagonista di una tragedia personale che adesso andavo a mostrare agli occhi di tutti.
Accanto avevo Steve, vestito con i costumi di scena e nervoso tanto quanto me. Mi strinse la mano e, nella confusione generale, mi diede finalmente un bacio. Non opposi resistenza: ne avevo bisogno come ossigeno. Appena si staccò dalla presa, entrò in scena.
Dopo un poco, toccò a me. Vi confido che, una volta mosso il primo passo sul palco, tutte quelle ansie e le paure erano come sparite, assopite dallo scricchiolio delle travi di legno sotto i miei piedi. Ero la creatura di Shakespeare e così, avanzai sicura di me sul palcoscenico. Si alzò lentamente il sipario e si diede inizio alla festa. Ricordo che ero talmente entrata nella parte che, in quel momento, la grigia Manchester aveva lasciato il posto a una Verona variopinta alla fine del 1500. In quello scenario con cui cominciai a prendere sempre più confidenza, ecco che rivivevo le relazioni con i miei genitori e gli altri nobili, immersa da colori, canti e balli dai ritmi lontani.
Finché, sappiamo bene cosa successe: io e Romeo ci guardammo. I nostri occhi si incrociarono e si catturarono con un’affinità che non poteva fingere nemmeno il miglior attore.
Alla scena del balcone, non sapevo più se lui stesse recitando o se le sue frasi dette con tanto ardore, fossero realmente sentite. Io stessa non facevo il minimo sforzo nel fingere di essere in preda a un amore puro: “O Romeo, Romeo, perché sei tu Romeo?”. Promettimi di sposarmi dissi nel mio cuore, mentre recitavo quelle parole. In quel momento, tutto mi portava a credere che nel mio futuro, ci fosse stato posto solo per il suo nome e il suo volto: Steve.
E mentre il tempo cavalcava veloce, la tragedia si avviava inesorabile al suo culmine. Io -Giulietta- finsi di accettare le nozze con Paride, ma tenni stretta in mano la preziosa boccetta di sonnifero. Dunque, nel silenzio del mio segreto, la bevvi lontana da tutti e caddi finalmente assopita e leggiadra nel mio finto letto di morte. Tutti seppero della perdita della giovane Capuleti, perfino il povero Romeo al quale non fu recapitata la missiva con le istruzioni per la fuga, a causa della quarantena dovuta alla peste. Ma il nostro innamorato, guidato dalla passione, volle congedarsi ugualmente dalla sua amata Juliet; nella mano il veleno, venne accompagnato da codeste parole:: “E così, con un bacio, io muoio”.
Per farvi rivivere quel momento come se voi stessi foste stati spettatori, il resto ve lo racconterò cosi. La nostra fanciulla si svegliò troppo tardi, e mai si sarebbe aspettata di vedere il proprio amore giacere senza vita accanto a lei. Non fu una decisione a lungo ponderata, fu il suo animo a guidarla in quel gesto repentino e assoluto: per cui, dalla morte apparente in funzione di una vita felice, la visione della realtà la spinse di colpo a una morte reale, cruda e dura, purché la consegnasse per l’eternità tra le braccia del suo Romeo.
Così i Montecchi e i Capuleti accorsi alla tomba dei due giovani amanti, infine si riconciliarono attraverso il sangue del loro sangue. E con un battito di mani reiterato a lungo, il sipario, finalmente, calò su di noi.
Alla sua riapertura ci inchinammo più e più volte. Tutti, a uno a uno, facemmo un passo avanti e quando toccò a Romeo e infine a me, un boato si levò da tutta la sala.
Soltanto per un attimo guardai la platea, cercando Norbert con lo sguardo, spinta da un’irrazionale speranza che fosse lì a sostenermi ancora con un sorriso. Ma non vidi nessuno che gli somigliava e per un attimo, mi eclissai dalla realtà di quel bellissimo momento e mi rabbuiai, nell’oscurità di quella che era davvero la mia vita.
Una volta dietro le quinte, data l’atmosfera di gioia, tentai di scrollarmi di dosso il peso di quei mesi che adesso mi assalivano con ferocia. Ci eravamo tolti un enorme masso che era costato dello Xanax un poco a tutti, tra cui al regista che adesso mi abbracciava con fare soddisfatto. “Hai visto che ci avevo visto bene, Giulietta?”. Lui era l’unico italiano della combriccola, veniva da Roma, e questo, oltre alla sua bravura, lo distingueva maggiormente dal resto.
Tuttavia, più volte girai nel backstage per cercare Steve. Volevo corrergli incontro, abbracciarlo, baciarlo e ringraziarlo di tutto, oltre a complimentarmi con lui.
Eppure, senza che me lo aspettassi, venni interrotta da un enorme mazzo di fiori che mi fu messo davanti al viso: era Norbert.
Ci misi giusto un attimo per realizzare che era veramente lui e che era lì. Non potei camuffare la sorpresa: “Non posso crederci, sei venuto?”. “Certo che sono venuto; sei stata brava Giulietta.” e così dicendo, mi venne vicino e mi strinse forte. Reputo ad oggi che fosse genuinamente contento di vedere come la mia passione avesse continuato a spingermi sempre più in alto, nel mio mestiere. “Ad ogni modo” continuò, staccandosi da me: “ti aspetto fuori, torniamo insieme a casa stasera, se ti va.”. Quella sola scena era stata di gran lunga più surreale rispetto a tutto ciò che era successo prima. Non è da tutti i giorni venire catapultati a fine ‘500, e contemporaneamente, vedere l’uomo che ti ha ignorata per mesi, tornare a notarti di nuovo. Io accettai, realmente contenta di quella sua proposta, ma lo dovetti momentaneamente salutare, dovevo ancora svestire i panni di Giulietta per tornare Miranda.
Ma prima di farlo, però, volevo davvero salutare Steve, quindi decisi di chiedere di lui. Ognuno mi diceva cose diverse: “sta rispondendo a un’intervista”, “sta facendo delle foto”, “si sta cambiando”. Era come se Romeo fosse sparito fisicamente da quel luogo: era ovunque e da nessuna parte, in una volta. Così, decisi di andare a cambiarmi, ma mentre mi avvicinavo al camerino, da un angolo sentii il seguente scambio di frasi:
“Hai fatto un ottimo lavoro con lei. Quell’amore, Romeo, era quello che ci serviva per farla sbloccare e far fuoriuscire la Giulietta di cui avevamo bisogno.”, era la voce dell’assistente alla regia. “Susan, lei ha fatto tutto da sola. Io non c’entro niente”. ” Dai, Steve, non mi dire che ti sei affezionato alla ragazza… Guarda che ci rimango male.”. A quelle parole mi affacciai silenziosamente nella stanza da cui proveniva quella paradossale conversazione, e li beccai giusto nel momento in cui Susan, la famosa aiutante, gli stampò un bacio appassionato sulle labbra.
Mi mancò l’aria, tanto che i due mi sentirono, poiché, nell’indietreggiare, andai a sbattere sull’attore che aveva interpretato Tebaldo. Steve si staccò subito da lei e mi corse dietro, quando intanto io correvo verso il mio camerino, cercando di slacciarmi il corsetto del vestito. Arrivata lì davanti, entrai come un lampo e mi chiusi dentro a chiave , ancora con quel falso Romeo che dava pugni alla porta perché lo facessi entrare. Non dissi niente per tutto il tempo del suo monologo: “Non è come pensi, Miranda! O meglio, forse all’inizio è andata così, è vero, volevamo fare uscire il meglio di te. Ma questo solo perché credevamo nelle tue potenzialità”. E nel mentre io pensavo a quanto fossero stronzi coloro che in un mondo completamente disumano avessero potuto inventare quel nuovo tipo di metodo Stanivslaskij.
“Il punto è che noi, noi attori soltanto -e non il regista- pensavamo di poter risaltare di più se lo avessi fatto anche tu che eri Giulietta. E lo vedevamo come soffrivi all’inizio, per il trasferimento e tutto, quindi è stato spontaneo per me, starti così vicino.”.
Che bugiardo patentato, ha dovuto fare una scuola di recitazione nella migliore accademia di Londra per esserlo. Ecco, un altro uomo che rigira la realtà per farmi vedere le cose con i suoi occhi, per come conviene a lui e non chiaramente a me. Ecco, inoltre, un altro esempio di uomo che mette da parte i sentimenti altrui, per andare avanti con la sua carriera, per risultare migliore. Che amarezza.
“Miranda, ho sbagliato. Ma mi sono affezionato davvero a te, in questo periodo. E con Susan, con Susan è una storia vecchia. Di recente, dato che tra noi non c’è stato più niente, si è riavvicinata. Ma devi credermi, non conta niente! Apri questa porta e ne parliamo, dai.”.
Dopo qualche minuto di orologio, una volta riappropriatami della mia identità, decisi di farmi forza e uscire di lì. Nel frattempo Steve si era calmato; tuttavia, sapevo che era seduto, con la schiena appoggiata al muro, alla sinistra dell’uscio, in attesa che mi facessi viva.
Nel momento in cui girai la maniglia, appena mi vide, si apprestò a parlarmi; eppure bastò un attimo per ammutolirlo con un gesto della mano. Con tono serio e lo sguardo pungente mi congedai con una sola frase, tagliente come mille coltelli: “Oh Romeo, meno male che non sei tu, Romeo.”
Non osò seguirmi.
Io uscii dal teatro e, una volta in strada, cercai in doppia fila la macchina di Norbert che era rimasto lì ad aspettarmi. Allora entrai e partimmo.
*Sipario*
“Mi hai colpita stasera, Miranda. Ho rivisto in te quella che eri un tempo”, fu questo il commento che spezzò il silenzio tra me e lui, mentre superavamo in velocità le strade del centro di Manchester. “In che senso Nor? Io sono sempre stata io.”.
Lui ignorò la mia domanda e proseguì con un tono calmo e pausato: “Sei stata una Giulietta molto convincente. Per non parlare di quel bacio con Romeo; sembrava quasi che vi amaste per davvero.”. In quel momento il sangue mi andò alla testa: “Ti ringrazio”, dissi guardandomi le gambe, mentre in tono sommesso aggiunsi: “ho fatto solo il mio mestiere”. Fu in quel momento che tornai a sentirmi totalmente in balia dei sensi di colpa che riemersero a galla come spinti da un salvagente. Allora capii che loro non erano mai andati via .
Dopo un silenzio durato un’eternità, tanto per rompere quell’atmosfera così glaciale, ormai consapevole che lui avesse sempre saputo tutto, tornai a rifargli la domanda di prima: “Cosa intendevi poco fa, con il fatto che hai rivisto quella che ero una volta?” Ripeto che nulla è mai cambiato, in me.” Mentivo.
“No, Miranda”, disse Norbert in tono secco. Io stavo per rispondere e chiedere spiegazioni, ma fu lui, questa volta, a continuare: “…e questa è stata, in parte, anche colpa mia.” Ero rimasta senza parole, un’ammissione del genere non me la sarei mai aspettata in quella situazione, specie da parte sua: “Io non sono stato io e, di conseguenza, anche tu sei dovuta cambiare per tentare di adeguarti a me”. Non osai fiatare, finalmente, a parlare, era lui.
“Mi dispiace se ti ho fatto soffrire per la mia distanza, sopratutto mi dispiace del fatto che dalla genetica non si sfugge, e che vado diventando sempre più come mio padre”, sapevo quanto lo facesse soffrire questo punto. Riprese a parlare: “Nonostante ciò, anche tu mi hai fatto soffrire.”.
La vera bomba stava scoppiando in quell’istante, tanto silenziosa, quanto mortale: e noi ne fummo facile prede, intrappolati com’eravamo nei sedili anteriori di quella macchina che ci stava conducendo a casa nostra, forse per l’ultima volta. “All’inizio ero preso dal senso di colpa nei tuoi riguardi, perché era come se non riuscissi a governarmi. Questo lavoro andava diventando come una droga, e man mano diveniva anche un modo per non sentire il tempo che passava, per non vedere noi che invecchiamo”. “E non è un bene se noi invecchiamo, insieme?”, chiesi cautamente. “Non lo so. Se da più piccoli ero sicuro che anche invecchiando ti avrei resa felice, adesso comincio ad avere seri dubbi.”.
Io davvero non capivo: se si ama qualcuno, non si cerca un minimo di smussare gli angoli?
Presi coraggio, anche se da quale pulpito potevo parlare? Eppure le domande vennero fuori da parte di quella vecchia Miranda, lasciata in un angolo da lui, nel primo periodo di quella convivenza: “Non ce la fai proprio a fare un passo verso di me? Ad aprirti un minimo di più? A cercare conforto tra le mie braccia, come facevi prima?”. Lui fece silenzio, ci pensò a lungo e poi mi rispose: “No. E non che io non voglia -e questa è la vera tragedia-, ma non ci riesco. So che non posso darti più di così. Si è creato un muro tra di noi e non so se sia stato per il trasferimento, per la convivenza o…” terminai io la sua frase “…o per il lavoro”. Lui annuì, sapeva ormai che non era più il semplice scegliere tra me o la sua carriera, ma scegliere tra lui stesso e la sua carriera.
“Nor, oltre ad essere la tua fidanzata da tanti anni, sono sempre stata anche la tua migliore amica. E in qualità di tua confidente, pretendo che tu mi risponda sinceramente a questa domanda: questo lavoro, ti rende felice?”. Di nuovo una lunga pausa, poi la risposta: “Sì e no, Miranda. No, perché non è proprio il lavoro dei miei sogni, ma è sicuramente una via, la scala per raggiungerlo. Ancora no, perché mi allontana dal resto del mondo, ma se questo è il mio obiettivo, non c’è altra scelta. E invece sì, perché mi sento esattamente dove devo essere.”.
Non serviva altro.
Infine, aggiunse: “Tuttavia”, fece una pausa per trovare le parole, “sebbene io non sappia tuttora definire con certezza la causa primaria che mi abbia allontanato da te e per cui mi sono colpevolizzato per tanto tempo, di sicuro c’è un fattore concreto e reale che ha calcificato questo muro fino a renderlo una barricata.”, nel dire quella frase, continuò a guardare dritto a se’ la strada che rimaneva da percorrere. Sapevo perfettamente a cosa si riferisse e di chi stesse parlando. Lo lasciai finire: “Ma entrambi siamo troppo noi stessi per parlarne.”
Io che tenevo lo sguardo basso, a quel punto non potei trattenere le lacrime: avevo contribuito alla rottura di quella storia. Strinsi i lembi della gonna che mi copriva le cosce e cominciai a piangere: avevo miseramente fallito. Perché, sebbene ognuno avesse avuto la sua parte di colpa in questa relazione, di sicuro, quell’unica e sola esperienza avuta nella camera da letto aveva compromesso la fiducia del mio compagno, per sempre.
Capii che la nostra macchina ci stava portando inesorabilmente a un bivio: non saremmo mai più tornati quelli di prima. Servivano tanti elementi per ricucire quella storia e uno di questi era il perdono: sia da parte sua, per il mio grande errore, che da parte mia, per quel mio stesso grande errore. Per il resto, decisi di mettere momentaneamente da parte la delusione dovuta al suo stacanovismo e la conseguente rabbia che provavo nei suoi confronti: quel suo inaspettato mea culpa capace di infrangere il silenzio, aveva appianato alcuni degli attriti, seppure potevo ancora sentire degli spuntoni pungermi e farmi male.
Tuttavia, non aveva più senso addossare la colpa alle cause che avevano generato le mie scelte: c’ero sempre stata io al comando della mia nave e avrei potuto porre un freno alla situazione fin da subito. Magari avrei dovuto insistere di più, parlare con Norbert, smontare quella parete che aveva creato ancor prima del misfatto e capire quel suo senso di colpa. Ma scelsi la strada dell’ego: fui sorda ed egoista. L’antieroina di questa storia, compresi di essere io.
Non parlammo più per tutto il tragitto, entrambi sapevamo che ci eravamo appena addentrati nell’atto finale della nostra relazione. Nonostante ciò, quella sera, io e Norbert cenammo come una vera coppia di fidanzati: ci versammo del vino e rimanemmo vicini, ancora un’ultima volta. Anche se non ce lo dicemmo, quella era la fine e come tale, la onorammo per come onoravamo tutti i nostri anni passati insieme.
L’indomani mattina, mi svegliai tra le sue braccia: era strano come tutto stesse cambiando, seppure al di fuori, tutto sembrasse così invariato. Norbert parlò per primo: “Quindi hai deciso? Te ne vai?”. Era il momento di dirci in faccia la realtà: “Si Nor, ho deciso. Faccio le valigie e torno in Italia in settimana. Lascerò ovviamente la compagnia, tanto mi sostituiranno senza problemi.”. A quelle parole, lui mi strinse più forte, ma ciò mi spezzò il cuore.
Non posso negare di essermi sentita smarrita in quel momento: perché nonostante tutto quello che era successo, nonostante il dolore che gli avevo procurato e la rabbia nei miei confronti, lui era lì ad abbracciarmi. Il suo animo buono, conosceva l’importanza di mettere la parola fine in modo umano, tale da non ritrovarci -né io e né lui- perseguitati a vita da quei fantasmi chiamati rimorsi. Perciò, con un tono tra la tristezza e l’accettazione, mi disse: “Hai ragione. Non posso trattenerti qui ancora per lungo. Ti chiedo scusa se ti ho imprigionata.”, io lo guardai con rimprovero: “Tu non mi hai tenuta qui, legata contro la mia volontà. Il tentativo lo abbiamo fatto entrambi e questo è onorevole.”, gli dissi, accarezzandogli i capelli. Per quel solo attimo, forse consapevole di ciò che stava per accadere, Norbert era tornato quello di un tempo e questo rendeva la separazione molto più difficile.
In quel momento di congedo, trovai il coraggio di domandare ciò che, dopotutto, mi ero chiesta per tutto quel tempo. Quel silenzio che lentamente aveva logorato l’unica coperta che ci riscaldava entrambi, doveva essere combattuto con le parole: “Nor, ti posso fare una domanda?”, “Dimmi”, rispose lui in tono sereno dopotutto. “Se hai sempre saputo tutto…”, feci una pausa per trovare le parole e la forza di continuare: “perché non hai mai detto niente? Perché non hai urlato, prendendotela con me? Perché te ne sei rimasto in silenzio, a soffrire, senza nemmeno reclamare i tuoi diritti?”.
A quelle domande che uscirono come mitragliatrice dalla mia bocca, Norbert tolse il braccio da sotto la mia testa. Il suo corpo richiedeva spazio, voleva parlare senza essere offuscato ancora dalla mia presenza: “Perché quel tipo di delusione che mi hai recato tu, mi ha ferito talmente tanto da ammutolirmi. Non ho avuto la forza di parlarti, né di affrontarti, perché la rabbia mi avrebbe solo spinto a cacciarti di casa, senza neanche riflettere un attimo sui perché, su tutti quei motivi che ti hanno spinta a fare qualcosa del genere. Eri la ragazza migliore del mondo, lo sei sempre stata ai miei occhi, e in qualche modo sempre lo sarai, sebbene non sia riuscita a fare a meno di tradirmi.”. Lo aveva detto. Il misfatto si era finalmente materializzato nella stessa camera da letto in cui si era generato. Tutta quella conversazione era come una pugnalata dritta al cuore, ma io dovevo continuare a mandarla avanti, fino a esaurire ogni discorso, fino ad arrivare esausti, a lasciarci con un bacio non troppo intriso di rancore. “Che intendi? Quali sarebbero i perché che mi hanno spinta a fare questo errore madornale, secondo te?”. Lui finalmente si era aperto, e questa fu l’unica magra consolazione: “Il mio senso di colpa per ciò di cui abbiamo parlato ieri, mi ha portato a chiedermi se fossi in diritto di dirti qualcosa, dato che è stato un po’ come se ti avessi spinto io tra le sue braccia, attraverso il mio comportamento. Eppure, dall’altro lato, il dolore non mi ha permesso di parlartene e così ho innalzato una doppia parete in quel muro che già avevo levato tra di noi. Oggi, in tutta razionalità, posso dirti che non è stata completamente colpa tua, e sebbene non riesca ancora a perdonarti, io ti conosco e so che il solo pensiero di ciò che hai fatto, unito al mio silenzio che in fondo hai sempre un po’ capito, ti hanno tormentato per tutto questo tempo.”
Non dissi una parola: lui le aveva dette tutte per me.
Al che, ciò che rimaneva del mio fidanzato, mi fece soltanto un’ultima domanda: “Lo ami? Dico, Romeo, ne sei innamorata? So che gran parte della forza che ti ha fatto andare avanti in questi mesi è dipesa da lui.”. A quelle parole, mi voltai a guardarlo negli occhi questa volta con sguardo deciso; mi sentivo come se avessi finalmente risolto un estenuante rebus che mi aveva tenuta impegnata per tanto tempo. Per cui, in modo sicuro e realmente coerente con i miei pensieri, gli risposi: “Ti sbagli. Quel Romeo – Steve- non c’entra niente. É vero, l’attrazione c’è stata e mi ha depistata; addirittura l’ho scambiata per una reale infatuazione, ma non era altro che fumo che poi è svanito dal momento in cui mi hai finalmente rivolto il tuo sguardo. Non sono riuscita a contrastare il suo effetto calamita, perché mi sentivo una debole. Senza i tuoi occhi su di me, avevo perso forza ed è stato capire questo, che mi ha fatto più paura. So che questo non diminuirà la tua rabbia, ma c’è stato davvero un periodo in cui l’ho voluto allontanare con tutta me stessa e, contemporaneamente, ho voluto tenere lontano anche te. Questo perché avevo bisogno di imparare a camminare da sola in questo mondo. Il mio comportamento è nato all’inizio per capire cosa volessi, per ascoltare i miei desideri e cominciare ad agire in base ad essi. Ma successivamente, capii che dovevo imparare una lezione ancora più importante da tutta questa situazione: che se davvero dovevo tornare a brillare, allora la luce doveva nascere da me e da nessun altro. Per cui, alla fine dei giochi, ho capito soltanto che quella grinta che tutti volevano tirare fuori dal mio personaggio, è sempre stata mia.”. E per un fugace istante, mi soffermai a pensare come l’arte fosse riuscita davvero a curarmi nuovamente e come, effettivamente, dopo la famosa “sera della prima”, io mantenni la promessa e riuscii a mettere un punto definitivo a quella fase della mia vita.
Norbert colmò un’ultima volta la distanza che ci aveva diviso così a lungo, giusto il tempo di un dolce e ferito bacio sulla fronte e una carezza sul viso. Non mi guardò nemmeno, si alzò dal letto, mise in un borsone qualche vestito e infine uscì da quella che, ormai, non era più la nostra casa.
Non lo vidi più da allora.
*Giulietta e… Giulietta*
Una settimana dopo, come da copione, una volta spediti tutti i pacchi e preso con me le mie ultime valigie, mi diressi all’aeroporto per tornare in Italia, in compagnia di me stessa.
Qualche giorno prima passai dal teatro per congedarmi. Soltanto due persone erano davvero tristi per la mia scelta: Steve e il regista. Per quanto riguarda quest’ultimo, ci ripromettemmo di rivederci in Italia -qualcosa che effettivamente avvenne avanti negli anni-, mentre per quanto riguarda il mio ex partner, lo salutai e in cuor mio quasi lo ringraziai: il dolore che mi aveva inferto, mi aveva davvero insegnato tanto.
Uscendo da quel teatro e nel viaggio di ritorno verso un appartamento sempre più vuoto, ebbi la certezza di amare ancora il mio Norbert, nonostante tutto. Tuttavia, mi dissi che l’amore non bastava, quando nel mezzo c’erano tanti spilli che ci avrebbero continuato a ferire a ogni passo.
Smisi anche di chiedermi chi avesse potuto essere il mio Romeo, mi sentii a un tratto cresciuta per questo: Steve si rivelò un personaggio secondario che, pur tuttavia, mi fece capire il ruolo di Norbert nella mia vita. Perché nemmeno il mio neo-ex potevo nominare Romeo, no: lui era Norbert, solo Norbert, il mio imparagonabile grande amore.
Ma, ora mi chiedo: quella stessa protagonista shakespeariana, che tipo di Giulietta sarebbe stata in un’esistenza senza Romeo? Se entrambi avessero avuto una vita serena, neanche Shakespeare si sarebbe interessato a loro. Eppure, i due amanti si condussero per mano fino alla loro fine e che poi venne a coincidere con l’inizio della loro stessa eternità. Finalmente, dopo una vita divenuta turbolenta a causa dell’amore, approdarono con coraggio e follia all’immortalità delle loro anime indissolubilmente legate.
La verità, pensai, è che siamo abituati a sentire nominare questa bellissima tragedia, chiamandola con il nome dei due protagonisti: “Giulietta e Romeo”.
E se cambiassi le carte in tavola? E se uno dei due avesse continuato a vivere in un mondo dove l’altro aveva smesso di esistere? Dunque, seguendo il mio pensiero, adesso io -in quanto Giulietta rediviva- decido di cambiare il corso degli eventi, e che Shakespeare mi perdoni per questo esperimento. E così, ribattezzo la sua storia con un nuovo nome, adatto alle conseguenze di questa sua resurrezione solitaria: “Giulietta e… Giulietta”, ripetei a me stessa.
In questa mia versione apocrifa, c’era solo una Giulietta che si rialzava dal suo lungo sonno e ricominciava a camminare come un Lazzaro redivivo, unicamente in compagnia di se stessa. Nessun Romeo le avrebbe indicato la via, poiché questa volta, lei avrebbe continuato a crescere anche senza di lui.
Sarebbe rimasta sola? Avrebbe incontrato un altro, dimostrando che anche Romeo era intercambiabile come tutto, del resto? Che l’attrazione, che la chimica, l’affinità che unisce due calamite avesse effetti anche su di lei? Purtroppo tutto questo non c’era dato sapere, tanto che nemmeno Shakespeare si era addentrato fino a lì, evitando di sporcare la purezza del sentimento con le mille distrazioni che la vita ci mette davanti per tentarci di continuo. Per cui, anche io fermo il mio ragionamento alle soglie di una totale irriverenza.
Eppure da ciò, comincio a trarre le mie conclusioni: una delle tante lezioni che appresi, fu che io non ero più Penelope e nemmeno una Lady MacBeth; piuttosto ero Miranda, altro personaggio shakespereano in balia della tempesta. E come tale, perfino io venni fuori dalla mia.
Ammetto che, ad oggi, non rimpiango di aver ritrovato quel caos nel mio cammino; consapevole che senza la tragedia, non saremmo capaci di saper godere del bello che tinge di colore le nostre esistenze. Difatti, se la mia vita non fosse stata sconquassata in certi momenti dalle onde che mi hanno fatto sbattere sugli scogli fino a farmi male, io non avrei mai potuto forgiare il mio carattere. In quel modo, non sarei nemmeno riuscita a evolvermi, come dimostrò di fare Giulietta tramite il suo gesto finale tanto assurdo, se paragonato con la sua indole all’inizio della vicenda. Allo stesso modo, anche io imparai che non sarei voluta rimanere in eterno una fanciulla, alla quale mai sarebbero mai stati iniziati i segreti -gioie e dolori- della esistenza; piuttosto che evitarla, preferivo combattere nella tempesta per venirne fuori sì ferita, ma pur sempre eroica.
Quell’attrazione che mi aveva fatto legare a un’altra persona, fu generata dall’assenza di una persona e dalla chimica con un’altra. Eppure, avevo con me l’arma migliore di tutti per combatterla: la volontà. Perché, invece, la mia fu tanto offuscata? Perché non riuscii a vedere chiara la via in cui mi stavo immettendo? Faticai a lungo per trovare le risposte, ancora in balia di un angelo che mi bacchettava. Eppure, la lezione che ricevetti qualche tempo dopo, mi insegnò che io evidentemente dovevo sbagliare strada proprio per ritrovare il mio cammino.
Con il senno di poi, dunque presi la decisione migliore: quella di non avere paura di mettermi in gioco, cambiare strada, sbagliare ancora, ricominciare; in una parola crescere. Tuttavia, da quella esperienza in poi, mi giurai che nei bivi della vita, avrei dovuto chiamare in causa sia il cuore che la razionalità, consapevole del mio ruolo da mediatrice tra le parti. E seppure il pensiero di aver fatto soffrire qualcuno è riuscito a farmi titubare per un attimo sul mio percorso, mi sono sempre risposta che anche quello faceva parte di un piano che non ero stata io a prestabilire.
Pertanto, imparato ciò, ho deciso di mostrare le mie ferite come medaglie al valore. Io stessa, più in là negli anni, riuscii a perdonarmi degli errori compiuti, proprio perché figli di una me che non ero ancora io. Grazie a quelli capii a quale versione migliore di me stessa avrei voluto ambire, e ci riuscii imparando a domare e conciliare i Pro e i Contro della mia anima. I miei comportamenti passati e che procurarono del male a me e a chi mi stava intorno, oltre a tutti quei pensieri incoerenti con i miei desideri, appartenevano ormai soltanto alla ragazzina che poi smisi di essere. Quei miei sbagli mi ricordarono inoltre che, se il destino ci avesse risparmiato parte di quel dolore, con il suo rimescolare le carte di una vita tranquilla tanto da complicarla esponenzialmente, nessuno dei due – né io e né il mio amato Norbert- sarebbe diventato la persona che, ad oggi, è. E proprio per questo non c’era spazio per i rimpianti: per quei “se” e “ma” che sono incapaci di essere manipolati, una volta che si è fatta una scelta. Al contrario -e qui lo ripeto- noi ci trovammo esattamente dove ci dovevamo trovare e facemmo esattamente quello che dovevamo fare, pur nella città sbagliata e in una relazione con la data di scadenza. Lui con i suoi comportamenti -come lame su di me- e io con i miei – come spine dentro di lui-: così noi ci ferimmo, così noi ci forgiammo.
E lo stesso ragionamento vale anche per la nostra storia: seppure sia giunta al capolinea, proprio per il semplice fatto di essere esistita, ci ha portati esattamente dove dovevamo essere. E proprio la sua fine ha sancito il nostro coraggio e la nostra maturità: abbiamo scosso il nostro torpore e così abbiamo divelto le inferriate dell’abitudine; abbiamo capito che lasciarsi non era una sconfitta, ma significava accettare che il nostro tempo insieme, si era esaurito.
Una bellissima rosa con le sue spine, questo è ciò che è stata la nostra relazione. E sebbene questo fiore così delicato seguì facilmente la sua sorte, appassendo troppo in fretta, il ricordo del suo profumo è rimasto indelebile in eterno nella mia memoria.
***
Un giorno mi fermerò.
Un giorno mi fermerai.
Ma non è questo il giorno.
***
Come dite? Anche se ho smesso di paragonare tutti gli uomini a Romeo, volete ugualmente sapere se poi sono riuscita a trovare qualcuno che vi si sia potuto avvicinare? Voi che siete arrivati a leggere fino a qui, come posso non accontentarvi.
Dunque, grazie alla pratica del “lasciare andare”, una volta che la mia anima fu pronta e in equilibrio con i miei desideri, rinunciando al superfluo, ho davvero fatto spazio a ciò che stavo veramente attirando.
A distanza di anni, la mia vita e i suoi giri mi riportarono in Inghilterra con occhi più maturi e un cuore più coscienzioso. Ricordo che era Maggio e gli alberi si andavano colorando di tanti fiori dalle tinte delicate; fu in uno di quei pomeriggi che, nel bel mezzo delle mie passeggiate, notai un uomo che se ne stava seduto su una panchina di un parco di Londra. Io mi avvicinai e vidi che stava leggendo Romeo e Giulietta. Lui, alzando gli occhi verso di me, mi disse con tono dolce che gli sarebbe piaciuto rivedere prima o poi un suo rifacimento teatrale. Allora presi posto accanto a lui, e ricordo ancora come, a partire da quel pomeriggio, non smettemmo più di parlare.
Se era Norbert o non era Norbert, questo non posso rivelarvelo.
Ma, dopotutto, anche questa
è un’altra storia.
Aggiunta dell’Autore:
A voi, cari lettori, che siete arrivati fino alla fine di questo breve racconto, scritto tra le mie mura bolognesi durante il primo lockdown, chiedo, qualora conosceste qualche giornale online o cartaceo disposto a pubblicare, di scrivermelo nei commenti o di inviarmi una mail all’indirizzo rossittovaleria@gmail.com .
Grazie di cuore del vostro affetto.
Valeria