Racconti, Racconti & Poesie

Foglie gialle e neve

Una giornata intera a camminare per la città. A vagare tra vicoli e vicoletti, sperando che i tanti volti, rumori confusi e musiche passeggere riuscissero a spegnere i pensieri.
Richard è sempre stato così – pensai- sempre pronto a farmi ricredere. Quando le cose andavano bene, non ero mai tranquilla: sapevo che ben presto sarebbe arrivata la tempesta. E poi in quei tanto temuti giorni di bufera, la pioggia torrenziale, di colpo, si trasformava in soffice neve che, paradossalmente, irrazionalmente e follemente ci riscaldava i cuori.
Anche quella mattina successe qualcosa di simile. L’alba era dorata tra le sue braccia, il venticello faceva muovere le persiane di legno e si sentivano i bambini ridere dal parco accanto al nostro palazzo. New York e le sue strade, New York e tutti gli scenari che il mattino andava a risvegliare. E tra questi c’eravamo noi, distesi sotto le coperte nel letto caldo, mentre ognuno si ridestava dai propri sogni.
Mi disse buongiorno a bassa voce, mi baciò sulla fronte, mi sistemò meglio le coperte e si alzò per andarsi a preparare. Io come ogni mattina lo sentii ad occhi chiusi e dentro di me sorrisi; tentai pure di afferrare il suo braccio per trattenere l’alba ancora un poco insieme a me, ma lui, delicatamente si liberò.
Quella delicatezza, quanto la temevo a volte: perché era con la delicatezza che, quelle volte, riusciva a farmi ingoiare le pillole peggiori.
Mentre mi svegliavo, sentivo l’acqua scendere nella doccia. Pensai a quanto potesse cambiare la percezione di un oggetto, se a utilizzarlo è chi ti sta più a cuore. Quando era lui a usarla, per le mie orecchie quella doccia suonava, mentre se a usarla era qualcun altro, non si trattava nient’altro che di acqua pesante che, a forma di gocce, cadeva e sbatteva ovunque come proiettili.
E questo era lui per me: un uomo che, ai miei occhi, trasformava in oro tutto quello che toccava: e purtroppo anche ciò che era più lontano dall’oro.
Allora mi alzai, andai a preparare il caffè per entrambi, aspettando pazientemente che lui mi raggiungesse. Il venticello si alzava, faceva freddo e io trovai una sua felpa per coprirmi, mentre già cominciavo a sentire l’odore del caffè provenire dalla caffettiera.
Richard entrò in cucina e senza nemmeno guardarmi prese la sua tazzina già riempita, vi versò un cucchiaino di zucchero di canna, lo bevve, si fermò, non mi guardò nemmeno. Allora si girò verso di me -non mi guardò-, trovò intuitivamente la mia testa per darmi un bacio senza ancora guardarmi, disse “ciao” o “a più tardi”- non ricordo- e , senza guardarmi neanche mezza volta, raggiunse la porta, l’aprì, la richiuse, poi andò via.
New York in autunno sa riempirti il cuore con il suo essere molto pittoresca e colorata, eppure certe mattine sa come farti sentire vuota, sola, una straniera in mezzo a tanti solitari.
Guardavo dalla finestra della cucina, superavo con lo sguardo le scale antincendio e vedevo Richard andare via in sella alla sua moto.
Sapevo che si stava avvicinando l’inverno, ma non ero mai pronta all’idea che il tempo potesse cambiare così repentinamente, minacciando di nevicare quando ancora le foglie gialle andavano scoprendo via via tutti gli alberi della città.
Quello che feci, fu ricoprire il vuoto generato da quella porta di casa chiusa tanto velocemente,  con la musica mista ad acqua della mia doccia. Mi vestii, cercai di ripassare mentalmente la routine, sintonizzando la mente solo con i miei impegni. Allora cercai le chiavi e, infreddolita al pensiero di dover uscire, mi misi il suo cardigan marrone; quello che rimpicciolii per sbaglio in uno dei primi lavaggi -in uno di quelli che in realtà volevo fare con il cuore e che finivano in teneri e per me imbarazzanti disastri-.
Almeno in quel modo, lui mi poteva abbracciare per tutta la giornata, pensai indossandolo.
“Stavo elemosinando l’affetto”- mi dissi mentre abbottonavo il cappotto e mi richiudevo la porta alle spalle, proprio come lui aveva fatto poco – o già molto- tempo prima.
Stavo elemosinando silenziosamente qualcosa che non avevo, o meglio, qualcosa che non era stabile. Non dovevo lottare per un posto, non dovevo andare a letto la sera pregando di ritrovarlo ancora lì la mattina. Non dovevo sentirmi fortunata di passare un altro giorno con lui o di vedere che lui mi dedicava un momento in più della sua giornata. Al contrario ero io che dovevo scegliere ogni giorno se volevo passarlo con lui ed era lui che doveva ritenersi fortunato della mia presenza e della compagnia della mia testa.
Arrivata a lavoro, cercai di distaccare i miei pensieri dal  cuore per collegarli al mio senso del dovere. Le ore passarono veloci, tranne per quei momenti in cui guardavo l’orologio e automaticamente il mio pensiero volava da lui.
Nessun sorriso, nessuno sguardo, non una parola. L’alba dorata aveva lasciato il posto a una mattinata dal cielo grigio e ventoso, ed io avevo solo un cardigan rovinato a riscaldarmi.
Così, dopo il lavoro che da un lato pregavo che non finisse, decisi di passeggiare fino a una meta indefinita.
Una giornata intera a camminare per la città. A vagare tra vicoli e vicoletti, sperando che mille volti, rumori confusi e musiche passeggere riuscissero a spegnere i pensieri.
Sarà tornato a casa? Questa volta tornerà? Devo ancora dipendere dalle sue scelte giornaliere o “finalmente sceglierò”?
Forse fu all’uscita della metro che, per la prima volta arrivò un pensiero che, tra i tanti, riuscì a rincuorarmi. E allora mi ci aggrappai, mi ci aggrappai potentemente con tutte le forze che avevo. Il ragionamento era questo: lui avrebbe anche potuto scegliere di non volermi più, ma nel dubbio, in quell’insicurezza che avrebbe segnato le mie giornate future più prossime di un’assenza marcata, proprio lì, io avrei trovato la mia libertà. La libertà da una presenza chiaroscurale con molti tratti ombrosi; una libertà da dei fili che, muovendosi, cambiavano le espressioni del mio viso ogni giorno e anche più volte al giorno. Una libertà che ritrovavo nel decidere io stessa dei miei stati d’animo, di pilotarli verso l’alto, senza che nessuno me li buttasse violentemente e rapidamente giù con l’arrivo di qualche nuvola. La libertà di non sentire piccoli pugni nello stomaco ogni volta in cui un piccolo gesto mancato o uno sguardo non percepito mi facessero sentire la ruota di scorta, utile per un mondo che teme la solitudine.
Abbracciare la mia solitudine tra le strade autunnali newyorkesi mi stava sembrando naturale come abbracciare la pienezza d’animo in un campo di grano rischiarato dai primi raggi del sole.
Grazie a questo, quella giornata grigia vide spuntare un nuovo e leggero calore nel mio stomaco e che poi si propagò al cuore. E questa volta, lui non c’entrava niente.
Rientrando a casa, lo vidi che stava in piedi davanti alla finestra a sorseggiare un scotch con ghiaccio.  Ah, Richard, Richard e la sua rivoluzione francese nella testa. “Qualche sparo ogni tanto” a volte mi diceva, e in quel giorno potevo leggere dai suoi occhi che c’erano stati molti spari e qualche tregua.
Per quella sera o da quella sera, ancora non so, smisi di sentirmi l’inviata di pace delle sue lotte intestine. Cessai di essere la crocerossina venuta al mondo con il compito di soffiare sulle sue ferite. Capii con il tempo che questa forzatura spesso non serviva e che più pretendevo di esercitare il mio “lavoro”,  e più quello stesso impiego non era considerato se non con i pochissimi riguardi di cui poteva disporre l’indifferenza. Perché arrivare a rendere il mio aiuto scontato? Perché arrivare a far considerare il tempo che io dedico a qualcuno come un bene che viene sempre più sottovalutato?
Allora gli ricambiai il bacio in testa di quella mattina, entrai in salotto e mi misi a leggere “Casa di bambola” di Ibsen davanti alla finestra chiusa, per non permettere più al freddo di irrigidire la mia vita- o almeno per quella sera- .
Dopo qualche ora fu lui a venire. Semplicemente si sedette accanto a me, con il suo taccuino in mano. In quel silenzio che si generò, stavamo bene. Niente di obbligato da dire, da esprimere, da esigere.  Nessuno stava elemosinando niente, nessuno stava dando più del dovuto.
Dopo cena, ci cambiammo per andare a dormire. Nel mettermi a letto, io avevo in testa la musica di una milonga: passione, rabbia, erotismo, dolcezza, amore, sospetto, odio, amore, amore, passione, odio, amore. Erano tutte le emozioni che trapelavano da quel ritmo al mio animo, oppure che provenivano dal mio animo e si attaccavano a quel ritmo come fanno due amanti che, ballando, impregnano gli occhi degli spettatori della loro essenza.
Richard spense la luce dall’interruttore accanto alla porta della nostra camera e scostò le coperte per mettersi nel nostro grande letto accanto a me.
Io ero girata dall’altro lato, e dandogli le spalle, stavo lì a guardare in silenzio la neve che cominciò a cadere da quella strana New York autunnale.
Un calore avvolgente, una presa sicura, una morsa rassicurante mi avvolse le spalle da dietro e avvicinò la bocca al mio orecchio.
“Buonanotte amore mio”, la voce chiara di Richard.
Quella notte la neve fu la più calda e la più silenziosa che avessi mai potuto vivere, eppure io l’indomani non avrei più temuto l’inizio dell’inverno.

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Le 20 sigarette

Da quando lui ha finito il suo pacchetto di sigarette, a me è venuta fame.
Sembra strano come le due cose possano essere collegate; eppure quella sera, dopo aver terminato la nostra ennesima cena a base di silenzio e un comune soprappensiero, dopo esserci stesi sul divano, aver acceso, lui, la tv ed io aver aperto il libro, non lo avevo mica capito che le due cose erano collegate.
É andata più o meno così: lui con fare annoiato che aveva finito l’ultima sigaretta del pacchetto da 20 -comprato proprio quel giorno- ed io che, di colpo, avevo voglia di dolci.
Allora ha bofonchiato qualcosa, si sei alzato, è andato a cercare le chiavi, ha preso e messo il giubbotto tanto per non soffrire il freschetto delle sere di maggio e, dimenticando felicemente il telefono in carica, ecco che è partito alla ricerca delle sue 20 sigarette.
Intanto io avevo chiuso il libro ed, entrando in cucina, aprii quella scatola di biscotti che nascondevo a me stessa da almeno un mese.
Un biscotto, piccolo e leggero senso di colpa.
Lui ancora non era tornato e allora io misi l’acqua sul fuoco per prepararmi una tisana. Un biscotto e una tisana, magari questa strana sensazione passerà.
Decisi di cambiare postazione e dare al mio libro un nuovo sfondo. Ero appoggiata sul tavolo della cucina, con una gamba a penzoloni sull’angolo e l’altra rannicchiata sotto di me, che stavo scomposta sulla sedia. “Un maschiaccio” avrebbe detto mia nonna. Eppure lei, vissuta in un’epoca di galanteria e merletti, non sapeva – o forse sperava che fossi io a non scoprirlo mai- che a volte l’essere “maschiaccio” può servire. Che fosse per trovare lavoro o per fingere soltanto di tener testa agli uomini, quell’attitudine indubbiamente ha contribuito ad agevolare le donne in un mondo, purtroppo, ancora medievalmente maschilista.
Così, mentre sfogliavo le pagine del mio libro blu e andavo avanti con la sua storia, sorridevo tra me e me, ripensando a quante cose avrà imparato dalla vita mia nonna, sperando che nel futuro -e cioè nel mio presente- sarebbero cambiate.
Un altro biscotto, un’altra pagina, l’acqua che bolliva. Mi alzai per scappare dalla scatola tentatrice e portatrice di cioccolato misto a tanto zucchero. Versai l’acqua nella tazza con su scritto “No olvides sonreir“, e questa cominciò a fumare e a profumare l’aria di cannella.
Ritornai in postazione, aspettai che il calore diminuisse, lessi due righe, mi fermai: un altro biscotto. Allora mi rialzai, raggiunsi il piano cottura su cui avevo strategicamente lasciato i biscotti prima di risedermi, puntando sulla mia pigrizia – ma ecco che in questi casi è l’istinto a batterla-. Dunque un altro biscotto, anzi due, anzi tre. Dovevo sentire a pieno il sapore, dovevo godere a fondo di quella “felicità”. Che nome poteva avere quella sensazione di piacere dopo giorni, mesi o forse anni di pioggia, puzza di sigarette e vuoto? Come potevo ripudiare quella carezza rivolta alle mie papille gustative in mezzo a un deserto di carezze da molto non pervenute su qualche altra zona del mio corpo?
“A che numero sarò arrivata?”, pensai. Forse era il decimo o il quindicesimo biscotto, fatto sta che quel conto mi fece ricordare che era già passato un bel poco di tempo, ma ancora di un nuovo pacchetto da 20 sigarette a varcare la porta, non vi era traccia.
Decisi di tornare in salotto, con in mano la tazza e il libro. I biscotti in cucina, le sigarette chissà dove. Entrando nella stanza, vidi che la tv trasmetteva ancora il film d’azione che il quasi-ormai-famoso-cercatore di 20 sigarette stava guardando.
-“Rambo, piacere di sentirti vivo. Dacci la tua posizione che veniamo a prenderti.”
-“Murdok sarò io che verrò a prenderti.”
Ironia della sorte, era quello che stavo pensando anche io.
Che si sia perso? Che stia andando a cercare, una per una, le 20 sigarette in giro per il mondo? Che stia contrattando con spacciatori e narcotrafficanti per averne ognuna di una tipologia diversa? Che il distributore automatico situato alla destra del mio portone sia entrato in una dimensione parallela e che per arrivarci servano riti di sangue e raccomandazioni speciali?
“Murdok sarò io che verrò a prenderti”, mi ripetei in testa, gli altri lo cercano, lo aspettano, ma sarà lui ad andare o a tornare da loro. Perché agitarsi quando tutto dipende dalla sua testa e non da quella degli altri? Che ruolo potevano avere gli altri, se non marginale in confronto all’eroe?
In quel momento stavo ancora soffiando sulla mia tisana, aspettando, ormai quasi impazientemente, che, gentilmente, mi permettesse di berla. Ed è così che succede con le relazioni, pensai: fai di tutto per andarci con tutte le precauzioni, per far sí di non rischiare di bruciarti. Ti metti in testa che devi aspettare, andarci piano, che le cose che si guadagnano con il tempo sono le migliori, le più stabili e le più durature e poi…
A quel punto me ne fregai e avvicinai le mie labbra alla tazza come si fa con il proprio ragazzo dopo un pesante litigio: incerta, stanca, vogliosa.
“Ahia!”… e poi ti bruci.
Dopo aver ricevuto quel morso dal duo tazza-tisana, ecco che decisi di spegnere la tv, alzarmi dal divano, lasciare il libro che per quella sera non avrebbe più trovato nessuno che ascoltasse quanto aveva da dire e andai dritta fino al ripiano della cucina.
Presi due delle cose che avevo nascosto in quella stanza, proprio perché la mia casa era troppo piccola e senza validi nascondigli per farlo altrove. Dopo di ciò andai in bagno.
Passarono sì e no due ore, due ore eterne, ma, uscendo dal bagno, eccomi a sorridere tra me e me, mentre guardavo il suo telefono in carica sul suo comodino. Alla ricerca di 20 sigarette, senza nessun mezzo per ricercare lui. Poteva generarsi un loop incredibile, e dopotutto, tristemente – ma nello stesso tempo con ironia- sapevo che non era il caso di scomodare la polizia con la storia del ricercatore scomparso delle 20 sigarette, in quanto probabilmente le 20 sigarette si trovavano tutte a casa di una persona dal nome femminile e dal cognome a me ignoto.
No olvides sonreir” neanche in quel caso; neanche quando, in compagnia del mio pacco di biscotti, mi infilai sotto le coperte con la lucina accesa.
Un biscotto e poi un altro, una piccola lacrima e poi un’altra; il cioccolato, la tisana ormai fredda e inutile. Avrò superato di certo i 20 biscotti mentre rintoccava la mezzanotte e al mondo erano finite le sigarette.
Ricordo che quella notte mi addormentai con la luce accesa, stanca di tutto: del cioccolato, degli zuccheri raffinati, della mia tazza con su scritto “non dimenticarti di sorridere” in spagnolo, dei film d’azione alla tv, della tv stessa lasciata accesa da qualcuno, dei distributori di sigarette finiti in un altro universo, delle tisane troppo calde, dei morsi dei ragazzi incazzati, delle labbra ferite, delle piccole lacrime in solitaria, dei telefoni dimenticati sotto carica, delle cose nascoste nei ripiani della cucina e delle 20 sigarette disperse tra i meandri di un amore inesistente.
Ma la notte, nonostante tutto, passò e con lei finirono i biscotti, mentre i distributori lasciavano la scena all’apertura dei tabaccai. A non finire, però, fu la mia voglia di dolci, quella voglia di dolci nata giusto nel momento in cui lui aveva fumato la sua ultima sigaretta, senza mai ripromettersi che fosse davvero l’ultima.
Eppure si ricominciava, la mia tazza suggeriva imperterrita di farlo con un sorriso ad ogni ora del giorno, in ogni istante dolce-amaro della vita. Entrai in bagno, il test di gravidanza ancora sul bordo della vasca dalla sera prima: due lineette.
Soltanto ad una cosa pensai: “ti prometto, tesoro mio, che non fumerò mai e poi mai nemmeno una sigaretta”.

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Il ballo

Sylvie correva a perdifiato per quelle stradine strette e solitarie, ormai sul far dell’imbrunire.
Il suo abito parigino di tulle con decorazioni in organza si gonfiava al passaggio dell’aria frizzantina di novembre.
Doveva essere rientrata già da un pezzo nel suo convento, adiacente alla cattedrale di Narbonne. E invece i balli, i profumi e i vestiti dai colori sgargianti insieme ai loro ventagli variopinti, l’avevano come rapita in quelle stanze che decantavano ad alta voce tutti i loro sfarzi.
Quella sua fuga nella vicina Perpignan avrebbe sicuramente fatto infuriare le suore, ma come avrebbe potuto rinunciarvi, dopotutto?
Dal momento in cui ricevette il suo biglietto, quel ballo divenne l’unico scopo di vita, l’unica ragione per cui stare in silenzio a contare i giorni e le ore, durante le lunghe e noiose letture con la madre superiora.
D’altronde, quel collegio, il suo convento, stava diventando peggio di una prigione per una giovane come lei, e dunque per evadere non poteva fare altro che fare affidamento sulla sua immaginazione.
Eppure, la testa, oltre che teatro di rappresentazioni fantastiche, è anche fonte di nuove strategie per evadere dalla realtà; le quali, dopotutto, non sono così illecite se alla fine dei giochi non vengono mai scoperte.

Cara Sylvie, vediamoci al ballo il 12 Novembre. Eternamente tuo, E
31 Ottobre 1856

Ripeteva a memoria quelle parole come una preghiera, e questo bastava per sentirsi parte della schiera di tutte le eroine dei tanti libri che teneva nascosti sotto il letto e che arraffava, sfogliandone le pagine ingiallite, non appena le sorveglianti avessero spento le luci.
Édouard, il suo sogno di una vita. Finalmente non la vedeva più semplicemente come la piccola figlia dei Lambrouse; un anonimo anatroccolo medio-borghese, ancora lontano dalla sua trasformazione in cigno. Gliel’aveva detto durante l’incontro tra genitori e figli di fine estate; in un soleggiato pomeriggio di settembre, dolcemente in segreto e lontani dalle voci e dagli abbracci di addio che riempivano l’atrio del convento. “Siete una donna, Sylvie. Sono affascinato da voi”, le confessò timidamente, mentre stava seduto in ginocchio davanti a lei; infatti man mano che il tempo passava e gli alberi cambiavano colori alle loro foglie, ormai la fanciullezza aveva lasciato il posto alle rotondità di una vita florida e primaverile, tanto che niente più poteva frenare la loro passione. O quasi.
Da quelle parole, ogni distacco sanciva l’inizio di una lunga attesa di sospiri al vento che terminavano, fortunatamente, sebbene soltanto durante gli incontri della domenica, in cui venivano invitati i parenti in modo da poter stare con la loro giovane prole. In quelle occasioni, il semplice rivedersi era motivo di una felicità intensa, seppur molto fugace, nonché proibita; la quale, una volta terminata, reiterava lo stesso gioco altalenante di una lunga malinconia che si alternava a un brevissimo apice di gioia. E proprio durante l’ultimo ricevimento di ottobre, organizzato nel chiostro del convento antistante agli appartamenti, il fratello della sua cara amica Chloé, non riusciva più a camuffare quanto avesse occhi solamente per Sylvie. Tuttavia, quel giorno non ci fu verso perché i due potessero ritrovarsi da soli a parlare del tutto e del niente, di nascosto dai presenti, come detta l’amore a quell’età. Nei brevi momenti in cui poté sedersi a bere un té accanto alla famiglia al completo, l’unico argomento che toccarono fu quello del ballo di sabato 12 Novembre. “Quanto vorrei che tu venissi, Sylvie!” le rivolse uno sguardo supplicante Chloè. Ma la madre superiora, che passava di lì in quel momento, non poté fare a meno che commentare quell’invito e chiudere la questione definitivamente con: “Signorina Chloé, come ben sa, mademoiselle Sylvie non può allontanarsi dal convento senza il consenso dei suoi genitori che saranno irreperibili fino al loro ritorno dalle Fiandre. Inoltre, mademoiselle sa perfettamente che deve recuperare gran parte del programma, a causa delle sue ultime assenze, fatte per stare, giustamente, un poco insieme alla sua famiglia. Dunque il ballo è fuori questione”. Non ci fu molto da aggiungere, se non uno sguardo furbo da parte di Chloé che accese un barlume di speranza nel cuore dell’amica.
E fu questa l’ultima conversazione che pose fine all’incontro di quella domenica: di fatti, per quel giorno, il tempo era scaduto. Finché, nel momento dei saluti, con mossa azzardata, Édouard le lasciò rapidamente un biglietto che le richiuse tra le mani, e dopo un ultimo sguardo, risalì sulla sua carrozza alla volta di Perpignan, insieme a sua sorella.
Riaperti gli occhi, una volta terminato di ripassare nella mente quel fuggevole ricordo, Sylvie era decisa: “Ecco cosa farò: il sabato del ballo, mi basterà solo aspettare la passeggiata mattutina insieme a suor Clarisse e, con la scusa di una terribile emicrania, invece di ritornare nella mia stanza, dove il “non disturbare” sarà già appeso alla porta, correrò a prendere la corriera delle dieci. Poi, una volta a Perpignan, andrò a casa di Chloé e sarà lei stessa a prestarmi un vestito per quel pomeriggio. Sono sicura che una volta tolti questi vestiti da provinciale che mi ritrovo, sarò pronta per mostrarmi a Édouard, dimostrandogli che anche io sono degna di far parte della sua cerchia”. 
Ad interrompere i suoi pensieri strategici, vi erano le sorelle intente a distribuire i rosari a lei e alle sue compagne, riunite per raccogliersi insieme, come di consuetudine, a recitare la preghiera delle sette. “Purtroppo però” lei continuava imperterrita nelle sue pianificazioni “dovrò andarmene a metà del ballo, giusto per non perdere La Rondine delle sei, in modo da ritornare qui, giusto in tempo per la preghiera della sera. Sì” si disse “così dovrebbe funzionare”.

Giorno dopo giorno, Sylvie strappava via con foga le pagine del calendario che la separavano dal tanto agognato evento. Tanto che la notte dell’11 novembre non chiuse occhio, ripassando ogni dettaglio del suo piano, come se temesse di dimenticare quell’unico particolare che avrebbe mandato a monte tutto il suo lavoro. Finché alle prime luci del fatidico giorno 12, lei era già alzata, seduta alla scrivania davanti alla finestra, intenta a scrivere una lettera per il suo Édouard.
Finalmente sabato. Alle nove del mattino di una giornata tiepida e soleggiata, come previsto, lei e le altre collegiali si radunarono attorno a suor Clarisse per la passeggiata in riva al fiume. Così il suo progetto ebbe inizio e Sylvie ne seguì pedissequamente ogni fase, proprio come un cuoco attento fa con le sue ricette, al fine di riuscire nell’impresa.
Non appena messo piede a Perpignan, tutto le sembrava entusiasmante. Il sole mite e allegro illuminava le strade, riscaldando perfino alcune delle panchine del parco, su cui sedevano gli amanti a scambiarsi dolci promesse. Sylvie assaporava ogni passo, ogni angolo e ogni nuova visione con immenso piacere, accompagnata dal cinguettio spensierato degli uccelli che alloggiavano pigramente sulle fronde degli alberi. Quel senso di libertà rendeva la sua promenade un toccasana per l’anima. 
Ricordava ancora la strada per giungere alla maison dell’amica da quell’ultima volta che l’aveva percorsa nel Luglio precedente; una volta uscita dal parco, avrebbe dovuto girare a destra, camminare fino all’incrocio, ed ecco che proprio lì si ergeva l’immensa proprietà dei Troussard. 
Bussò ripetutamente al grande cancello di quercia, e poco dopo un servitore venne a riceverla: “Mademoiselle Chloé la sta già attendendo nella biblioteca. La prego, mi segua”.
Appena le grandi porte del cancello furono spalancate, un seducente mondo fatto di amenità e ricchezze l’assorbì tutta intera. Un lungo viale conduceva alla dimora in stile inglese, con un grande colonnato che dava sull’ingresso principale. Quindici furono le statue marmoree di cherubini che riuscì a contare lungo il tragitto e tre le fontanelle che riempivano zone altrimenti vuote di un prato verde, ricolmo di erba e fogliame autunnale.
Una volta entrata nell’androne, una grande scalinata s’imponeva davanti a lei, mentre numerose stanze dalle porte chiuse circondavano l’entrata, sia a destra che a sinistra. Arrivata al primo piano, la terza porta era quella della biblioteca; una stanza ellittica e con scaffali in legno intarsiato, ricolma di volumi, alcuni antichi perfino di trecento anni; tutti trofei del gusto collezionistico del nonno di Chloé, nonché il vecchio Marchese Troussard.
“Eccoti, Sylvie! Ce l’hai fatta a venire”, l’amica nel vederla le si gettò al collo. “Come sono felice! La madre superiora e suor Clarisse non hanno capito che saresti andata via, giusto?”, le chiese preoccupata. “Spero di no, Chloé. Oh, come sei bella!” le disse, indagando con lo sguardo ogni dettaglio del suo vestito. Allora, la giovane la prese dalle mani e subito cominciò a trascinarla per tutta la stanza, descrivendone ogni particolare, senza smettere di parlare. “Vedrai, il ballo ti piacerà! Inoltre, ho deciso che indosserai il vestito che i miei mi hanno portato da Parigi, il Natale scorso” “Che dici, quello della maison di Madame Bertin?” “Oui, proprio quello! Sembra fatto aposta per il tuo corpicino dal vitino stretto”, e così Chloé le misurò i lati della vita con le mani. “Ma non potrei mai metterlo, non voglio che si rovini!”, tentò di ribattere Sylvie. “Ah, sciocchezze! Dici sempre che vorresti sentirti come una principessa durante un ballo. Ebbene, ecco il ballo e pure il vestito”. E mentre l’amica, finito di passare in rassegna ogni angolo della biblioteca, passò a elencare tutto ciò che avrebbero fatto da lì al pranzo, Sylvie intanto continuava a spostare lo sguardo da un punto all’altro di quella casa, muovendo i suoi occhi grandi come durante una partita di ping pong, affascinata da ogni forma, oggetto o colore.
“Ah, piuttosto…”, Chloé rallentò il ritmo delle sue parole, fino quasi ad arrestarlo del tutto, per poi poggiare uno sguardo curioso e indagatore sulla sua ospite: “Mio fratello Édouard mi ha chiesto più volte della tua presenza, questo pomeriggio”. Sylvie si arrestò di colpo, dopotutto anche la sua amica era all’oscuro dei fatti; piuttosto, non voleva che una situazione indefinita come quella, avesse potuto destare speranze che si sarebbero rivelate inattese, nel caso in cui la vita li avesse separati. “Sul serio?” domandò cercando di rimanere vaga: “Eppure, l’ultima volta che ci siamo visti, siamo riusciti a scambiarci appena un saluto d’addio”. E cercando di coprire il suo rossore, tentò anche di cambiare discorso: “Ad ogni modo, che ne dici di mostrarmi il vestito?”. A quelle parole, l’energia di Chloé ritornò quella di prima, consapevole di mettere da parte quell’argomento, almeno per il momento. E prendendola ancora una volta per le mani, l’accompagnò al piano superiore, diretta all’armadio di mogano, posto accanto allo scrittoio di ebano, appoggiato a un muro tappezzato da una quantità indefinita di tulipani dipinti.
Sylvie si sentiva catapultata in un altro mondo; nemmeno la sua casa era tanto elegante. Eppure sua madre aveva sempre avuto un gusto alto-borghese, penalizzato dalle finanze della famiglia. Una condizione che quel viaggio nelle Fiandre, come tanti altri in passato, in quanto antiquari, avrebbe cercato di arginare. Fortuna che Chloè era la chiave di un altro universo, quello che pensava esistesse solo nei libri; uno scrigno singolare che conteneva oggetti, luoghi, volti e perfino misteri da celare.
“Eccolo, questo sarà il vestito. Vedi i ricami in filo argentato? Ho chiesto personalmente di aggiungerli alle maniche. E che corsetto! Potresti non respirare per tutta la giornata, ma credimi, ne varrà la pena.” Direttamente dalle migliori boutique parigine, quel vestito di tulle degno della figlia di un re, poteva davvero essere suo per tutte quelle ore. “Presto, sbrighiamoci!” le intimò Chloé, distogliendola così dalla sua estasi: “Gli ospiti arriveranno verso le quattro, ma noi scenderemo soltanto alle quattro e mezzo. Sai com’è, meglio farsi attendere. O almeno, è così che fanno a Parigi.” E con un’alzata di spalle, richiuse l’armadio alla volta del salone del pranzo.
 Sembrava che, da un lato, le ore volassero, mentre dall’altro andavano realmente a passo lento. Dopo il déjeuner passato nella grande sala bianca, con il tetto affrescato di Sibille e Geni, seduta a un enorme tavolo circondato dalla servitù, Sylvie cominciò a chiedersi dove fosse Édouard e come mai non lo avesse già incontrato. Dopotutto, quella doveva pur essere casa sua. “Che sia ancora in viaggio, di ritorno da Parigi?”, si chiedeva.
 La madre di Chloé, un’aristocratica dai modi affettuosi, le concesse il lusso di prendersi un caffè dopo pranzo. La sua grande apertura mentale, la rese complice insieme alla figlia di non rivelare nulla alle suore, purché fosse ritornata in tempo per il coprifuoco. 
“Ho sentito che, voi ragazze, non vedete l’ora di raggiungere la maggiore età per lasciare il convento ed occuparvi delle faccende domestiche. Dopotutto, una giovane donna ha l’onore e onere di controllare l’andamento degli affari di casa, come l’uomo quello degli affari esterni o esteri, per così dire”. Era il notaio Troussard, padre di Chloé e ricco ereditiere, di recente entrato in politica; al contrario della moglie, un uomo all’antica, legato a un’idea patriarcale non solo della famiglia, ma proprio dell’esistenza in generale. Sylvie, con tutta la sua pacatezza, pur non approvando il pensiero di quel tipico aristocratico bigotto, cercò di rispondere in tono maturo: “È vero, ormai a dividerci dal traguardo ci mancano pochi mesi e ben presto saremo fuori da questa vita fatta di preghiere e studi. Eppure, personalmente, il mio sogno sarebbe quello di continuare a istruirmi”. “Beh, certo! La sapienza è potere, come dico sempre ai miei figli. E ne avrà di tempo, mademoiselle Sylvie, durante la sua vita. Ricordo benissimo la mia amata Sophie, quando in attesa della nostra secondogenita, passava giornate intere a leggere romanzi”. A quelle parole, la menzionata abbassò il capo. Ma da quel momento, la giovane non osò proseguire oltre con i suoi pensieri; sapeva che quanto balenava nel suo animo, non era ancora accettato né dagli adulti, né dall’intera società. Ancora nel 1800, a secoli di distanza dal Medioevo, lo studio per le donne veniva identificato semplicemente con l’ozio della lettura romanzesca, uno svago per l’appunto da “femmine”, mentre per gli uomini diveniva lo strumento per raggiungere una carica di tutto rispetto. Eppure, questo lo notava già quando aveva quattordici anni; mentre lei stava in convento, suo cugino Ermes era libero di seguire il padre, lo zio Reginald, proprio per imparare il suo mestiere.
Eppure, se avesse avuto la libertà di scegliere, lei, Sylvie, quale mestiere avrebbe scelto? Ad appena un soffio dalla maggiore età, sebbene il corpo fosse già quello di una donna, il cuore faticava ancora a trovare una definizione per se stessa.
“Sylvie. Sylvie”, Chloé la richiamò dall’altro lato del tavolo, attirando la sua attenzione con la mano. “Andiamo a prepararci, tra due ore arriveranno gli ospiti.” Detto ciò, chiese il permesso ai suoi genitori di congedarsi, e una volta ottenutolo, le due fanciulle corsero nuovamente su per le scale, buttandosi sul letto con la gaiezza dei loro diciassette anni.
 “Sai Sylvie, oggi rivedrò Timothée”. Chloé si era messa le braccia dietro la testa, fissando il soffitto, sognante: “Probabilmente, questo pomeriggio, mio padre annuncerà il nostro fidanzamento.” Si girò a guardare l’amica, mettendosi su un fianco: “Ci sposeremo in Giugno, alla fine degli studi. E tu sarai accanto a me, quel giorno.” le rivolse un grande sorriso. Sylvie, che accolse in modo sorpreso la notizia, la guardava con aria contenta e insieme malinconica: “Sono davvero felice per te. E quando l’hai saputo?” “Ieri sera. Beh, in realtà lo so in via del tutto ufficiosa. Infatti, mentre stavo andando in biblioteca per prendere un nuovo libro da leggere per farmi conciliare il sonno, nel sentire i miei genitori parlare da lì dentro, mi sono fermata vicino alla porta. E mentre origliavo, ho sentito chiaramente la voce di mio padre che diceva che l’indomani avrebbe reso pubblico il fidanzamento”, poi ci pensò un attimo e con sguardo assorto aggiunse: “In fin dei conti, io sono pronta.”. “Sai, tu sei fortunata Chloé”, le rispose d’un tratto Sylvie con aria profonda. “In che senso?” le chiese l’amica. “Ma sì, dico che sei fortunata perché il tuo promesso coincide con la tua anima gemella. Con l’unica persona che rispecchia l’immagine dei tuoi sogni. Dopotutto, sono anni che parli di Timothée come l’unico ragazzo degno di attenzioni da parte di una giovane donna, in un mondo di giovani immaturi e piatti di spirito”. In quel momento Chloé si fece seria, come per ripescare la punta di una matassa che non sapeva da dove sgarbugliare: “Diciamo che me lo sono dovuta far piacere. Non ho altre scelte, o almeno non come te Sylvie, specie con un padre come il mio che controlla ogni respiro, sia mio che anche di mio fratello. E poi Timothée ormai si è fatto un bel ragazzo. Anzi, ha pure vinto qualche medaglia durante le battute di caccia ed è uno dei migliori tra i futuri neolaureati alla Sorbonne.” Poi fece una pausa e ripeté più a se stessa: “Sì, sono stata fortunata.”, e in tono più deciso si rivolse alla sua ospite: “Tuttavia vedrai che anche tu troverai l’uomo dei tuoi sogni. Appena varcata la soglia del convento, una volta e per tutte, lo sai quanti uomini ti cadranno ai piedi? Primo tra tutti…”. Sylvie che si contemplava allo specchio con il vestito appoggiato addosso a sé, si fermò per posare lo sguardo sulla sua compagna di collegio: “Prima di tutti mio fratello Édouard”. Questa volta, il suo rossore era palese. “Credi che non mi sia accorta di tutte quelle volte in cui voi due sgattaiolavate lontano, nel giardino del priore? Anzi, ammetto di aver intrattenuto i miei genitori più tempo del solito per permettere a voi, piccioncini…”. Dopotutto Sylvie sentiva in cuor suo che c’era sempre stata la mano di aiuto di Chloé a mandare avanti quel sogno; compreso quel ballo. Al di là dell’amicizia, la dolce Troussard l’aveva capito che sarebbe stato un bel pretesto per farli stare insieme, con maggiore tranquillità.
Eppure, i pensieri di Sylvie tornarono nuovamente sul tema del matrimonio: la sua amica stava seguendo quella scaletta non scritta che la società ha imposto silenziosamente, ma vigorosamente, a tutte le giovani donne di buona famiglia, appartenenti a quello che chiamano il Vecchio Mondo, e non solo. Prima gli studi e poi un buon matrimonio che favorisca entrambe le famiglie, unite nel sacro nome del prestigio. Eppure, chissà per lei come sarebbe stato sposare Édouard; diventare una Troussard e, in questo modo, anche mezza sorella di Chloé. Fare parte di quella famiglia avrebbe sicuramente significato cambiare davvero pianeta; ma che quello non si rivelasse fin troppo diverso dal suo? Avrebbe saputo come navigare in quel mare che insieme l’attraeva e la spaventava? E inoltre, avrebbe avuto modo, una volta entrata in quel sistema, di mandare avanti le sue passioni con la stessa libertà che le aveva inculcato la sua, di famiglia?

Al rintocco delle tre del pomeriggio, la musica degli archi che venivano accordati nella grande sala da ricevimenti, giunse fino a loro, infiltrandosi da sotto la porta chiusa della stanza. Mentre Chloé, ormai vestita di tutto punto con il suo abito di pizzo e raso blu, era intenta a impreziosirsi il corpo con gioielli e profumi, Sylvie guardava fuori dalla finestra, sperando di scorgere il profilo di Édouard. Intanto, con la mano tastava la lettera, che adesso era tenuta ben nascosta nella tasca del suo abito.
 “Guardati, sembri una nobildonna degna di Versailles. Tieni, indossa questi orecchini”, e Chloé corse a cercarle degli orecchini di perla, alla cui vista Sylvie mise subito le mani avanti: “Davvero, è troppo!”, “Ma come troppo? Hai ormai il vestito, le scarpe, insomma: ti manca un gioiello come si deve”. “E va bene, ma prima di partire per Narbonne, risalirò in camera tua per ridarti tutto, sappilo.”, aggiunse la fanciulla, in tono risoluto. “E sia! Ma adesso andiamo, è il momento”. A quelle parole, Sylvie cominciò ad avvertire il cuore che le pulsava fin da dentro lo stomaco. E mentre scendeva la grande scalinata che portava al salone delle feste del primo piano, cominciò a guardarsi attorno, rimanendo estasiata dal profumo che emanava l’alta classe, come di rose rosse miste a una fragranza di fiori d’arancio. Intanto, taffettà, lustrini, sete damascate, pepite d’oro e orecchini di perle, facevano la loro sfilata al centro della sala, formando un bouquet variegato di ricchezze che si radunavano tutte davanti ai suoi occhi. Poi, giunta in mezzo alla stanza illuminata dalle luci dei grandi lampadari di cristallo, nonostante il sole splendesse alto al di fuori delle finestre, non poté fare a meno di rimanere rapita dalle danze a cui prese subito parte la stessa Chloé. 
 Tuttavia, dopo una mezzoretta di saluti cortesi e discorsi consueti, scambiati con le persone che man mano l’amica le andava presentando, il non vedere ancora Édouard, la spinse a cercarlo tra la folla con ansia sempre più febbrile. Di tanto in tanto, convinta di averlo intravisto tra un ventaglio sventolante e una parrucca fin troppo imponente, il suo cuore accelerava bruscamente all’idea che fosse lui; ma purtroppo del suo amato non vi era ancora traccia. “Potrei chiedere di lui a Chloè, dopotutto che male ci sarebbe?” pensava tra sé “Oh, no, mai! Già ha intuito la nostra relazione e sicuramente ha scoperto il mio punto debole. No, non oso arrivare a tanto”.
 Ma suonate le quattro, ecco entrare nella sala da ballo i suoi riccioli bruni e gli occhi azzurri come il cielo. Édouard, il suo Édouard era lì, che parlava affabilmente con il padre. Accanto a loro c’era una giovane donna, la quale si allontanò proprio nel momento in cui il marchese Troussard richiamò l’attenzione della figlia, dimodoché venisse a salutare il fratello. “Mia dolce Sylvie!” e la strinse in un tenero abbraccio. “Édouard, mio caro fratello. Finalmente di ritorno. Dimmi un po’ com’è Parigi? Ah, ma come sono sbadata! Ricordi la mia vecchia amica Sylvie?” e così dicendo, la spinse davanti a lui. “Ma certo che mi ricordo della piccola mademoiselle Sylvie. Bonsoir.” pronunciate quelle parole, i suoi occhi distolsero l’attenzione dal volto rosaceo della piccola Lambrouse, solo per richiudersi in occasione del baciamano, motore di un’accelerazione acuta nel petto della giovane.
“A Parigi tutto bene. Proprio ieri sono riuscito ad assistere alla presentazione di un nuovo libro dello scrittore Flaubert, Madame Bovary. E a proposito, tieni sorella, te ne ho portato una copia”. Alla visione del regalo, Chloè si spinse in un altro abbraccio, ricolmo di amore per quel fratello taciturno, ma quanto mai affettuoso. “Vado a portare il dono in camera mia, per tenerlo in salvo dagli altri nobili ingordi. In fin dei conti, è risaputa l’ingordigia dei nobili al giorno d’oggi”, disse senza farsi sentire dal resto della compagnia. E così facendo, mentre Chloé lasciava la sala e il padre prese a intrattenersi con gli altri invitati, Sylvie poté rimanere finalmente sola con Édouard. “Dunque, siete venuta, mademoiselle. Questo mi rende molto felice”. Lei si sentiva tremare come una foglia; il suo animo era in bilico tra l’estasi e la paura della realizzazione di un sogno; quello di poterlo vedere al di fuori delle quattro mura di un convento oramai fin troppo stretto. Eppure, esteriormente, ella non lasciò trapelare la benché minima angoscia: “Anche io ne sono felice. É davvero un bel ballo, vorrei potessero essercene di più di balli così, dalle mie parti”  ” E allora perché non venite più spesso?” le sussurrò lui all’orecchio più intimamente, in modo più confidenziale. “Certo, quando mi sarà possibile ne sarò felice”.
Avrebbe voluto essere più disinvolta e dismettere per sempre quei modi freddi, tipici di una conoscenza. Purtroppo però, la realtà glielo impediva; in mezzo a quella folla di nobildonne e gentiluomini, lei non rimaneva altro che una straniera, la quale probabilmente non aveva alcun diritto di parlare, quantomeno sognare di sposare, il giovane rampollo di quella casata. “Tuttavia” continuò il giovane “c’è qualcosa che mi preme dirvi…”.  “Édouard, è il momento, vieni.” Lo interruppe suo padre, prendendoselo per un braccio e allontanandolo così dalla fanciulla. Una volta che padre e figlio raggiunsero il centro della sala, il capofamiglia attirò l’attenzione degli invitati, iniziando il suo discorso: “Gentili ospiti, spero che la nostra umile festa sia di vostro gradimento. È stato un anno arduo per tutti noi: dalla siccità, alla scarsità delle provvigioni, fino al veder diminuire le nostre finanze per colpa di una terribile crisi che, grazie al volere di Dio, siamo riusciti ad arginare.” Intanto Chloé era ritornata alla festa, attenta al discorso del padre e pronta a prendere parte alla scena, appena lui avesse pronunciato il suo nome, insieme a quello di Thimothée. “Eppure” continuò Troussard senior: “siamo qui a festeggiare oltre alla nostra perseveranza e alla nostra rinascita, anche l’inizio di un inedito capitolo della nostra vita. In particolare, comincia una nuova pagina per la nostra famiglia, poiché sono lieto di annunciare il fidanzamento di” e Sylvie girò il suo sguardo verso destra, sorridendo in direzione della sua amica, attendendo che venisse nominata. “…mio figlio Edouard con la qui presente Judith Borgogne, figlia dei conti Borgogne di Marsiglia”. Di colpo, come al suono di un bicchiere che cade al suolo e si infrange in mille pezzi, così qualcosa si ruppe all’altezza del ciondolo che portava addosso la giovane Lambrouse, tanto che automaticamente la sua testa si voltò dal lato opposto, quello sinistro, dove Édouard stava in piedi, sorridendo a quella folla in giubilo. Le sue mani continuavano a battere per inerzia, mentre il suo animo si sentiva sprofondare sotto diecimila coltri di neve. Quel che era certo è che una delusione così grande non l’aveva mai provata nella sua breve vita ed era tanto dolorosa, da riuscire a bruciare qualcosa di immateriale come il suo stesso animo; lì, in qualche punto dello stomaco, sentiva la sofferenza come carne viva al fuoco. 
 Dopo pochi istanti, o forse qualche ere, Chloé si avvicinò di corsa, notando quel cambiamento di stagione nel volto della sua compagna. In verità, in quel momento provava un misto tra sollievo, perché non era stato il suo matrimonio ad essere annunciato, ed empatia, sentendosi invadere da un’enorme tristezza per aver, a sua insaputa, illuso le speranze di un’amica che voleva divenisse davvero una sorella. “Va tutto bene” la rassicurò Sylvie, fingendo un sorriso forzato e sventolandosi con il ventaglio veneziano con ricami a forma di cigni. “Ho soltanto bisogno di bere un sorso d’acqua”, “di acquavite, vorrai dire” controbatté l’amica. E le due si avviarono al vassoio del vino.
“Chloé, non guardarmi in quel modo. Io sto bene. Non era il mio fidanzato e soprattutto è tuo fratello!” “Sylvie, ti conosco da quando eravamo bambine e so da quanti anni hai un debole per Édouard. Ma non è te con cui me la posso prendere, semmai è con lui, perché so che può averti illusa. Ho visto quando ti ha lasciato quel bigliettino, all’ultimo incontro in collegio. Ti dichiarava il suo amore, non è vero?”. No, non le aveva dichiarato il suo amore. Quel bigliettino di carta straccia che aveva innalzato ad opera d’arte dal valore inestimabile, riportava solo la frase: “Eternamente tuo”; una sentenza di amicizia o di finto amore che, per quanto ne potesse sapere lei, chissà, era un modo di dire che magari andava di moda nei salotti parigini.  Ma allora, se non vi era alcun intento romantico e decisivo, perché sollecitare ancora il suo interesse, fino a spingerla a venire al ballo? E perché chiederlo più volte alla sorella, coinvolgendo anche lei?
 “E queste due graziose filles cosa bevono?”, Marcel, vecchio amico di Édouard, rosso di vino e allegro del suo alcol, venne a interrompere quel misto di rabbia e delusione che stava oscurando l’aria accanto alle due giovani. Infatti, incurante dell’atmosfera tesa che ruotava attorno alle loro teste, decise di importunarle ugualmente con conversazioni vane, adatte per coloro che in quel momento non stavano sanguinando di nascosto, a causa di ferite invisibili agli occhi felici: “Come va la vita in convento, piccola Chloé? Vedo che ti fai sempre più bella! E che onore conoscere anche la vostra amica”, “Sylvie”, rispose prontamente la diretta interessata, accompagnandosi con un inchino del capo. Ma mentre Chloé prese a saziare la scarsa sete di conoscenze di quel vecchio amico, iniziando così a rispondere alla sua domanda, di colpo, qualcuno afferrò da dietro il braccio di Sylvie. Alla vista di Édouard, lei si sentì barcollare: “Devo parlarvi. Allontaniamoci, per favore”. Senza dire una parola, la giovane si fece trascinare fuori, nel giardino della tenuta, da colui che l’aveva appena resa la più ignobile della terra.
 
In quella terrazza circondata da un colonnato ionico con architravi decorate con bassorilievi di altri cherubini, evidentemente stemmi di famiglia, con occhi seri, Édouard proruppe così: “É giusto che io vi dia una spiegazione. Non era mia intenzione…” ma Sylvie lo interruppe: “Una spiegazione riguardo quale argomento?” e scoppiò in una risata disinvolta e frivola: “Édouard, voi non dovete spiegarmi niente. Volevate che venissi alla festa, in quanto amica di vostra sorella, ed eccomi qui. È tutto chiarissimo e per questo, per l’invito, vi ringrazio. Come vi ho detto pochi istanti fa, è davvero una bella festa”. Ma lui si fece più serio: “No. Sylvie, parlo con il cuore in mano. Vi conosco da quando eravate in fasce e so quello che dico. Da qualche anno ormai, vi noto mentre crescete come un fiore che sboccia in primavera; e con voi portavate gioia, ogni qualvolta venivate, qui, a trovare mia sorella. E non solo notavo quanto diventavate bella, ma pur non avendo avuto modo di interloquire spesso con voi, tramite Chloé avevo capito che tipo di persona foste. E ne ho avuto prova io stesso della vostra sagacia; perché pensavate che venissi da Parigi, per non perdermi nessuno degli incontri della domenica in convento? Lo facevo soltanto per stare con voi e avere la possibilità di parlarvi. E qui vi confermo i miei più rosei presentimenti: la vostra testa è di acume di gran lunga superiore a quello di molte ragazze, anche più grandi di voi. Ma ciò che più mi affascina e mi spinge a cercarvi, è quel vostro candore che continuate a mantenere, e che vi rende diversa dal resto e speciale. Così speciale per me.” Lui le prese la mano, lei lo lasciò fare, giusto per gustare quel breve attimo, prima di essere interrotta dal peso di una realtà amara. “Ma che uomo siete, allora?” quella domanda gli arrivò come uno schiaffo in faccia, e lei si liberò dalla presa. Poi continuò: “E qual è il vostro onore, mentre mi prendete le mani, mi confessate i vostri pensieri e poi siete legato a un’altra donna?”, lei si voltò, ma lui la fermò, afferrandola per il braccio: “Statemi a sentire, il fidanzamento è combinato! Mio padre ha scelto pure per me, come se fossi mia sorella! La famiglia di Judith, i Borgogne, sono banchieri famosi in tutta la Francia, nonché grandi amici di famiglia, dai tempi di mio nonno. La decisione è stata presa da anni per volere degli stessi Borgogne, ma siccome nessuno ne aveva più parlato, avevo sperato che il caso fosse chiuso. Capite? Non volevo essere io a riaccendere l’interesse sull’argomento, ponendo alcuna domanda. Tuttavia, due giorni fa, Judith acconsentì al matrimonio. Dunque ieri sera, mentre mio padre decideva di comune accordo con mia madre di annunciarlo pubblicamente, io ero a Parigi quando ho ricevuto la lettera scritta di suo pugno, per informarmi sull’accaduto. E non ho nemmeno avuto il tempo di avvisare voi. Dunque, quello che ho fatto è stato correre qui e riferirvelo quanto prima, ma mio padre ha avuto fretta nel rivelare tutto pubblicamente. Io sono un burattino, proprio come mia sorella.” Pronunciate quelle parole, cercò di scuoterla, dato che lei non parlava. “Sylvie, il mio cuore è con voi. Vi segue da quando avete messo da parte i giochi dell’infanzia per farvi donna. Non chiudetemi la porta in faccia, troveremo la via”.
  Intanto, all’interno della sala, Chloé riuscì a divincolarsi da Marcel, salvata dall’intervento del suo Timothée. Ma una volta solo, l’amico dal bicchiere ormai vuoto in mano, si ritrovò ancora alla ricerca di una nuova preda da disturbare. Confuso dalla musica e dalle voci, decise di uscire fuori e una volta nel terrazzo, vide da lontano il suo amico Édouard. Non passò molto, prima che il ragazzo barcollante decise di raggiungerlo. “Amico carissimo! Ti ho cerciato – cersato – cercato, ecco! Ti ho cercato per tutta la festa! Congratulazioni, per il tuo matrimonio! Eh, buontempone! Mi ricordo ancora i tempi di quanto io e te, andavamo in giro per Rouen in cerca di…”. Nel tentativo di arrestare quel fiume in piena di parole al sapore di alcool, Édouard, portandogli un braccio attorno al collo, con aria fraterna, gli disse: “Marcel, aspettami nella biblioteca che ci fumiamo un sigaro. Arrivo tra un momento”. Recepito il messaggio, l’amico fece per girare i tacchi alla volta della biblioteca, ma si rigirò subito di colpo e sempre ondeggiando, gli comunicò con uno strano accento francese: “Ah, a proposito: ti cerca Judith”. Detto ciò, invece di andare verso la biblioteca, i suoi piedi lo ricondussero nuovamente al vassoio del vino.
 Ancora una volta, Édouard impiegò ogni fibra del suo essere per convincere Sylvie della sua buona fede. Eppure non poteva celarle la realtà dei fatti, quindi strinse i denti e preso un respiro profondo, riferì ad alta voce quanto entrambi già sapevano: “Mia cara, mi duole davvero dirlo, ma mio padre non avrebbe mai acconsentito al nostro matrimonio”. Quelle parole furono per lei come l’ennesimo schiaffo ricevuto in pieno volto: dunque lei non era degna di sposarlo perché le ricchezze dei suoi genitori non erano alla pari di quelle dei Troussard? “Vi prego, dite qualcosa”. É vero, della vita ne sapeva ancora poco, ma i suoi sentimenti, quelli erano sempre stati più maturi di qualunque giovane, presunto uomo, le si fosse mai trovato davanti. “Quindi, se non sono degna di sposarvi, il mio ruolo si ridurrebbe a quello di un’amante, per voi?” Lui non rispose, sapeva di trovarsi in una posizione sgradevole. “E dunque, invece di chiedere a voi, di fare uno sforzo e seguire i vostri sentimenti, dovrei essere io quella che passerebbe il tempo, no ma che dico il tempo, la vita a nascondersi? Eh, no, mio caro Édouard. Anche l’amore che ho per voi non basta a farmi accettare una condizione simile.” Lui non parlava, teneva lo sguardo basso, consapevole di quanto tutto fosse sbagliato. “Vedete, saprò ancora poco della vita, ma penso di conoscere già qualcosa sull’amore. E per me l’amore è tutto o niente. Romeo e Giulietta, Tristano e Isotta, sono amanti che hanno urlato a squarciagola: “o amore o morte” e così si sono uccisi, pur di non vivere l’uno senza l’altra. Shakespeare scriveva che l’amore è un faro sempre acceso che resiste alla tempesta, ed io che dovrei fare quando il faro non punta sul mio volto, ma su quello di un’altra?”
“Letture, letture. Tutte queste letture vi fanno giudicare la realtà sotto il punto di vista di una morale fin troppo ortodossa. E lo capisco anche. Dopotutto, siete sempre cresciuta in un convento. Eppure, perfino quegli amanti, Tristano e Isotta che voi mi nominate, prima di giungere al triste epilogo sono per l’appunto diventati amanti. E sbaglio o non è stata colpa di Isotta, come nemmeno di Ginevra, quella di finire promessa a un altro uomo? Eppure questo non ha impedito di far divampare il loro amore” “Certo, ma non in modo libero.” Lo interruppe lei: “Vedete, tutto, in questo mondo, in questa società, ci vieta di essere liberi. Io tra pochi mesi lascerò il convento, è vero, ma solo per trovare un marito e finire nuovamente rinchiusa, questa volta in una casa, a cui io stessa dovrò badare. Ma ci è stato mai chiesto se è davvero questo che vogliamo fare, noi giovani donne, nel fiore dei nostri anni?”. Lui alzò lo sguardo di colpo, come preso da una folgorazione: “Allora anche voi siete promessa!” “No, vi sbagliate. In questo mondo antico, sono fortunata di avere almeno un padre moderno che ha preferito la mia felicità alle questioni di prestigio economico”.
Rimasero in silenzio; in uno di quei silenzi pieni di tuoni, lampi, pensieri inespressi e parole che vengono ingurgitate, per poi essere sepolte in una memoria che rischia, un giorno, di farsi rimpianto.
“Édouard, ti ho cercato dappertutto”, Judith si avvicinava a passo svelto alla coppia, accompagnata da Chloè. “Judith, sì, perdonatemi. Ero qui a parlare con una vecchia amica, mademoiselle Sylvie”, e quest’ultima fece un inchino con il capo, ricambiato dalla sua interlocutrice. “Ah, la carissima amica di Chloé! Édouard mi ha tanto parlato di voi! So che state terminando il collegio. Che periodo meraviglioso! Oh, come vi invidio. Anche io quando avevo la vostra età avevo voglia di scappare alla vista dei libri, per dedicare maggiormente il mio tempo a viaggiare e a conoscere il mondo. Questo per me contribuiva alla crescita e alla maturità di una persona, molto più di quelle quattro lezioncine imparate a memoria da ripetere a un professore distratto. Ma sapete, vi svelo un segreto: di anni spensierati come quelli, non ne ritornano indietro tanto facilmente”. Voleva essere consolante, Judith, con i suoi calzari provenienti da Madrid e i gioielli italiani, eppure non fece altro che aumentare il divario tra lei e la piccola figlia dei Lambrouse. “Édouard, caro, vi cerca vostro padre” gli disse, poggiando delicatamente una mano guantata sulla sua spalla. Poi, si rivolse alle due giovani donne, che la osservavano in silenzio, l’una accanto all’altra: “È stato un piacere, mademoiselle Sylvie, spero di rivederla presto. Con permesso”.
Man mano che i futuri sposini, i promessi, si allontanavano con la mano di lei a braccetto con lui, Sylvie non poté fare a meno di chiedersi come tutti in quella parte di mondo, stessero recitando una parte; come chiunque lì dentro stesse indossando una maschera. Tutti, a cominciare da lei stessa, che fingeva indifferenza davanti al suo amato, mentre dentro si sentiva morire. E dall’altro lato, Édouard che, mentre un minuto prima decantava il suo amore per lei, un minuto dopo fingeva amicizia davanti alla sua futura moglie. E perché non inserire anche quest’ultima all’interno di questo quadretto, di questo triangolo; cosa avrà pensato Judith, avvicinandosi a loro, nel vederli così coinvolti all’interno di una conversazione fatta di sguardi gravi e lunghi silenzi?
Era questo il significato di crescere? Vivere di nascosto? Indossare una maschera diversa in base a chi ci si trova davanti e pretendere che tutto sia parte di una normalità, anch’essa costruita ad hoc? E che ruolo ha la normalità, nel momento in cui si vuole stare accanto al proprio amato, mentre costui è costretto a vivere una vita che non desidera?

“Sylvie, comincia a farsi l’ora. Tra poco dovrai andare. So che questa festa si è rivelata più intensa del previsto, ma vieni a fare almeno un ballo. Distraiti insieme a me, almeno così questa giornata non sarà stata poi un completo disastro.”Così la sua affettuosa amica tentava di attutire la caduta del suo spirito. Non avrebbe fatto menzione del suo attaccamento al fratello, ma sapeva perfettamente, seppure non l’avesse mai provato, che davanti a lei aveva una foglia tremolante dal cuore infranto. Tuttavia, su un punto Chloé aveva ragione: si trovava a un ballo degno dei grandi saloni regali di Parigi. Quel fascino provato qualche ora prima, la faceva ancora sentire come un’eletta a un’assemblea degli dèi. Dunque, decise di tornare nella sala per prendere parte ai balli, sebbene il suo animo fosse ben più predisposto all’ascolto assorto di malinconici violini, suonati nella cima di un’altissima scogliera, affacciata sugli abissi del mare.
Iniziate le danze, dove una fila di donne stava di fronte a una fila di uomini, Sylvie dovette fare uno sforzo di memoria per ricordare i passi di un ballo che non eseguiva da più di un anno. Si trattava di prendere la mano del ragazzo di fronte, fare un intero giro e poi passare al giovane successivo. In questo modo, uomini e donne si scambiavano i partner, potendo relazionarsi con tutti i partecipanti.
Dopo uno zio di Chloè e un cuginetto di otto anni, con cui si divertì a fare una giravolta in più del dovuto, fu il turno di un giovane dai riccioli biondi e gli occhi di un nero profondo e penetrante. Per tutta la durata del loro ballo, entrambi non parlarono. Semplicemente appoggiarono, come di consuetudine, i palmi l’uno sull’altro e danzando, non si tolsero gli occhi di dosso. In quel frangente, sembrava che il tempo si fosse fermato o avesse accelerato tanto rapidamente che non solo il ballo volse al suo termine, ma che ormai il tempo era definitivamente scaduto. Concluso l’inchino finale, Sylvie staccò gli occhi dal suo ballerino, poiché attirata da Chloé che la chiamava concitata: “Sbrigati, è tardi” e intanto indicava il grande orologio sopra al camino. Con un sobbalzo di preoccupazione, si accorse che le lancette segnavano quasi le sei di pomeriggio. E con un “addio” detto agli occhi abissali di quell’estraneo, piuttosto che alla sua persona, si diresse insieme all’amica in direzione della stanza di quest’ultima. Filarono via, fuori dalla grande sala, superando gli ospiti che parlottavano e ridevano tranquillamente. Giunsero alle scale e le risalirono due gradini alla volta, per quanto i loro vestiti potessero consentirglielo. Mancavano solo quindici minuti alla partenza de La Rondine per Narbonne, e questo le diede unicamente il tempo di sfilarsi gli orecchini, mettersi le sue scarpe: “No, il vestito tienilo! Me lo ridarai appena tornerò in convento, la settimana prossima.”. “Sei sicura? Oh, Chloé, davvero non so quanto sia una buona idea affrontare un viaggio con questo ve…” ma lo sguardo convinto di Chloè bastò per convincerla: “Preferisci perdere la corriera e sentire le voci della madre superiora? Piuttosto, prendi anche il libro che mi ha regalato Édouard, ti farà compagnia durante il tragitto.” “Come sei cara, Chloé! Non so come farei senza la tua amicizia.” E le due amiche si abbracciarono, prima che Sylvie sgattaiolasse fuori dalla casa, triste di non aver salutato nessuno. E con nessuno, significa nemmeno Édouard, per quanto non se lo meritasse. 
Quant’è strano l’amore: sicuramente in quel momento, la giovane stava sperimentando la classica illogicità che porta l’individuo a compiere azioni moralmente sbagliate, solo in nome di quel forte sentimento. Come diventare l’amante di una persona, che quindi non sarà mai completamente devota a lei. Oppure, come mordersi il labbro per non essere riuscita a salutarlo, o chissà, per non averlo voluto fare, nonostante appunto lui non meritasse più il benché minimo pensiero da parte sua. Tuttavia, durante quella corsa nelle strade illuminate dai lampioni, frenata da un abito inadatto a quella situazione, il semplice pensiero di aver assistito a un ballo vero e proprio, come non ne aveva mai visti prima, riusciva a consolarla dalle pene di quell’amore infelice. Eppure, per il tempo di quella corsa, quegli occhi neri, non riusciva a toglierseli dalla mente; erano come ricordo di un sogno passato.
Ed eccola, a pochi metri da lei, La Rondine ormai in partenza. Riuscì a salire giusto in tempo, prendendo posto in modo poco elegante, per via di quel fiatone che si ritrovò dopo aver corso a perdifiato. La carrozza si mise subito in movimento, gremita di gente che tornava dalla propria gita festiva. Una volta al suo posto, scostò leggermente la tendina per prendere aria e intanto cominciò a vedere il paesaggio cambiare, lasciando alle spalle la città per entrare in zone sempre più rurali. 
 Cessato finalmente il fiatone, si sedette meglio, mettendosi sempre più a suo agio, con Madame Bovary sulle cosce. Eppure c’era qualcosa che la disturbava all’altezza della natica. Fece per tastarsi il vestito, ed in quel momento si ricordò della lettera che aveva scritto per lui. Così, con aria malinconica e le lacrime agli occhi, prese a rileggerla:

 “Caro Édouard,
quando leggerai queste parole, saremo già lontani.
Eppure affido a questa lettera tutto il coraggio di cui non predispone la mia voce.
Che senso ha ancora vivere i nostri giorni miseramente, aspettando solo dei brevi momenti di gioia pura che, nostro malgrado, finiscono giusto il tempo di un fruscio di vento? Non si tratta, per caso, di forti emozioni, di un fuoco che ci accende e ci ravviva, quello che provano le nostre menti e le nostre carni, quando siamo finalmente soli, io e te?
Probabilmente i miei pensieri correranno più velocemente della mia età, ma ormai quasi più niente ci frena dal coronare un sogno: quello di vivere felici, insieme.
Come deserti aridi che separano due mondi che vogliono ricongiungersi, così sono i mesi che ci tengono divisi dal momento in cui relegherò al passato i giorni del convento. Eppure, se rimaniamo uniti, possiamo cambiare il destino! Congiungendo le nostre menti, otteniamo quasi la forza dello stesso Iddio, divenendo capaci di modificare la vita e le sue strade a nostro piacimento.
E se il tuo cuore canta all’unisono con il mio, sono persino disposta a scappare con te, ancor prima che sboccino i primi fiori primaverili.
Pertanto, ti chiedo di pesare a fondo i tuoi pensieri e il tuo sentimento per me, e nel caso in cui anche tu non riuscissi a immaginarti un futuro, separati, allora sappi che io sarò felice di divenire la tua sposa.
So che non conviene a una giovane pronunciare per prima queste parole, ma è ciò che sento nelle vene; è quello che il cuore mi sussurra da quando mi hai rivolto parola per la prima volta, in quel lontano dicembre a casa tua. Non riesco più a mentire a me stessa e ai miei sentimenti; non riesco più a nascondermi dietro maschere che non mi appartengono. Dunque, se le tue intenzioni sono serie, sappi che io sono già pronta a fare questo passo, in qualunque momento.

Eternamente tua, S.
12 Novembre 1856 “

 Tutti i sogni di una giovane fanciulla, inesperta riguardo ai colpi bassi dell’esistenza, erano lì, raccolti in un foglio, ormai pressoché carta straccia. Eppure, il suo sogno era talmente bene architettato e studiato nei minimi dettagli, che corrispondeva veramente alla sua idea di paradiso in terra. Infatti, sposare quell’uomo non l’avrebbe resa la classica padrona di casa, relegata a governare la proprietà e a zittire la propria voce in sua presenza. No, perché era sempre stata certa che con lui sarebbe stato diverso. Tanto per cominciare, si immaginava che avrebbe avuto modo di continuare a studiare, di arricchire la sua conoscenza al pari di lui. Inoltre, mentre era lì che pensava, certamente anche con il suo aiuto, alla gestione della casa e dei figli, era sicura che sarebbe stata la sua spalla in ogni avvenimento che la vita avrebbe messo davanti a loro. E allo stesso modo lui avrebbe fatto con lei.
Ma ormai, che importanza aveva tutto ciò? Quei sogni così vigorosi fino a quel mattino, si erano appassiti, nel giro di poco tempo, come le rose colte e senza essere innaffiate. E quel magnifico paradiso in terra, valeva infine quanto quella stessa lettera: e cioè più niente, ormai.
Di fatto, lei non aveva neanche avuto modo di consegnargliela, e da un lato, meglio così. Quel codardo, quel vigliacco, non avrebbe mai negato un favore al suo caro padre; e che importanza aveva se questo favore significava vendere la sua stessa vita, in cambio di tranquillità: di una tranquillità tutta sociale.
Lei, però, di un fatto era più che sicura: non si sarebbe mai abbassata a fare l’amante. Per quanto quella Judith non le avesse fatto una buona impressione, lei, una bambola strizzata in un vestito più costoso del suo intero guardaroba, comunque non si meritava di essere presa in giro da ben due complici. E d’altro canto, la stessa Sylvie, sapeva di non meritarsi di essere la luce degli occhi di un uomo, soltanto a giorni alterni.
Era, dopotutto, questo il tipo di amore di cui aveva sempre letto? Era questo il grande amore di cui parlavano Shakespeare, Molière, Hugo e tutti gli altri suoi scrittori preferiti? Certo che no! Sicuramente, tra una menzogna e la realtà, lei avrebbe sempre scelto la realtà, sebbene questa sarebbe stata più amara della menzogna. Pertanto il suo posto, a suo malincuore, non poteva più essere accanto a Édouard.
E questa stessa incapacità di quest’ultimo di non poter mollare una tradizione trita e ritrita per correre da lei, come d’altronde lui stesso avrebbe voluto, non lo rendeva più il cavaliere impavido pronto a salvarla, il quale era sempre stato ai suoi occhi; colui che rispecchiava quel sogno di uomo ideale che lei aveva in mente. Nossignore, in quanto finiva per ridursi, per sminuirsi, per rimpicciolirsi fino a raggiungere la misura di un omuncolo, di un giovane superfluo, più attento alla forma che non a quello che contava davvero: l’amore.
Tra un pensiero e l’altro, tra una lacrima nascosta agli altri passeggeri e una risata ironica e pazzoide per consolarsi, una volta riposta la lettera nella tasca, i suoi occhi ricaddero su quel nome: “Madame Bovary”. “Chissà se c’è qualcuno a questo mondo, capace di comprendermi. Chissà cosa avrà mai da insegnarmi la storia di questa donna. Chissà che lei non abbia le risposte. Chissà che lei non mi sappia guidare lungo questo labirinto, per trovare la via della libertà”.

 Quasi un’ora dopo, arrestato il turbinio di pensieri che le offuscavano la mente, ecco nuovamente Sylvie al punto iniziale di questa storia. Nuovamente a correre, questa volta per Narbonne, ormai a pochi metri dalla Cattedrale; le cui luci spuntavano tremolanti alla fine della via che si vestiva per notte. Eppure, quella corsa riuscì ad avere in lei un qualche effetto benefico e liberatorio; infatti, ad ogni metro raggiunto, ella riusciva a cacciare sempre più indietro tutti gli schiaffi all’animo ricevuti in quello stesso giorno, permettendo invece soltanto al ricordo del ballo e dei suoi echi, di tornare a galla per poterla consolare.
Sicura di trovare chiuso il cancello del convento, decise di entrare dalla porta principale della Cattedrale. Poi, da lì, passando dal chiostro interno, sarebbe salita nella sua camera a cambiarsi, raggiungendo così successivamente le altre compagne nella cappella al piano di sotto.
Tuttavia, senza accorgersene, il grande campanile rintoccò per sette volte. Era ormai troppo tardi per cambiarsi, e se fosse salita nella sua stanza, di sicuro l’avrebbero notata. Non le rimaneva altro da fare, che andare direttamente nella cappella.
Dunque, aspettando che il fiato tornasse quello di sempre, si avviò con nonchalance fino a quella chiesetta semplice, con alle pareti dell’unica navata, immagini devote dai toni notturnali, tipici del Seicento. Alcune compagne erano già sedute ai loro posti, già in raccoglimento e con le mani giunte, mentre le suore erano affaccendate a distribuire preghiere e pregare in ginocchio, davanti all’altare. “Chissà se non mi hanno scoperta, per davvero. Effettivamente, è strano, per una come me, rimanere chiusa tutto il giorno in camera. Posso soltanto sperare che Selene mi abbia davvero coperta, per come mi aveva promesso”, e con lo sguardo cercò la compagna, che aveva il capo chino, seduta tra le prime file. Non essendoci modo di avvicinarla, decise quindi di sedersi dietro alle sue compagne, senza fare rumore e cercando di non farsi notare.
Appena occupato il suo posto, poggiato accanto a lei il libro che aveva ancora con sè, e congiunte le mani in preghiera, il suo stesso animo ebbe giusto il tempo per tirare un sospiro di sollievo e dire: “è fatta, è finita”, subito dalla porta, tuonò la voce della madre superiora che invocava perentoria il suo nome: “Mademoiselle Sylvie”. La fanciulla si girò con gli occhi pietrificati dalla paura, certa di essere stata scoperta e dando la colpa a quel magnifico vestito che ancora portava addosso.
“C’è un giovane alla porta che chiede di lei”. 

Fine Prima Parte (Forse)

Aggiunta dell’Autore:

A voi, cari lettori, che siete arrivati fino alla fine di questo breve racconto, chiedo, qualora conosceste qualche giornale online o cartaceo disposto a pubblicare, di scrivermelo nei commenti o di inviarmi una mail all’indirizzo rossittovaleria@gmail.com .
Grazie di cuore del vostro affetto.

Valeria

Racconti, Racconti & Poesie

Giulietta e Giulietta

 

  1. Scoperti
  2. Un nuovo personaggio
  3. Angelo e Diavolo
  4. Le lettere scarlatte
  5. La lista
  6. Atto secondo
  7. Le prove generali
  8. L’altalena blu
  9. In scena
  10. Sipario
  11. “Giulietta e… Giulietta”
  12. Un’altra storia

*Scoperti*

Lui lo aveva scoperto. Anzi, ci aveva scoperti.
Fingere di vivere una relazione felice era troppo, pure per un’attrice come me. E pretendere che tutto fosse normale, che nulla fosse successo, che io fossi la solita compagna amorevole di un tempo, era decisamente troppo, anche per una mente come la sua.
Lui sapeva tutto. Lo aveva capito da quel bacio che gli avevo negato più volte, dai giorni e poi dai mesi in cui evitavo perfino il suo sguardo, e ovviamente dal mio essere altrove.
Lo aveva intuito dal nostro letto, diventato un giaciglio scomodo per passare ormai innumerevoli notti agitate e rigide, di quelle che non vedi l’ora che finiscano, prima di riviverle nuovamente e forzatamente l’indomani.
So che la colpa è stata sicuramente la mia. Cedere così a un altro uomo, lasciarlo entrare e invadere testa, occhi, cuore, corpo.
No, Norbert non se lo meritava.
Eppure, che dire di tutte quelle volte in cui mi ignorava perché troppo preso dalle sue ricerche? Un matematico come lui, come poteva decidere di spegnere le emozioni per concentrare tutte le sue energie solo sulla logica e sulla razionalità?
Nonostante ciò, io gli parlavo e gli parlavo pure tanto! La sera, a cena, quando finalmente ci vedevamo dopo una giornata durante la quale eravamo stati separati dai nostri rispettivi lavori, ero sempre lì che tentavo di estrapolare quel minimo di conversazione. E sebbene i miei metodi fossero di scarsa inventiva, come il semplice farmi passare il sale,  l’acqua, e infine un po’ più d’amore, la conversazione non si elevava mai oltre ai livelli di:
-“Com’è andata oggi?”
-“Bene e a te?”
Bella domanda; come mi doveva essere andata l’ennesima giornata senza lui?
Vedete, il fatto è che ormai dovevo attirarlo con tutti i mezzi a disposizione. Patetico, eh? Il mio intento era quello di dargli un pizzicotto morale attraverso le mie parole, perché volevo che tornasse a notarmi. E allora gli raccontavo della mia giornata a lavoro, del regista della nuova compagnia teatrale che mi dava sotto, e magari esageravo anche qualche dettaglio, ma solo per dirgli tramite quei racconti: “Sono qui, eccomi!”.
E se, un tempo, lui si sarebbe acceso a quei discorsi e avrebbe inveito contro il mio direttore, inondandomi di idee e consigli su come tirare fuori quella creatività richiesta, adesso se ne stava lì, silenzioso e pensoso, con il suo solito capo chino su un libro di fredde e rigide regole algebriche, che di amore, non avevano proprio niente.

No, non potete dirmi che sono stata io la causa primaria di tutto. Lui non c’era più già da prima, da quando gli offrirono quel nuovo lavoro all’University of Manchester. Certo, in qualcosa fui davvero la prima: infatti decisi di spingerlo a prendere quel posto e così dare una svolta alla sua carriera, senza pensare alle conseguenze.
Probabilmente, se con il senno di poi, mi avessero chiesto cosa avrei fatto se avessi potuto tornare indietro, mi sarei comportata nello stesso identico modo: avrei sempre continuato a volere il meglio per lui, perché si trattava della sua vita, della sua felicità e, di riflesso, anche della mia.
Se non era amore questo, ditemi voi che nome poteva avere. E dopo un anno di trasferimenti e appoggio morale, più gli ero vicino e più diventavo scontata, invisibile, superflua. Ero ormai colei che più veniva ignorata -perché il nuovo lavoro gli costava un’infinità di energie e tempo, a detta sua- e più perdeva di creatività e di concentrazione. E in quanto attrice e artista, la concentrazione era il mio pane quotidiano.
Ma com’era possibile che una mia caratteristica così fondamentale, quella basata soltanto sulla volontà e sulla mia mente, adesso, a ventisette anni, derivasse da un altro essere umano?
Peraltro, ormai non riuscivo più a interpretare una parte che non appartenesse a una Penelope. Eppure l’archetipo della moglie in continua attesa del ritorno del suo amato, era lontanissimo dal personaggio che mi si chiedeva di interpretare in quel momento. Io dovevo essere una nuova Giulietta moderna, sebbene ancora nei panni del XVI secolo: innamorata della vita, dell’amore, di Romeo. Una fanciulla affascinata dalla speranza di un’esistenza piena e colma di forti passioni. Tuttavia, non potevo essere più lontana da quel personaggio: invece di correre alla scoperta del mondo con occhi avidi di curiosità, io continuavo ad aspettare che Ulisse tornasse su di un palcoscenico nel quale, per ovvi motivi, non poteva comparire.
Quella non era la sua storia.
Dunque, sì, io amavo Norbert e soffrivo nel vederlo sempre più distante, sempre più lontano da me. Nei giorni in cui la sua distrazione, rispetto alla mia presenza, andava aumentando, ecco che questa lontananza andava lentamente spegnendo una lucina dentro di me. E questa luce diventava sempre più fioca, sempre più lontana, come candela che a un soffio deciso, infine, si spegne.

*Un nuovo personaggio*

Quel soffio deciso fu Steve: il mio collega Steve. Era lui che mi consolava dopo la solita ramanzina del regista da dietro le quinte, dovuta alle mie scarse prestazioni del momento. Come biasimarlo? Aveva ragione, in quel periodo non ero più io.
“Che fine ha fatto la tua grinta per cui hai ottenuto la parte di Giulietta? Ridi, Giulietta, esulta, Giulietta! E non stare lì ferma, a camuffare il tuo dolore, come una Lady Macbeth fatta pure male”. Non posso negare che a quelle parole del mio direttore, gli occhi mi divennero lucidi.
Purtroppo, questo è una caratteristica che ha l’arte: e cioè quella di essere un’arma a doppio taglio. Essa ha il potere di curare molte delle ferite che ci portiamo dietro negli anni, ma nel momento di maggiore sofferenza, ecco allora che l’arte riverbera la nostra pena al mondo, aumentandone le dimensioni e portandola sotto gli occhi di tutti, come fosse un proiettore che fissa su parete bianca una grande e vivida lettera scarlatta. E sebbene tentassi in tutti i modi di camuffare la mia, niente riusciva a dissimulare la sua presenza, stampata sulla fronte.
Ma c’era sempre Steve ad aspettarmi in silenzio in un angolo del palcoscenico. Col tempo cominciò a inondarmi di tutta l’autostima di cui avevo bisogno e di cui mi nutrii per continuare a camminare a testa alta e con il sorriso deciso, anche all’interno di una compagnia teatrale così importante e rispetto a cui mi sentivo al momento inadatta. Pertanto, tra lo sconforto e un compagno assente, abbassai le mie difese così tanto che cominciai a vedere con altri occhi, quel semplice collega così premuroso.
All’inizio non ci fu malizia da parte mia, dovete credermi. Anzi, quando lo invitavo a berci una birra nel mio appartamento, dopo le prove, lo facevo in tutta amicizia, senza premeditare il fatto che il mio compagno non fosse in casa: tanto lui lavorava sempre.
Eppure, la bomba con Norbert doveva scoppiare prima o poi, e successe una sera di febbraio. Dopo cena, si stava ripetendo nuovamente quel solito quadretto che continuando in quel modo, si sarebbe reiterato all’infinito. Ancora una volta, ero lasciata a me stessa nella stanza da pranzo a guardare la tv, mentre il mio fidanzato se ne stava nel suo studio a fare ricerche. La casa era talmente tanto silenziosa che mi sembrava di essere completamente sola. Al che, stanca di quella situazione, mi feci coraggio e andai a parlargli.
-“Nor, perdonami se ti disturbo”
-“Amore, dimmi.”
-“Senti…” mi fermai: “Cosa stai facendo?”. Norbert rise, sapeva che pur spiegandomelo, io non avrei capito niente. Quindi andò al punto.
-“Vuoi davvero sapere che faccio o mi vuoi dire qualcosa?”. Ecco l’introduzione che volevo, tutto era pronto perché finalmente parlassi. Un bel respiro e così lo feci, o almeno ci provai.
-“Amore, tu lo sai che ti sono vicina e che sono la tua sostenitrice numero uno.”
-“Certo che lo so. Ma…”, lui mi anticipò.
Ecco ci siamo!, pensai: “Ma tu non sei più tu.”, gli dissi infine.  Tuttavia, mi fermai: volevo capire la sua reazione alle mie parole. Lui rise, ma non era una risata sincera.
-“Ma certo che sono sempre io, che ti succede? Hai il ciclo per caso?”. Una frase come quella sarebbe stata capace di trasformarmi in diavolo nel giro di poco tempo.
-“Dovrei avere il ciclo per venirti a dire le cose come stanno?” La lite era ufficialmente cominciata: “Tu sei cambiato, sei distante, sei irriconoscibile. Da quando siamo venuti in questo posto e -sottolineo- per il tuo lavoro, è come se mi fossi trasferita con un’altra persona. Siamo ormai dei coinquilini, e non più la coppia che siamo sempre stati.” A queste parole lui non disse niente, mi lanciò semplicemente uno sguardo sorpreso, a causa di quella mia reazione secondo lui spropositata. Al che, io continuai, ancora più sicura: “Per favore, non dire che niente è cambiato! Perché, sappi che dal mio punto di vista, è come se, nel mentre che ti derubano in casa, uno dei ladri ti dice: “Ma no, stai serena! Non stiamo facendo una rapina a casa tua: guarda, lo vedi quello lì che sta mettendo i tuoi gioielli in un sacco? Li sta solo spostando altrove per conservarli meglio! Tranquilla che non sta succedendo niente!”.  E nel mentre tu sei lì ad assistere impotente a quella scena, sapendo perfettamente che quel dannato ladro sta mentendo e sta modificando la realtà per i suoi comodi. E no, non ho il ciclo!”.
Norbert non rispose subito e questo mi fece spazientire maggiormente. Poi, dopo una lunga pausa si limitò a dire: “Sono troppo stanco per discutere oggi, ho avuto una giornata pesante, vado a dormire.”
A quelle parole la mia rabbia aumentò a dismisura; e il tutto era inversamente proporzionale a quella sua calma piatta che mi faceva morire dentro. “No, noi non ne parleremo domani! Noi ne parliamo adesso, perché dobbiamo risolvere. Evidentemente, ancora devi imparare il fatto che io non accendo discussioni, come questa, soltanto per il gusto di litigare, ma per migliorarci!”.
-“A me sembra proprio che tu voglia litigare invece, e che non è vero che ti interessa del mio lavoro, se quando vedi che ci perdo gran parte della vita a stargli dietro, cercando di dare sempre il meglio di me, tu mi inveisci pure contro!”.
Con queste frasi mi destabilizzava ogni volta. Non era vero quello che diceva, ma, come sempre, non mi sentivo capace di spiegarglielo. Aveva ribaltato la situazione con una velocità da maestro e così, mi aveva fregato nuovamente.
-“Perfetto!”, dissi io, cercando di tornare più razionale, “allora troviamo un compromesso! Facciamo che la sera, almeno un paio di volte a settimana, almeno una volta a settimana, tu chiudi ogni libro e noi stiamo insieme! Perchè non è possibile che siamo lontani da mesi, pur vivendo nella stessa casa!”
-“Ma lo capisci che ho delle scadenze? E lo capisci che voglio fare bella figura perchè ci tengo a ottenere quella promozione?”
-“Certo che lo capisco, ma così facendo, mentre lotti per ottenere una promozione nel tuo lavoro, vieni bocciato e torni -e torniamo- indietro all’interno di quella che è la nostra storia. Prova almeno a trovare una misura ed equiparare lavoro e amore, perché sennò va a finire che o perdi l’uno o perdi l’altro.”
-“Bene”, rise sarcastico “siamo arrivati al: o il lavoro o me. Complimenti, neanche i discorsi che facevamo da più giovani arrivavano a tanto”.
-“Ma io non ho detto questo! Ho detto che…”. Mi interruppe.
-“Me ne vado a letto”, ripeté.
Io feci silenzio. Quella sensazione di parlare con la parete della mia cucina, mi stancava come dopo una lunga giornata di fatiche. Dunque, questa volta non lo fermai. Ci pensai un attimo e poi replicai: “E io raggiungo i miei colleghi al pub”.
In quel modo, si concluse la nostra conversazione, con il mio stomaco che era sempre più in subbuglio, come se mi avesse presa a pugni, piuttosto che parlare.

*Angelo e Diavolo*

Quel che dissi, subito lo feci. Non potevo rimanere neanche un solo momento in più in quella casa. Mi vestii in fretta, mi misi un filo di trucco, presi chiavi e borsetta, poi corsi giù per le scale. Una volta in strada, fermai un taxi e, appena arrivato, finalmente partii.
Giunta al locale, notai subito che c’era anche Steve. Non posso descrivere l’emozione che provai quando vidi che i suoi occhi brillarono nel vedermi. Mi fece cenno e poi anche spazio su quella panca su cui sedeva.
Io, allora, salutai tutti e andai spedita da lui, sentendomi per la prima volta contenta per la sua presenza d’amico. Non appena presi posto accanto a Steve, percepii un cambiamento in me stessa. Lui, da fuori, era quello di sempre: mi sorrideva e alternava alle chiacchiere con gli altri, qualche frase rivolta soltanto a me. Eppure, forse sarà stata quella camicia bianca leggermente sbottonata, lo sguardo vispo, la sua attenzione ad ogni mio movimento, ad ogni mio gesto e quel sorriso dolce che lo accompagnava al suono di ogni mio discorso. In quell’occasione, sentii un’affinità mai provata prima con lui. Tuttavia, quasi subito mi resi conto che quel tipo di chimica non mi era affatto nuova, specie dopo sei anni di relazione con Norbert
Quella sera passò rapidamente, tanto che in un lampo ci ritrovammo soli io e lui, a camminare tra le strade deserte di una città dormiente. Steve si propose di riaccompagnarmi a casa e, giunti davanti al mio portone, dopo quattro battute e qualche silenzio, mi avvicinò a lui e ci baciammo.
Non fu un bacio premeditato, ma è stato come una scarica elettrica che ci ha legati di colpo e irrazionalmente. Lasciate che vi spieghi la dinamica: mentre ero ancora ai piedi delle scale del mio ingresso, mi limitai a dargli la buonanotte, e fu proprio nell’istante che feci per girarmi verso l’uscio del mio palazzo, che Steve mi afferrò per un braccio. Posso assicurarvi che neanche questo suo gesto fu premeditato, lo fece e basta. Così io mi rigirai lentamente e lui era lì, che mi fissava intensamente negli occhi. No, non fu nemmeno in quel frangente che mi baciò sulle labbra, poiché si limitò a darmi un bacio in guancia. Io, un po’ sorpresa e imbarazzata, mi sporsi in avanti per ricambiargli quel bacio e così fummo così vicini che, non so chi per primo, chiuse gli occhi e si diresse intuitivamente alle labbra.
E quindi, quello fu il nostro bacio, accaduto per la prima volta davanti al portone del mio palazzo; un portone che anticipava il mio ingresso di casa, il quale era distante di pochi metri dalla porta della stanza in cui, in quel momento, il mio compagno si era addormentato, ignaro di tutto.
Richiuso il portone alle mie spalle, mi sentii divisa in due: c’era un angelo sopra la mia spalla destra che mi sgridava e un diavolo sulla sinistra che ancora non si era ripreso da quel bacio. Il mio viso, i miei capelli, i miei vestiti, tutto di me sembrava riportare la fotografia di quell’istante. Temevo che il mio corpo si fosse impregnato del profumo di Steve. E Norbert, Norbert avrebbe capito tutto appena avrei messo piede in casa?
Mi sentivo sporca, cattiva, una debole, eppure non riuscivo a rallentare i battiti del mio cuore. Non era mia intenzione che succedesse, e non avevo nemmeno idea di come tutto fosse successo. So solo che in quel momento, non ero mai stata tanto Dott Jackyll che scopre Mr Hyde; perché, per quanto mi riguarda, ero sicura che mai e poi mai avrei guardato un altro uomo, all’infuori del mio.
Fortunatamente, rientrando in casa, il silenzio regnava su tutto, a partire dalla nostra camera da letto. Norbert dormiva sonni tranquilli, e nel mentre io non riuscivo a calmare i miei pensieri. La guerra nella mia testa non sapeva se svegliarlo e dire tutto, o tenerselo per se’, come segreto da custodire fin dentro la tomba. Anche perché, almeno di una cosa ero certa: che non ci sarebbero state altre volte.

*Le lettere scarlatte”

Ovviamente ci furono altre volte.
La mattina successiva non vidi Norbert; si era svegliato prima del solito per andare all’università; alla faccia del “ne riparliamo domani”. Ma non vi feci troppo caso, tanto sapevo già che sarebbe andata a finire così. Dunque, come se niente fosse successo, mi preparai alla svelta e mi recai alle prove in teatro.
Poco dopo il mio arrivo, rimasti soli nel buio del backstage e nonostante una certa distanza che ci tenevo a rispettare, improvvisamente Steve mi prese nuovamente il braccio, attirandomi a se’. E fu così che il mio instabile castello di autocontrollo innalzato durante una notte insonne, crollò miseramente. Non mi baciò, ma si limitò soltanto a tenermi stretta e avvicinare il suo viso al mio, giusto il tempo di un attimo eterno e fugace, passato di nuovo insieme; furono giusto pochi secondi che mi servirono a capire che la chimica di un corpo non può essere governata dalla testa.
-“Ragazzi, ci siamo, tutti in scena per provare il secondo atto”. E mentre gli altri si chiedevano dove fosse finito Romeo -ovviamente, era lui Romeo-, ecco allora che Steve si staccò da me, raggiungendo il gruppo sorridente e con fare così sereno, da lasciarmi credere che quelle farfalle nello stomaco, miste ad ammonizioni nella testa, stessero scombussolando solamente me. Pertanto rimasi immobile; ero ancora visibilmente frastornata da quella vicinanza inaspettata e che volevo evitare a tutti i costi.
Mi chiesi e mi chiedo tutt’ora, come si può resistere all’attrazione?
Respirai profondamente e cercai di calmarmi, ma intanto non era più una sola la lettera scarlatta che portavo in fronte; perché, oltre a una relazione che si stava sciogliendo lentamente, c’era anche un secondo bacio che aleggiava nell’aria di un teatro chiuso al pubblico, e che cominciava a legarmi sempre più a quello che stava diventando davvero il mio Romeo.
-“Insomma, Miranda, con i tuoi tempi! Aspettiamo te per fare la scena del balcone e tu perdi tempo nel backstage?”, era il regista che mi dava il buongiorno.
-“Mi scusi, eccomi, ci sono!”. Quella chiamata da parte sua, mi aveva fatto riprendere dal mio stato di trance, come se avessi ricevuto cinque schiaffi dritti in faccia, schiaffi morali -si intende- che mi lasciarono ugualmente con due guance rosse ben visibili.
Avanzai verso il centro del palco e man mano che mi avvicinavo a Norbert, il suo sguardo riuscì a rasserenarmi.
-“Allora, ricapitoliamo! Romeo entra nell’orto dei Capuleti e vede Giulietta al balcone. Si giurano amore eterno e decidono di sposarsi. Forza Steve e Miranda, vi voglio concentrati. Miranda, fammi vedere la ragazzina che eri un tempo, quella sognatrice che credeva nell’amore e in un futuro felice. Fammi sentire la passione, l’amore, la volontà di credere che esistono solo cose belle al mondo. Dai, su! Confido in te!”. Con quel “confido in te” del maestro, ricordo che fu come se qualcuno mi avesse iniettato una dose di fiducia nelle mie capacità, qualcosa che avevo perso già da tempo. A pensarci bene, aveva ragione: non dovevo interpretare un personaggio tanto diverso da ciò che, in realtà, io stessa ero un volta. Anzi, mi ricordo bene della piccola me, nella casa affacciata sul mare dove vivevo con miei, quando quella leggerezza, quella gioia, quella vita mi appartenevano per davvero.
Prima che Norbert entrasse nella mia vita, la stessa Giulietta del libro o quella dei tanti film, è sempre stata un modello per me; una bella fanciulla che trova un amore talmente travolgente da sfidare persino la morte. Io sono cresciuta con questo ideale; io sono cresciuta rincorrendo le farfalle per vedere dove mi portassero. E, in cuor mio, ho sempre coltivato la speranza che da qualche parte nel mondo poteva esistere per davvero un Romeo pronto ad aspettarmi; ad attendere me che, nonostante tutto, non ero Giulietta.
Tuttavia, se un tempo collegavo questo magnifico personaggio shakespeariano all’amore e al sogno, adesso non riuscivo a fare altro che legarlo alla morte. Amore e morte sono due fasi che hanno segnato l’alfa e l’omega di questo personaggio: Giulietta per amore ha conosciuto la morte, e questo non potevo togliermelo dalla testa. E se dovevo riscoprire quella parte di lei che era stata sempre nascosta in me, non potevo fingere che il tempo non avesse agito anche nella sua ombra, nascosta nei meandri della mia anima. Infatti, sentivo che la Giulietta che in qualche modo mi risiedeva ancora dentro, era ormai cresciuta e per questo, era anche più disillusa. Pertanto, la domanda che mi venne in mente, giusto prima di cominciare a provare fu: che io -Giulietta- abbia già conosciuto la morte? Che questa mi sia stata procurata proprio da colui che ho ritenuto essere Romeo –Norbert-, la cui data del decesso venne a coincidere con il giorno stesso del nostro trasferimento in quella città?

*La lista*

“Sono più tragica di quanto pensassi”, ecco il sunto di tutte quelle riflessioni che esplicai ad alta voce, pur sempre tra me e me. Come potevo definirmi attrice se non riuscivo a modellare la mia mente e il mio corpo a seconda delle fattezze del personaggio che andavo a interpretare? La mia Giulietta non poteva essere leggera: piuttosto si trattava di una ragazza che ne aveva viste tante, nonostante la sua breve vita, più volte riproposta nei secoli.
Eppure, non era ancora il momento di portare sulla scena la tragedia, pertanto dovevo trovare un pensiero che riaccendesse in me tutta la delicatezza e la dolcezza, tipiche di una giovane della sua età.
E alla fine di questo mio soliloquio interiore della durata di pochi secondi, i miei occhi caddero su Romeo. Ripensai alla sera prima e una parte di me, sorrise come in preda a un solletico, proprio come quando da ragazzina tornavo a casa dopo un appuntamento con la mia cotta di turno. Quell’avvicinamento così fugace, così intenso e segreto, avvenuto poco prima dietro le quinte, servì a darmi la giusta ispirazione di cui avevo bisogno. Allora sorrisi a Steve, lui ricambiò, io chiusi gli occhi e quando li riaprii: divenni davvero Giulietta.

Finite quelle prove, arrivò il tempo di tornare a casa. Quel giorno, sentivo che dovevo tanto al mio partner teatrale, perché la sua presenza mi stava sostenendo in un momento in cui da sola, probabilmente avrei solamente mollato. Nonostante ciò, seppur a malincuore, decisi di non passare del tempo con lui quel pomeriggio. Piuttosto tornai a casa, cominciando a pensare alla battaglia di quella notte con colui che era ancora il mio partner nella vita reale.
Tuttavia, giusto quella sera, Norbert si mostrò più gentile: tornò a casa con delle rose e con un dolce da mangiare insieme dopo cena. Io, visibilmente non serena, lo ringraziai abbozzando un sorriso, ma gli dissi che avremmo dovuto parlare.
Non starò a dilungarmi su quella conversazione che è stata poi il mio ennesimo monologo. Dopo avergli ripetuto per l’ennesima volta che si stava chiudendo e che andava somigliando sempre più a suo padre, lui ribatté intimandomi di crescere: “Hai ventisette anni, ma a volte sembri ancora una scolaretta del liceo! Diventa donna, Miranda! Che la vita non sarà sempre così gentile con te, come lo è stata in passato, specie se ti ostini a vivere nella bambagia come una ragazzina!”.
Dunque, alla fine dei conti, il punto rimaneva lo stesso: lui avrebbe continuato a lavorare secondo quei ritmi, mentre io mi sarei dovuta abituare a quella vita. Così, noi avremmo continuato a vivere in due mondi distinti, governati da tue teste cocciute che insistevano a non volersi incontrare, seppur continuando a condividere lo stesso letto.
Insomma, da questa strada non c’era uscita: se mi stava bene, perfetto, sennò mi veniva ricordato che quella casa non era mai stata una prigione. E chi vuole capire, capisca.
Una volta a letto, ricevetti un messaggio di Steve che mi mandava un semplice bacio virtuale: mi serviva molto più di quello in quel momento.
No, non fraintendetemi. Con questo, non intendo che avrei preferito Steve al mio fianco, ma piuttosto avrei tanto voluto avere una lista di ipotetiche soluzioni da seguire per poter finalmente sciogliere quel masso che mi impediva di avanzare con la mia vita.
Il lavoro di Norbert non era una questione di qualche mese: quello sarebbe stato diverso, avrei potuto vedere una luce in fondo al tunnel. Ma in questo caso si parlava di anni, di una ricerca che lo avrebbe portato a una promozione, poi a una successiva, mentre nel mezzo ci stavano altre innumerevoli ricerche. E io sarei dovuta stare in silenzio e in un angolo per un tempo indefinito che non lasciava presagire un barlume di via d’uscita?
Se la mia casa non era una prigione, quella storia cominciava ad esserlo. Tuttavia, mi sentivo quasi in colpa di avere quei pensieri: amavo o non amavo Norbert? E se lo amavo, potevo mai dire che la nostra relazione era asfissiante, solo perché lui era così dedito al suo lavoro?

Dunque mi alzai dal letto, Norbert era accanto a me che leggeva: “Dove vai?” disse sorpreso. “Ho bisogno di scrivere”, risposi frettolosamente.
Mentre uscii dalla camera, sentii il suo lumino che si spegneva. Ecco l’ennesimo momento in cui, invece di abbracciarmi, preferiva dormire pur di non stropicciare la sua preziosa faccia da professionista. Dopotutto, quanta stanchezza avrebbe potuto recargli il grave gesto di una carezza?
E mentre la nostra storia vedeva spegnere lentamente, a una a una, tutte le sue candele, per provare a salvarla e mantenere accesa la nostre luce che ci distingueva dal resto, decisi di sedermi in cucina. Così, appoggiata al tavolo, stilai una lista dei Pro e dei Contro di quella lunga relazione.
Cominciai dai Contro: ricordo che all’inizio non me ne veniva in mente nemmeno uno. “É distratto”, scrissi. Poi ci pensai, mi avvicinai al foglio e, dopo un poco, aggiunsi “Lavoro-dipendente”. Mi chiesi se fosse un reale contro, ma mentre stavo per cancellarlo, pensai che in tutto quel tempo in quella città, eravamo usciti a malapena cinque volte. Quindi non solo lo lasciai, ma cominciai ad aggiungere altri aggettivi a raffica, insieme a frasi e momenti che allungarono la lista dei Contro fino a superare una cinquantina di elementi. Decisi di fermarmi, e intanto ridevo tra me e me: ecco che succede a scoperchiare il vaso di Pandora.
Pertanto, passai a ragionare sui Pro; scrissi qualcosa come: “lo amo”, “a volte mi porta dei fiori a sorpresa”, “a volte è dolcissimo, anche se cambia subito umore”. Mi fermai nuovamente: no, quel Pro era diventato un Contro e allora cancellai l’ultima parte. Infine, rilessi quei punti che avevo stilato fino a quel momento, e oltre a notare il grande dislivello che c’era con i Contro, pensai: “E io che cercavo la Giulietta che era nascosta in me: mi basta rileggere cosa ho scritto nei Pro, per notare che una parte di me non ha mai smesso di avere quindici anni”.
Con la lista in mano, cominciai a prendere finalmente consapevolezza di cosa avessi davanti, e la domanda che ne nacque fu: “Ne valeva ancora la pena?”.
Più confusa che persuasa, dunque, decisi di nascondere la lista in un posto sicuro e me ne ritornai a letto. “Hai finito di scrivere?”, mi chiese Nor, rigirandosi su un fianco, mentre io mi infilavo sotto le coperte:”Sì”, risposi io, seppur con scarsa convinzione.

*Atto secondo*

L’indomani mi svegliai stranamente euforica. Feci colazione, accesi la radio e me la portai addirittura in bagno. In casa non c’era nessuno; le brave formichine erano andate tutte a lavorare di buonora.
Mi vestii, mi truccai, presi la giacca, gli occhiali, la borsa e corsi in teatro.
Trovai Steve lì fuori che si stava fumando una sigaretta. Quando mi vide, buttò la cicca a terra e la spense con la scarpa. Poi mi venne incontro con un sorriso aperto quanto le sue braccia.
Appoggiata al suo petto, respirai a fondo come se stessi facendo scorta di tutto l’ossigeno che sentivo mi fosse mancato. Mi baciò e io non opposi resistenza; e con quello stesso sorriso, entrammo in teatro, seppur separati: dopotutto noi eravamo Romeo e Giulietta, i due protagonisti di un unico segreto.
Quelle prove furono le più belle. Il mio personaggio andava prendendo forma e anche la mia recitazione era più credibile: finalmente Giulietta era una fanciulla in balia del suo primo amore, euforica e innamorata.
Dal canto mio, riuscivo a riassumere bene tutti questi concetti: i gesti, i toni, gli sguardi, perfino i pensieri, ognuno di questi elementi non era più di Miranda, non c’era più tragicità in essi. Ormai ero Giulietta, al felice inizio della sua tragedia.
Quella non fu l’unica prova degna di nota: ne seguirono altre e quasi non credetti alle mie orecchie quando anche il maestro, mi fece i complimenti: “Brava Giulietta! Sì, finalmente riesco a vederti!”.
Sorridevo con occhi lucidi e intanto, dopo aver ringraziato quelle mani che batterono dopo la prova di una scena particolarmente difficile, infine il mio sguardo ricadeva sempre su di lui: Romeo.

Quel pomeriggio volli festeggiare: proposi al cast di tornare nel pub di quella famosa notte, proprio per brindare dei progressi dell’intera compagnia e tutti accettarono di buon grado. Alla fine di quello che fu un semplice aperitivo, ognuno si diresse a casa propria, tranne Steve che decise di seguirmi nella mia.
“E se c’è il tuo fiancé?”, mi chiese. “Non c’è. Ma se ci tieni a trovarlo, allora devi recarti all’università e vai a colpo sicuro. Mentre, nel caso raro in cui ci fosse, che problemi ti fai? Siamo solo amici io e te, Steve.”, gli rivolsi uno sguardo furbo. al quale lui rispose con tono sarcastico: “Ah sì?”, allora mi baciò e dopo aggiunse: “Se lo dici tu…”.
Non vi nego che anche io non ero contenta del mio comportamento; sì, so perfettamente a cosa state pensando: stavo tradendo il mio ragazzo. Ed era vero.
Entrai in casa, e qualche minuto dopo Steve era già in cucina a cercare il cavatappi per aprire il vino che si era portato dietro. E tra l’alcool e la profondità dei nostri discorsi, era chiaro che finimmo diretti in camera da letto. Una volta dentro, per sicurezza, ricordai di chiudere la porta della stanza a chiave, perché nella vita, non si sapeva mai.
Un’ora passò rapida come se si fosse trattato soltanto di una manciata di minuti. Steve era accanto a me che mi leggeva ad alta voce il libro di Goethe che avevo sul comodino “Affinità Elettive“. Io lo ascoltavo mezza assopita, mentre intanto si fecero le nove di sera. Conoscendo Norbert, sapevo che non sarebbe rientrato prima di un’altra ora, quindi, ringraziando per una volta la sua routine, decisi di godermi quel tempo, come la coccola che forse mi meritavo.

Soltanto che, ad un tratto, sentii la porta d’ingresso aprirsi e in quell’attimo a me e a Steve prese un colpo. Ci alzammo di corsa, e mentre lui cercava di rivestirsi, la mia testa navigava così velocemente che io stessa capii di essere entrata in panico.
Finché ci fermammo di botto: e nel mentre che puntavamo l’orecchio a ogni possibile rumore, cercammo di divenire silenzio. E mentre un calpestio di passi prese ad avanzare verso la stanza in cui pretendevamo di non esistere, subito dopo percepimmo che qualcosa stava agguantando la maniglia: la mano di Norbert stava evidentemente provando ad abbassarla per aprire la porta. Eppure, il gesto non fu marcato, tanto che presto la maniglia tornò impercettibilmente nella sua posizione originaria e avemmo la sensazione che la stessa mano si fosse subito ritratta, mollando delicatamente la presa. Con il cuore in gola, sentimmo i suoi passi indietreggiare, la scena sembrava svolgersi a rallentatore. Nuovamente, la porta di ingresso si riaprì e quel visitatore se ne andò, proprio da dove era venuto. Infine, quegli stessi passi si distinsero chiaramente, mentre scendevano le scale.
La via era libera, la mia anima un po’ meno.
Steve colse quel momento per uscire dalla stanza: io mi sporsi leggermente dalla finestra per vedere se Norbert si fosse appostato nelle scale esterne del palazzo, ma lui non c’era. Alla fine, vidi la sua macchina passare nella via e fermarsi davanti al garage: “che sia salito per prendere il telecomando della saracinesca?”, pensai.
Il mio amante -perché non c’era altra definizione ormai- andò via, lasciando in me una tempesta di sentimenti contrastanti e senza ordine: ci avrà scoperti? Era davvero venuto a casa per prendere il telecomando? Che cosa ho fatto? C’era motivo che mi comportassi come una ragazzina totalmente egoista?.
I sensi di colpa mi divorano, eppure decisi di mantenere in viso un’espressione neutra: se non aveva capito niente di quello che era successo, non sarei stata di certo io a farlo insospettire di qualcosa.

Dopo una ventina di minuti, ancora affacciata alla finestra, vidi Norbert che fuoriusciva dal garage e finalmente si dirigeva verso la porta d’ingresso.
Dentro di me, come vi dissi all’inizio di questa storia, sapevo che lui ci aveva scoperti; ero da sempre consapevole che non avrei mai potuto avere segreti per lui e che un intelletto come il suo, non poteva non aver unito tutti i puntini che, come briciole di pane, avevo seminato così poco diligentemente in tutto quel tempo.
Ad ogni modo, mi dissi che dovevo essere pronta ad affrontarlo: appena avrebbe aperto la porta di casa, io sarei stata capace di dire tutta la verità e fare ammenda dei miei peccati. Dunque, mi sedetti sulla poltrona ad aspettarlo. Il cuore continuava a battere forte e avevo la bocca asciutta, per cui mi alzai un attimo per prendere un bicchiere d’acqua e levare i bicchieri del vino che mi avevano fatto abbassare fin troppo la guardia, in compagnia di Steve.
Appena il mio compagno mise piede dentro casa, io mi stavo dirigendo verso la poltrona e con nonchalance mi sedetti. :”Ciao Nor”. Sentendo la mia voce, lui alzò lo sguardo, come se solo in quel momento si fosse accorto della mia presenza. Teneva in mano le bollette e con fare distratto, mi disse: “Tutto bene alle prove, oggi?”. Una domanda fin troppo normale, non potevo negare che ero confusa: “Sì, tutto bene… Ma senti, sei entrato tu poco fa? Ero in camera da letto che mi cambiavo e ho sentito dei rumori in casa.”, decisi di rompere il ghiaccio in quel modo.
Norbert, continuando a leggere la bolletta del gas, mi rispose con un distratto: “Come?”. Alzò nuovamente lo sguardo per mettermi a fuoco: “Ah, sì, sì, ero io che mi ero dimenticato di prendere il telecomando del garage per posteggiare la macchina”.
Non vi nego, che quella conversazione era riuscita a peggiorare la situazione. Mi alzai dalla poltrona realmente agitata e andai in cucina per tentare quantomeno di pensare a cosa avrei potuto cucinare, sebbene avessi lo stomaco chiuso.
Aprii il cassetto delle padelle e lo fissai a lungo. Poi lo richiusi. Dunque mi spostai dal lato del lavandino, aprii lo sportello dei piatti messi ad asciugare e fissai anche quello: com’era possibile che non ci avesse scoperti?
“Che si mangia stasera?”, la sua voce proveniva dallo studio. Cercai il primo oggetto commestibile all’interno di quella cucina e i miei occhi caddero sulla scatoletta di tonno davanti a me: “Eh, tonno”, dissi cercando di darmi un tono e, non convinta di esserci riuscita, ripetei in modo più deciso: “Tonno all’insalata, va bene?”. “Okay.”.
Presi il tonno e nella foga di aprirlo, ruppi la linguetta. Allora presi un coltello, stavo combinando un macello con la mia vita.
Lui aveva abbassato la maniglia, lo ricordavo perfettamente. Ma la aveva abbassata talmente tanto da capire che la camera era chiusa a chiave? Insomma, non serve molto per capirlo. E comunque, ho detto che mi stavo cambiando; è raro che io mi cambi con la porta chiusa a chiave, ma a mia discolpa posso dire che mi sento più sicura a cambiarmi con una mandata, quando sono sola in casa. Dopotutto, quella non è nemmeno la mia città.
Ad ogni modo, dovevo trovare una soluzione dentro me stessa: o andavo nello studio e gli spiattellavo tutto, oppure facevo gli straordinari e continuavo a esercitare il mio mestiere di attrice anche da casa.
Optai per la seconda: condii l’insalata con tutto il contenuto del mio frigo -reparto insalata- e qualche spezia. “Agire come se niente fosse”, mi ripetei più volte a mo’ di mantra e aggiunsi qualche noce perché, vista la mia stupidità degli ultimi tempi, avevo bisogno di un poco di Omega 3 per il mio cervello regredito fin troppo bene all’età del personaggio che stavo interpretando.

Mi sentivo come al secondo atto di una storia in cui mai avrei pensato di finire coinvolta. Quella notte presi una decisione: l’indomani avrei detto a Steve di chiuderla lì; almeno non fino a che non avrei rasserenato quella tempesta che mi portavo dentro e capito il ruolo di Norbert nella mia vita. Intanto, sperai soltanto che il mio fidanzato, per una volta, non avesse davvero capito niente. Dopotutto, il lavoro lo distraeva.

*Le prove generali*

Passarono due mesi da quella sera e in quel tempo io cercai di non cadere tra le braccia di Steve, sebbene lo volessi maledettamente. Voi mi chiederete, perché frenarmi con Steve? Perché non chiudere definitamente con Norbert? E la mia risposta é: volevo delle certezze.
Le cercavo come un’investigatrice: studiai ogni momento speso con il mio fidanzato e ogni attimo passato in compagnia del mio Romeo. E se il primo non riusciva più a trasmettermi gioia di vivere, il secondo me ne trasmetteva fin troppa, tanto che una volta a casa, dovevo forzarmi a tornare ai livelli della Miranda di sempre. Quel sorriso che ogni tanto mi si stampava in viso era peggio di un profumo, un indice di un tradimento avvenuto una sola volta, ma capace di farmi sentire sporca per un tempo indefinito. Eppure, c’era anche poco da fare: io, con Norbert, non sorridevo più così.
Tuttavia, nemmeno con Steve potevo essere me stessa fino in fondo: un pomeriggio affrontammo l’argomento, e dissi che, nonostante quell’unica volta insieme e i nostri continui avvicinamenti in cui la sola regola rimaneva: “guardare e non toccare”, io ancora appartenevo a Norbert e, fintantoché non avrei capito che strada intraprendere, non mi sarei potuta sbilanciare.
Qualche tempo dopo, Steve tentò di replicare, dicendo che non potevo guardare anche il mio ragazzo allo stesso modo in cui guardavo lui; che due occhi che brillano in questa maniera, non possono brillare con la stessa luce per due persone contemporaneamente; che io ero già sua, senza però volerlo ammettere. Diceva anche che la storia con Norbert apparteneva al passato e che io ero troppo legata all’abitudine, per potere sciogliere il nodo. E mentre, nel prestare la mia attenzione a ogni sua parola detta, il mio primo gelato dell’anno si andava sciogliendo in quella stranamente calda giornata di fine aprile, noi così vicini, dovevamo comunque rimanere lontani. E questo, vi assicuro, che non diminuiva il desiderio, il quale adesso cominciava a impossessarsi della mia testa, come mai prima di allora. Ad ogni modo, gli diedi una data di scadenza per la fine dei suoi e dei miei tormenti: dopo la prima dello spettacolo, mi imposi, che avrei preso una decisione.

Eppure, il buono di tutta questa situazione c’era: e cioè che la mia performance in quanto Giulietta andava migliorando a dismisura; non solo ero credibile come amante, ma anche come giovane spensierata. Assurdo, non è vero? E sebbene mi trovassi tanto a mio agio alla presenza di questa persona che la vita mi mise accanto in una città nuova e in cui mi sentivo un’outsider ancora dopo un anno, mancava un qualcosa, un “non-so-che” che potesse darmi la certezza che davvero Steve, potesse essere il mio Romeo.
E così i giorni passavano e man mano ci andavamo avvicinando alla prova generale che sarebbe stata il 15 di maggio. Intanto, l’atmosfera si andava facendo sempre più elettrica in teatro; io stessa prestai meno attenzione ai fatti del cuore, specialmente una settimana prima del grande evento.
Il giorno della prova generale, dissi a Norbert che sarei stata via fino a tardi quella notte. Lui non protestò; perché avrebbe dovuto, dopotutto? In compagnia dei suoi libri, non avrebbe nemmeno notato la mia assenza. E dopo uno sterile in bocca al lupo, io richiusi alle mie spalle la porta di quella che era sempre casa nostra.
Entrata in teatro, non vidi Steve venirmi incontro come ogni volta. A quanto pare, era nel suo camerino a rivedere dei dettagli insieme all’assistente alla regia. Allora, io andai dritta dal regista, che finalmente riprese a salutarmi con dei grandi sorrisoni. “Miranda, sei un fiore questa mattina!” -Sí, certo, come no, pensai. Il maestro continuò: “Allora, oggi riproveremo tante volte la scena della morte apparente del quarto atto. Ti voglio un angelo dormiente; voglio che rimani soave per tutto il tempo della scena e che mi mantieni quella leggerezza del tuo animo candido, anche al momento della tua morte reale. Tutto chiaro?”. “Sí, maestro. Sono pronta.”.
“Non ho dubbi”, disse il regista sorridendo, fiducioso. Chissà, magari anche lui stava recitando la parte del capitano sicuro di sé, mentre la nave era in balia delle onde. “Allora, Giulietta, bevi l’intruglio e muorimi soavemente. Quando vuoi.”.
Avevo una fialetta vuota in mano, e sebbene la trasparenza non mi lasciasse dubbio sul fatto che non ci fosse nessun contenuto all’interno, quel potente sonnifero lo potevo vedere e odorare a pieni polmoni: era l’odore di Norbert.
Dormire, ah quanto sarebbe stato bello dormire. Eppure, non avevo forse dormito per tutto quel tempo? Quel senso di morte che sentii in quei giorni di un febbraio glaciale e turbolento, quando tutto cominciò a smuoversi fuori e dentro di me, tornò a farsi sentire nel pieno della sua tragicità. Tuttavia, era proprio il senso tragico a rendermi fin troppo pesante, come masso che cade da un’altezza infinita; questo, unito a quella stanchezza accumulata dopo ormai tanti mesi senza amore, mi fecero ricadere a peso morto, sulle travi di legno del palcoscenico.
“Ferma, Miranda! Tesoro, che fai? Abbiamo detto con leggerezza! Tu mi sei caduta come un cervo ferito!”. Tutti risero all’ennesima metafora stramba del regista. “Sí, maestro, mi scusi. La rifaccio”. Per altri tre tentativi, non riuscii a essere la ragazza-angelo che mi veniva chiesto. Pertanto, mentalmente sfinita, chiesi di fare una pausa: avevo bisogno di camminare per ritrovare la concentrazione e rientrare nel personaggio. E, cosa più importante di tutte, avevo ancora bisogno di vedere Romeo per poter tornare ad essere Giulietta.
In quel momento, venne fuori Steve dal backstage: era piuttosto serio, ma non mi risparmiò il suo solito sorriso, sebbene questa volta un po’ forzato, donatomi ugualmente alla pari di un fiore. Con una scusa, lo chiamai in disparte e così uscimmo insieme nell’atrio per prenderci una boccata d’aria. Questa volta fui io che mi avvicinai: avevo bisogno della sua leggerezza come stratagemma alla pari del sonnifero per Giulietta, e decisi di cercarla apertamente tra le sue braccia. Steve mi accettò dopo tanto tempo nel suo petto, e seppur senza parlare, l’affinità che ci legava mi faceva percepire che qualcosa non andava. “Tutto ok?” gli chiesi. “Certo Juliet”, così aveva preso a chiamarmi: “Tu, piuttosto, mi vuoi dire cosa ti tormenta questa mattina? Ho sentito da dietro le quinte che hai dovuto ripetere più volte la tua parte, che è successo?”. Non era successo davvero niente, forse soltanto il mio inconscio che cominciava a ribollire, ormai in preda a una sua rivoluzione irrazionale e ancora sconosciuta alla mia razionalità.
“Niente, Steve. Forse non ho dormito bene, ecco perché mi sento più stanca e pesante.”. “Dillo che è tutta una scusa per farti abbracciare!”. “Ammetto che avevo bisogno di vederti per risvegliare la Juliet che è in me.”. Poi ci riflettei un attimo: era davvero così? “E si è risvegliata?”, continuò lui, dandomi un bacio in fronte. A quella domanda, tornai alla realtà e mi scrollai di dosso quei pensieri: “Adesso, sì”, risposi. E, con questa carica, tornai a recitare, cerando di zittire la voce di quell’angelo sempre dentro di me che continuava ad ammonirmi di smetterla all’istante.
Quelle prove, nonostante l’impiccio iniziale, andarono molto bene. Noi due eravamo talmente affiatati, che anche gli altri attori ci fecero i complimenti. Un amico del regista, un giornalista, chiese di intervistarci per un articolo dedicato alle giovani promesse, e tra le tante domande, ci fu anche la seguente: “Data la vostra affinità sul palco, ci chiedevamo se ci fosse anche spazio nella vostra vita privata per un rapporto di questo tipo”. Per primo, fu Steve a rispondere: “Beh, se ci fosse, almeno ci augureremmo che non finisse nello stesso modo dei due amanti shakespeariani”. L’intervistatore rise, ciononostante, io presi subito la parola per chiudere definitivamente quel discorso: “Di certo, si è creata una bella simpatia tra di noi, ma no, nella vita reale siamo soltanto due colleghi e amici sicuramente molto affiatati”. E lo guardai sorridente; lui mi ricambiò quello sguardo, tuttavia rimase serissimo.

*L’altalena blu*

Giustamente, vorrete sapere come si è comportato Norbert con me, in tutto questo tempo.
Lui ha percepito che io mi fossi allontanata, che avessi cominciato a riprendermi i miei spazi. Vero, come già vi ho detto, ho cercato a lungo di continuare a mostrarmi amorevole e di tentare ancora di mantenere un certo dialogo tra di noi. Eppure è impossibile negare che con il passare dei mesi, anche io stavo realmente cambiando. E sebbene, ogni tanto, anche lui provava a colmare quel distacco con una parola gentile e forzata -aggiungerei io-, il resto delle giornate in cui eravamo riuniti, a dividerci c’era sempre la porta -spesso chiusa- del suo studio.
Niente. Non era cambiato niente; dalle mie parole, da quei monologhi ormai lontani, nulla aveva generato un miglioramento. Semmai, più le settimane e i mesi passavano e più mi rendevo conto che il suo lavoro divenne il suo unico amore. Lui ormai era un trentenne barbuto e taciturno, che ogni tanto si alzava per rispondere a qualche chiamata e che si muoveva solo per aprire la porta di casa e andare all’università. Sembrava invecchiato di anni in pochi mesi, quasi che cominciai a chiedermi se quel lavoro, manna dal cielo dal punto di vista professionale, non fosse sbagliato dal punto di vista personale. Ogni tanto, a cena, sebbene non avesse il libro davanti per leggere -dato che gli avevo chiesto la cortesia di non studiare almeno mentre mangiavamo-, trovava ogni volta una nuova scusa pur di non aprire una conversazione con me: ormai soltanto il silenzio avvolgeva la nostra tavola, finché lui, una volta finito, tornava a nascondersi da me, blindadosi con i suoi tomi, da dietro la sua scrivania.
Più che il mio Nor, andava somigliando sempre più a suo padre: tutto quello che aveva odiato di lui e da cui era scappato, come ad esempio la sua anaffettività e il suo carattere silenzioso, ecco che, nonostante la distanza, lo stava comunque raggiungendo, come un triste “dono” a cui il mio vecchio compagno non poteva sottrarsi, perché questo era il volere della sua natura.
Tutti quei ricordi di quattro anni di vita insieme, passati nella mia città del sud Italia e dove lui si trasferì per studio, erano così lontani, che quasi quei due giovani abbracciati in quell’altalena blu ai confini del mare, nella foto in salotto, non ci rispecchiava più.
Era inutile fingere ancora che la nostra storia fosse sempre lo stesso baluardo alzato, visibile da lontano e resistente alle intemperie. Ci aveva travolti un uragano silenzioso, e noi, da bravi affezionati, continuavamo a pretendere che non fosse così. Lui stesso era stanco, lo capivo da tutti i suoi comportamenti. Eppure, per quanto io avessi fatto un grande sforzo per trasferirmi con lui, forse quella convivenza è stata più una benedizione che un danno: abbiamo capito che, crescendo, i nostri pezzi avevano smesso di incastrarsi.
Dunque, il dramma era che né lui sapeva come dirmelo e né io riuscivo a trovare motivi validi per dire a me stessa: “Guarda, cieca che non sei altro! È finita!”.

Non nego che ci furono dei momenti in cui avrei dato oro purché la situazione avesse potuto ritornare quella di un tempo: ogni tanto passavo dal suo studio rischiarato dalla luce della lampada sulla scrivania, e quando la porta era aperta, mi sorprendevo a fissarlo, appoggiata alla parete; in cuor mio, una parte di me era davvero fiera di lui e del suo impegno. La sua persona bastava a ricordarmi che nella vita bisogna sempre lottare per raggiungere i propri sogni, e lui lo stava facendo con le unghia e con i denti, anche col rischio di perdere molto altro. Quelle volte, dimenticavo di avercela in fondo con lui, per come mi aveva messa da parte: a dire il vero, avrei tanto voluto abbracciarlo. Ma anche gli abbracci erano diventati, di punto e in bianco, elementi ridondanti e fuori luogo in quella storia. Allora, lui che leggeva il mio sguardo, sapeva bene che il semplice alzarsi, venirmi incontro e stringermi di nuovo forte, sarebbero stati i primi e timidi passi per ricominciare a sistemare l’impossibile. Eppure rimaneva lì, chiuso in se stesso e nel suo silenzio, che poi divenne anche il mio. Mi guardava e riabbassava lo sguardo, tornando ai suoi libri, mentre io, tornavo nella solita camera da letto, accompagnata dalla mia infelicità.
Ciononostante, quello che non potevo sapere con razionalità, ma di cui avevo sempre dei vaghi e incerti ricordi, era che Norbert mi rimboccava le coperte durante la notte, oppure mi tranquillizzava, quando ero in preda a qualche incubo; uno dei tanti in cui evidentemente il diavolo ero sempre e solo io. L’indomani mattina mi svegliavo ogni volta, come se, di notte, un angelo avesse gettato dell’acqua nel fuoco sulle mie paure. Ma in fin dei conti, sapevo -o meglio- sentivo che lui continuava a vegliare sui miei sogni, seppure fosse così distante nella vita reale.

La sua vita reale: se solo avessi potuto viverla attraverso i suoi occhi, avrei potuto capire molto di più, invece di limitarmi a giudicarla monotona in base a ciò che potevo vedere io.
Ogni tanto, durante quelle chiamate che lo intrattenevano a camminare avanti e indietro nel balcone, mi sono pure chiesta se magari avesse conosciuto un’altra. Tuttavia, ogni volta mettevo da parte quel pensiero, ritenendo che lui non fosse il tipo e che il suo interesse era puramente rivolto al lavoro. A tal proposito, mi ricordava tanto proprio quell’omonimo personaggio della Gradiva di Jensen, il quale sublimò il suo amore, nascondendolo dietro l’esasperata passione per l’archeologia.
Inutile, comunque, dirvi che mi ritrovavo a ridere da sola in modo sarcastico: ero tanto sicura che non fosse il tipo da avere un’altra donna, ma “da che pulpito!”, mi dicevo. A pensarci bene, come lui non era il tipo che tradiva la propria compagna, a regola, nemmeno io avrei dovuto esserlo: e guarda che è successo. Invece, per quanto riguarda il lavoro, lui ha sempre avuto in se’ quella scintilla da primo della classe, stacanovista nel senso buono, che lo facesse arrivare in alto in ogni cosa che intraprendeva, spinto dall’obiettivo di andare via dalla casa dei suoi per crearsi una vita tutta sua. Soltanto che, da una moderata dose di risolutezza, ecco che la sua sete di sapere e di successo professionale, si trasformò in una brama che lo rese un uomo capace di mettere da parte i sentimenti, a riprova che in quella vita che si stava finalmente costruendo, io praticamente non esistevo.
Nonostante tutti questi ragionamenti, era come se la mia mente avesse rimosso il fatto del tradimento. Dentro di me, era come se tutto fosse accaduto attraverso dei banali flirt, con parole sussurrate e sguardi scambiati in segreto, sopratutto a lui. Norbert mi aveva fatto capire talmente bene di non averci scoperto, che il mio cervello aveva voluto prendere quella come unica verità: così, niente era successo in realtà e lui non aveva mai abbassato la maniglia della porta che teneva nascosti me e Steve, ancora su quel letto.

Alla fine di tutte quelle riflessioni che consumavano sistematicamente le mie energie alla pari di un’estenuante scalata sotto al sole di Agosto, mi ritrovavo sempre a dover rimuovere un peso dalla bilancia. Che sia stato Steve o Norbert, oppure che si sia trattato di me stessa a dove lasciare quell’equazione, non aveva importanza: quello che mi premeva in quel momento era di riappropriarmi di una vita felice e coerente con i miei desideri.
Dunque, molte volte tentai di affrontare con me stessa il tema del “lasciare”: lasciare andare le cose, seguendo il loro flusso. Lasciare andare lui e con lui, tutto ciò che era rimasto della vecchia me. E infine, lasciarmi andare a mia volta, aprirmi a ciò che la vita stava decidendo di mettermi davanti. E non posso negare che quando mi soffermavo a fare questo tipo di ragionamenti, l’ansia veniva placata soltanto dal sorgere del volto di Steve nella mia mente.
Con tutto ciò, non avevo intenzione di chiudere la relazione con Norbert, solo per Steve. La decisione doveva provenire da me, dal profondo della mia anima e per delle motivazioni più valide del semplice “chiodo schiaccia chiodo”. Tutte basi che io avevo già bellamente individuato, ma che preferivo ancora tenere lì, in un angolo della stanza come pacchi da riempire, continuando a fingere che quell’ennesimo trasloco -questa volta in solitaria- non stesse arrivando come un presagio dolceamaro.
“Dopo la prima dello spettacolo. Soltanto allora risolverò tutto”, mi ripetei ad alta voce. E così, dopo un caffè corretto con quella miscela di pensieri, mi diressi in teatro ancora un’altra volta.

*In scena*

Il cuore batteva all’impazzata e lo stomaco era in subbuglio. Quell’attimo prima dell’apertura del sipario, un momento in cui il tempo si cristallizza e in cui spesso si odia, si odia profondamente quello che si sta andando a fare, era anche il più magico. Ciononostante, piuttosto che entrare sul palco, marionetta di mille sguardi, avrei preferito scappare altrove, togliermi quegli abiti e ritornare me stessa. Ma io ero Giulietta Capuleti, la protagonista di una tragedia personale che adesso andavo a mostrare agli occhi di tutti.
Accanto avevo Steve, vestito con i costumi di scena e nervoso tanto quanto me. Mi strinse la mano e, nella confusione generale, mi diede finalmente un bacio. Non opposi resistenza: ne avevo bisogno come ossigeno. Appena si staccò dalla presa, entrò in scena.
Dopo un poco, toccò a me. Vi confido che, una volta mosso il primo passo sul palco, tutte quelle ansie e le paure erano come sparite, assopite dallo scricchiolio delle travi di legno sotto i miei piedi. Ero la creatura di Shakespeare e così, avanzai sicura di me sul palcoscenico. Si alzò lentamente il sipario e si diede inizio alla festa. Ricordo che ero talmente entrata nella parte che, in quel momento, la grigia Manchester aveva lasciato il posto a una Verona variopinta alla fine del 1500. In quello scenario con cui cominciai a prendere sempre più confidenza, ecco che rivivevo le relazioni con i miei genitori e gli altri nobili, immersa da colori, canti e balli dai ritmi lontani.
Finché, sappiamo bene cosa successe: io e Romeo ci guardammo. I nostri occhi si incrociarono e si catturarono con un’affinità che non poteva fingere nemmeno il miglior attore.
Alla scena del balcone, non sapevo più se lui stesse recitando o se le sue frasi dette con tanto ardore, fossero realmente sentite. Io stessa non facevo il minimo sforzo nel fingere di essere in preda a un amore puro: “O Romeo, Romeo, perché sei tu Romeo?”. Promettimi di sposarmi dissi nel mio cuore, mentre recitavo quelle parole. In quel momento, tutto mi portava a credere che nel mio futuro, ci fosse stato posto solo per il suo nome e il suo volto: Steve.
E mentre il tempo cavalcava veloce, la tragedia si avviava inesorabile al suo culmine. Io -Giulietta- finsi di accettare le nozze con Paride, ma tenni stretta in mano la preziosa boccetta di sonnifero. Dunque, nel silenzio del mio segreto, la bevvi lontana da tutti e caddi finalmente assopita e leggiadra nel mio finto letto di morte. Tutti seppero della perdita della giovane Capuleti, perfino il povero Romeo al quale non fu recapitata la missiva con le istruzioni per la fuga, a causa della quarantena dovuta alla peste. Ma il nostro innamorato, guidato dalla passione, volle congedarsi ugualmente dalla sua amata Juliet; nella mano il veleno, venne accompagnato da codeste parole:: “E così, con un bacio, io muoio”.
Per farvi rivivere quel momento come se voi stessi foste stati spettatori, il resto ve lo racconterò cosi. La nostra fanciulla si svegliò troppo tardi, e mai si sarebbe aspettata di vedere il proprio amore giacere senza vita accanto a lei. Non fu una decisione a lungo ponderata, fu il suo animo a guidarla in quel gesto repentino e assoluto: per cui, dalla morte apparente in funzione di una vita felice, la visione della realtà la spinse di colpo a una morte reale, cruda e dura, purché la consegnasse per l’eternità tra le braccia del suo Romeo.
Così i Montecchi e i Capuleti accorsi alla tomba dei due giovani amanti, infine si riconciliarono attraverso il sangue del loro sangue. E con un battito di mani reiterato a lungo, il sipario, finalmente, calò su di noi.

Alla sua riapertura ci inchinammo più e più volte. Tutti, a uno a uno, facemmo un passo avanti e quando toccò a Romeo e infine a me, un boato si levò da tutta la sala.
Soltanto per un attimo guardai la platea, cercando Norbert con lo sguardo, spinta da un’irrazionale speranza che fosse lì a sostenermi ancora con un sorriso. Ma non vidi nessuno che gli somigliava e per un attimo, mi eclissai dalla realtà di quel bellissimo momento e mi rabbuiai, nell’oscurità di quella che era davvero la mia vita.
Una volta dietro le quinte, data l’atmosfera di gioia, tentai di scrollarmi di dosso il peso di quei mesi che adesso mi assalivano con ferocia. Ci eravamo tolti un enorme masso che era costato dello Xanax un poco a tutti, tra cui al regista che adesso mi abbracciava con fare soddisfatto. “Hai visto che ci avevo visto bene, Giulietta?”. Lui era l’unico italiano della combriccola, veniva da Roma, e questo, oltre alla sua bravura, lo distingueva maggiormente dal resto.
Tuttavia, più volte girai nel backstage per cercare Steve. Volevo corrergli incontro, abbracciarlo, baciarlo e ringraziarlo di tutto, oltre a complimentarmi con lui.
Eppure, senza che me lo aspettassi, venni interrotta da un enorme mazzo di fiori che mi fu messo davanti al viso: era Norbert.
Ci misi giusto un attimo per realizzare che era veramente lui e che era lì. Non potei camuffare la sorpresa: “Non posso crederci, sei venuto?”. “Certo che sono venuto; sei stata brava Giulietta.” e così dicendo, mi venne vicino e mi strinse forte. Reputo ad oggi che fosse genuinamente contento di vedere come la mia passione avesse continuato a spingermi sempre più in alto, nel mio mestiere. “Ad ogni modo” continuò, staccandosi da me: “ti aspetto fuori, torniamo insieme a casa stasera, se ti va.”. Quella sola scena era stata di gran lunga più surreale rispetto a tutto ciò che era successo prima. Non è da tutti i giorni venire catapultati a fine ‘500, e contemporaneamente, vedere l’uomo che ti ha ignorata per mesi, tornare a notarti di nuovo. Io accettai, realmente contenta di quella sua proposta, ma lo dovetti momentaneamente salutare, dovevo ancora svestire i panni di Giulietta per tornare Miranda.

Ma prima di farlo, però, volevo davvero salutare Steve, quindi decisi di chiedere di lui. Ognuno mi diceva cose diverse: “sta rispondendo a un’intervista”, “sta facendo delle foto”, “si sta cambiando”. Era come se Romeo fosse sparito fisicamente da quel luogo: era ovunque e da nessuna parte, in una volta. Così, decisi di andare a cambiarmi, ma mentre mi avvicinavo al camerino, da un angolo sentii il seguente scambio di frasi:
“Hai fatto un ottimo lavoro con lei. Quell’amore, Romeo, era quello che ci serviva per farla sbloccare e far fuoriuscire la Giulietta di cui avevamo bisogno.”, era la voce dell’assistente alla regia. “Susan, lei ha fatto tutto da sola. Io non c’entro niente”. ” Dai, Steve, non mi dire che ti sei affezionato alla ragazza… Guarda che ci rimango male.”. A quelle parole mi affacciai silenziosamente nella stanza da cui proveniva quella paradossale conversazione, e li beccai giusto nel momento in cui Susan, la famosa aiutante, gli stampò un bacio appassionato sulle labbra.
Mi mancò l’aria, tanto che i due mi sentirono, poiché, nell’indietreggiare, andai a sbattere sull’attore che aveva interpretato Tebaldo. Steve si staccò subito da lei e mi corse dietro, quando intanto io correvo verso il mio camerino, cercando di slacciarmi il corsetto del vestito. Arrivata lì davanti, entrai come un lampo e mi chiusi dentro a chiave , ancora con quel falso Romeo che dava pugni alla porta perché lo facessi entrare. Non dissi niente per tutto il tempo del suo monologo: “Non è come pensi, Miranda! O meglio, forse all’inizio è andata così, è vero, volevamo fare uscire il meglio di te. Ma questo solo perché credevamo nelle tue potenzialità”. E nel mentre io pensavo a quanto fossero stronzi coloro che in un mondo completamente disumano avessero potuto inventare quel nuovo tipo di metodo Stanivslaskij.
“Il punto è che noi, noi attori soltanto -e non il regista- pensavamo di poter risaltare di più se lo avessi fatto anche tu che eri Giulietta. E lo vedevamo come soffrivi all’inizio, per il trasferimento e tutto, quindi è stato spontaneo per me, starti così vicino.”.
Che bugiardo patentato, ha dovuto fare una scuola di recitazione nella migliore accademia di Londra per esserlo. Ecco, un altro uomo che rigira la realtà per farmi vedere le cose con i suoi occhi, per come conviene a lui e non chiaramente a me. Ecco, inoltre, un altro esempio di uomo che mette da parte i sentimenti altrui, per andare avanti con la sua carriera, per risultare migliore. Che amarezza.
“Miranda, ho sbagliato. Ma mi sono affezionato davvero a te, in questo periodo. E con Susan, con Susan è una storia vecchia. Di recente, dato che tra noi non c’è stato più niente, si è riavvicinata. Ma devi credermi, non conta niente! Apri questa porta e ne parliamo, dai.”.
Dopo qualche minuto di orologio, una volta riappropriatami della mia identità, decisi di farmi forza e uscire di lì. Nel frattempo Steve si era calmato; tuttavia, sapevo che era seduto, con la schiena appoggiata al muro, alla sinistra dell’uscio, in attesa che mi facessi viva.
Nel momento in cui girai la maniglia, appena mi vide, si apprestò a parlarmi; eppure bastò un attimo per ammutolirlo con un gesto della mano. Con tono serio e lo sguardo pungente mi congedai con una sola frase, tagliente come mille coltelli: “Oh Romeo, meno male che non sei tu, Romeo.”
Non osò seguirmi.
Io uscii dal teatro e, una volta in strada, cercai in doppia fila la macchina di Norbert che era rimasto lì ad aspettarmi. Allora entrai e partimmo.

*Sipario*

“Mi hai colpita stasera, Miranda. Ho rivisto in te quella che eri un tempo”, fu questo il commento che spezzò il silenzio tra me e lui, mentre superavamo in velocità le strade del centro di Manchester. “In che senso Nor? Io sono sempre stata io.”.
Lui ignorò la mia domanda e proseguì con un tono calmo e pausato: “Sei stata una Giulietta molto convincente. Per non parlare di quel bacio con Romeo; sembrava quasi che vi amaste per davvero.”. In quel momento il sangue mi andò alla testa: “Ti ringrazio”, dissi guardandomi le gambe, mentre in tono sommesso aggiunsi: “ho fatto solo il mio mestiere”. Fu in quel momento che tornai a sentirmi totalmente in balia dei sensi di colpa che riemersero a galla come spinti da un salvagente. Allora capii che loro non erano mai andati via .
Dopo un silenzio durato un’eternità, tanto per rompere quell’atmosfera così glaciale, ormai consapevole che lui avesse sempre saputo tutto, tornai a rifargli la domanda di prima: “Cosa intendevi poco fa, con il fatto che hai rivisto quella che ero una volta?” Ripeto che nulla è mai cambiato, in me.” Mentivo.
“No, Miranda”, disse Norbert in tono secco. Io stavo per rispondere e chiedere spiegazioni, ma fu lui, questa volta, a continuare: “…e questa è stata, in parte, anche colpa mia.” Ero rimasta senza parole, un’ammissione del genere non me la sarei mai aspettata in quella situazione, specie da parte sua: “Io non sono stato io e, di conseguenza, anche tu sei dovuta cambiare per tentare di adeguarti a me”. Non osai fiatare, finalmente, a parlare, era lui.
“Mi dispiace se ti ho fatto soffrire per la mia distanza, sopratutto mi dispiace del fatto che dalla genetica non si sfugge, e che vado diventando sempre più come mio padre”, sapevo quanto lo facesse soffrire questo punto. Riprese a parlare: “Nonostante ciò, anche tu mi hai fatto soffrire.”.
La vera bomba stava scoppiando in quell’istante, tanto silenziosa, quanto mortale: e noi ne fummo facile prede, intrappolati com’eravamo nei sedili anteriori di quella macchina che ci stava conducendo a casa nostra, forse per l’ultima volta. “All’inizio ero preso dal senso di colpa nei tuoi riguardi, perché era come se non riuscissi a governarmi. Questo lavoro andava diventando come una droga, e man mano diveniva anche un modo per non sentire il tempo che passava, per non vedere noi che invecchiamo”. “E non è un bene se noi invecchiamo, insieme?”, chiesi cautamente. “Non lo so. Se da più piccoli ero sicuro che anche invecchiando ti avrei resa felice, adesso comincio ad avere seri dubbi.”.
Io davvero non capivo: se si ama qualcuno, non si cerca un minimo di smussare gli angoli?
Presi coraggio, anche se da quale pulpito potevo parlare? Eppure le domande vennero fuori da parte di quella vecchia Miranda, lasciata in un angolo da lui, nel primo periodo di quella convivenza: “Non ce la fai proprio a fare un passo verso di me? Ad aprirti un minimo di più? A cercare conforto tra le mie braccia, come facevi prima?”. Lui fece silenzio, ci pensò a lungo e poi mi rispose: “No. E non che io non voglia -e questa è la vera tragedia-, ma non ci riesco. So che non posso darti più di così. Si è creato un muro tra di noi e non so se sia stato per il trasferimento, per la convivenza o…” terminai io la sua frase “…o per il lavoro”. Lui annuì, sapeva ormai che non era più il semplice scegliere tra me o la sua carriera, ma scegliere tra lui stesso e la sua carriera.
“Nor, oltre ad essere la tua fidanzata da tanti anni, sono sempre stata anche la tua migliore amica. E in qualità di tua confidente, pretendo che tu mi risponda sinceramente a questa domanda: questo lavoro, ti rende felice?”. Di nuovo una lunga pausa, poi la risposta: “Sì e no, Miranda. No, perché non è proprio il lavoro dei miei sogni, ma è sicuramente una via, la scala per raggiungerlo. Ancora no, perché mi allontana dal resto del mondo, ma se questo è il mio obiettivo, non c’è altra scelta. E invece sì, perché mi sento esattamente dove devo essere.”.
Non serviva altro.
Infine, aggiunse: “Tuttavia”, fece una pausa per trovare le parole, “sebbene io non sappia tuttora definire con certezza la causa primaria che mi abbia allontanato da te e per cui mi sono colpevolizzato per tanto tempo, di sicuro c’è un fattore concreto e reale che ha calcificato questo muro fino a renderlo una barricata.”, nel dire quella frase, continuò a guardare dritto a se’ la strada che rimaneva da percorrere. Sapevo perfettamente a cosa si riferisse e di chi stesse parlando. Lo lasciai finire: “Ma entrambi siamo troppo noi stessi per parlarne.”
Io che tenevo lo sguardo basso, a quel punto non potei trattenere le lacrime: avevo contribuito alla rottura di quella storia. Strinsi i lembi della gonna che mi copriva le cosce e cominciai a piangere: avevo miseramente fallito. Perché, sebbene ognuno avesse avuto la sua parte di colpa in questa relazione, di sicuro, quell’unica e sola esperienza avuta nella camera da letto aveva compromesso la fiducia del mio compagno, per sempre.
Capii che la nostra macchina ci stava portando inesorabilmente a un bivio: non saremmo mai più tornati quelli di prima. Servivano tanti elementi per ricucire quella storia e uno di questi era il perdono: sia da parte sua, per il mio grande errore, che da parte mia, per quel mio stesso grande errore. Per il resto, decisi di mettere momentaneamente da parte la delusione dovuta al suo stacanovismo e la conseguente rabbia che provavo nei suoi confronti: quel suo inaspettato mea culpa capace di infrangere il silenzio, aveva appianato alcuni degli attriti, seppure potevo ancora sentire degli spuntoni pungermi e farmi male.
Tuttavia, non aveva più senso addossare la colpa alle cause che avevano generato le mie scelte: c’ero sempre stata io al comando della mia nave e avrei potuto porre un freno alla situazione fin da subito. Magari avrei dovuto insistere di più, parlare con Norbert, smontare quella parete che aveva creato ancor prima del misfatto e capire quel suo senso di colpa. Ma scelsi la strada dell’ego: fui sorda ed egoista. L’antieroina di questa storia, compresi di essere io.

Non parlammo più per tutto il tragitto, entrambi sapevamo che ci eravamo appena addentrati nell’atto finale della nostra relazione. Nonostante ciò, quella sera, io e Norbert cenammo come una vera coppia di fidanzati: ci versammo del vino e rimanemmo vicini, ancora un’ultima volta. Anche se non ce lo dicemmo, quella era la fine e come tale, la onorammo per come onoravamo tutti i nostri anni passati insieme.
L’indomani mattina, mi svegliai tra le sue braccia: era strano come tutto stesse cambiando, seppure al di fuori, tutto sembrasse così invariato. Norbert parlò per primo: “Quindi hai deciso? Te ne vai?”. Era il momento di dirci in faccia la realtà: “Si Nor, ho deciso. Faccio le valigie e torno in Italia in settimana. Lascerò ovviamente la compagnia, tanto mi sostituiranno senza problemi.”. A quelle parole, lui mi strinse più forte, ma ciò mi spezzò il cuore.
Non posso negare di essermi sentita smarrita in quel momento: perché nonostante tutto quello che era successo, nonostante il dolore che gli avevo procurato e la rabbia nei miei confronti, lui era lì ad abbracciarmi. Il suo animo buono, conosceva l’importanza di mettere la parola fine in modo umano, tale da non ritrovarci -né io e né lui- perseguitati a vita da quei fantasmi chiamati rimorsi. Perciò, con un tono tra la tristezza e l’accettazione, mi disse: “Hai ragione. Non posso trattenerti qui ancora per lungo. Ti chiedo scusa se ti ho imprigionata.”, io lo guardai con rimprovero: “Tu non mi hai tenuta qui, legata contro la mia volontà. Il tentativo lo abbiamo fatto entrambi e questo è onorevole.”, gli dissi, accarezzandogli i capelli. Per quel solo attimo, forse consapevole di ciò che stava per accadere, Norbert era tornato quello di un tempo e questo rendeva la separazione molto più difficile.
In quel momento di congedo, trovai il coraggio di domandare ciò che, dopotutto, mi ero chiesta per tutto quel tempo. Quel silenzio che lentamente aveva logorato l’unica coperta che ci riscaldava entrambi, doveva essere combattuto con le parole: “Nor, ti posso fare una domanda?”, “Dimmi”, rispose lui in tono sereno dopotutto. “Se hai sempre saputo tutto…”, feci una pausa per trovare le parole e la forza di continuare: “perché non hai mai detto niente? Perché non hai urlato, prendendotela con me? Perché te ne sei rimasto in silenzio, a soffrire, senza nemmeno reclamare i tuoi diritti?”.
A quelle domande che uscirono come mitragliatrice dalla mia bocca, Norbert tolse il braccio da sotto la mia testa. Il suo corpo richiedeva spazio, voleva parlare senza essere offuscato ancora dalla mia presenza: “Perché quel tipo di delusione che mi hai recato tu, mi ha ferito talmente tanto da ammutolirmi. Non ho avuto la forza di parlarti, né di affrontarti, perché la rabbia mi avrebbe solo spinto a cacciarti di casa, senza neanche riflettere un attimo sui perché, su tutti quei motivi che ti hanno spinta a fare qualcosa del genere. Eri la ragazza migliore del mondo, lo sei sempre stata ai miei occhi, e in qualche modo sempre lo sarai, sebbene non sia riuscita a fare a meno di tradirmi.”. Lo aveva detto. Il misfatto si era finalmente materializzato nella stessa camera da letto in cui si era generato. Tutta quella conversazione era come una pugnalata dritta al cuore, ma io dovevo continuare a mandarla avanti, fino a esaurire ogni discorso, fino ad arrivare esausti, a lasciarci con un bacio non troppo intriso di rancore. “Che intendi? Quali sarebbero i perché che mi hanno spinta a fare questo errore madornale, secondo te?”. Lui finalmente si era aperto, e questa fu l’unica magra consolazione: “Il mio senso di colpa per ciò di cui abbiamo parlato ieri, mi ha portato a chiedermi se fossi in diritto di dirti qualcosa, dato che è stato un po’ come se ti avessi spinto io tra le sue braccia, attraverso il mio comportamento. Eppure, dall’altro lato, il dolore non mi ha permesso di parlartene e così ho innalzato una doppia parete in quel muro che già avevo levato tra di noi. Oggi, in tutta razionalità, posso dirti che non è stata completamente colpa tua, e sebbene non riesca ancora a perdonarti, io ti conosco e so che il solo pensiero di ciò che hai fatto, unito al mio silenzio che in fondo hai sempre un po’ capito, ti hanno tormentato per tutto questo tempo.”
Non dissi una parola: lui le aveva dette tutte per me.
Al che, ciò che rimaneva del mio fidanzato, mi fece soltanto un’ultima domanda: “Lo ami? Dico, Romeo, ne sei innamorata? So che gran parte della forza che ti ha fatto andare avanti in questi mesi è dipesa da lui.”. A quelle parole, mi voltai a guardarlo negli occhi questa volta con sguardo deciso; mi sentivo come se avessi finalmente risolto un estenuante rebus che mi aveva tenuta impegnata per tanto tempo. Per cui, in modo sicuro e realmente coerente con i miei pensieri, gli risposi: “Ti sbagli. Quel Romeo – Steve- non c’entra niente. É vero, l’attrazione c’è stata e mi ha depistata; addirittura l’ho scambiata per una reale infatuazione, ma non era altro che fumo che poi è svanito dal momento in cui mi hai finalmente rivolto il tuo sguardo. Non sono riuscita a contrastare il suo effetto calamita, perché mi sentivo una debole. Senza i tuoi occhi su di me, avevo perso forza ed è stato capire questo, che mi ha fatto più paura. So che questo non diminuirà la tua rabbia, ma c’è stato davvero un periodo in cui l’ho voluto allontanare con tutta me stessa e, contemporaneamente, ho voluto tenere lontano anche te. Questo perché avevo bisogno di imparare a camminare da sola in questo mondo. Il mio comportamento è nato all’inizio per capire cosa volessi, per ascoltare i miei desideri e cominciare ad agire in base ad essi. Ma successivamente, capii che dovevo imparare una lezione ancora più importante da tutta questa situazione: che se davvero dovevo tornare a brillare, allora la luce doveva nascere da me e da nessun altro. Per cui, alla fine dei giochi, ho capito soltanto che quella grinta che tutti volevano tirare fuori dal mio personaggio, è sempre stata mia.”. E per un fugace istante, mi soffermai a pensare come l’arte fosse riuscita davvero a curarmi nuovamente e come, effettivamente, dopo la famosa “sera della prima”, io mantenni la promessa e riuscii a mettere un punto definitivo a quella fase della mia vita.
Norbert colmò un’ultima volta la distanza che ci aveva diviso così a lungo, giusto il tempo di un dolce e ferito bacio sulla fronte e una carezza sul viso. Non mi guardò nemmeno, si alzò dal letto, mise in un borsone qualche vestito e infine uscì da quella che, ormai, non era più la nostra casa.
Non lo vidi più da allora.

*Giulietta e… Giulietta*


Una settimana dopo, come da copione, una volta spediti tutti i pacchi e preso con me le mie ultime valigie, mi diressi all’aeroporto per tornare in Italia, in compagnia di me stessa.
Qualche giorno prima passai dal teatro per congedarmi. Soltanto due persone erano davvero tristi per la mia scelta: Steve e il regista. Per quanto riguarda quest’ultimo, ci ripromettemmo di rivederci in Italia -qualcosa che effettivamente avvenne avanti negli anni-, mentre per quanto riguarda il mio ex partner, lo salutai e in cuor mio quasi lo ringraziai: il dolore che mi aveva inferto, mi aveva davvero insegnato tanto.
Uscendo da quel teatro e nel viaggio di ritorno verso un appartamento sempre più vuoto, ebbi la certezza di amare ancora il mio Norbert, nonostante tutto. Tuttavia, mi dissi che l’amore non bastava, quando nel mezzo c’erano tanti spilli che ci avrebbero continuato a ferire a ogni passo.
Smisi anche di chiedermi chi avesse potuto essere il mio Romeo, mi sentii a un tratto cresciuta per questo: Steve si rivelò un personaggio secondario che, pur tuttavia, mi fece capire il ruolo di Norbert nella mia vita. Perché nemmeno il mio neo-ex potevo nominare Romeo, no: lui era Norbert, solo Norbert, il mio imparagonabile grande amore.

Ma, ora mi chiedo: quella stessa protagonista shakespeariana, che tipo di Giulietta sarebbe stata in un’esistenza senza Romeo? Se entrambi avessero avuto una vita serena, neanche Shakespeare si sarebbe interessato a loro. Eppure, i due amanti si condussero per mano fino alla loro fine e che poi venne a coincidere con l’inizio della loro stessa eternità. Finalmente, dopo una vita divenuta turbolenta a causa dell’amore, approdarono con coraggio e follia all’immortalità delle loro anime indissolubilmente legate.
La verità, pensai, è che siamo abituati a sentire nominare questa bellissima tragedia, chiamandola con il nome dei due protagonisti: “Giulietta e Romeo”.
E se cambiassi le carte in tavola? E se uno dei due avesse continuato a vivere in un mondo dove l’altro aveva smesso di esistere? Dunque, seguendo il mio pensiero, adesso io -in quanto Giulietta rediviva- decido di cambiare il corso degli eventi, e che Shakespeare mi perdoni per questo esperimento. E così, ribattezzo la sua storia con un nuovo nome, adatto alle conseguenze di questa sua resurrezione solitaria: “Giulietta e… Giulietta”, ripetei a me stessa.
In questa mia versione apocrifa, c’era solo una Giulietta che si rialzava dal suo lungo sonno e ricominciava a camminare come un Lazzaro redivivo, unicamente in compagnia di se stessa. Nessun Romeo le avrebbe indicato la via, poiché questa volta, lei avrebbe continuato a crescere anche senza di lui.
Sarebbe rimasta sola? Avrebbe incontrato un altro, dimostrando che anche Romeo era intercambiabile come tutto, del resto? Che l’attrazione, che la chimica, l’affinità che unisce due calamite avesse effetti anche su di lei? Purtroppo tutto questo non c’era dato sapere, tanto che nemmeno Shakespeare si era addentrato fino a lì, evitando di sporcare la purezza del sentimento con le mille distrazioni che la vita ci mette davanti per tentarci di continuo. Per cui, anche io fermo il mio ragionamento alle soglie di una totale irriverenza.

Eppure da ciò, comincio a trarre le mie conclusioni: una delle tante lezioni che appresi, fu che io non ero più Penelope e nemmeno una Lady MacBeth; piuttosto ero Miranda, altro personaggio shakespereano in balia della tempesta. E come tale, perfino io venni fuori dalla mia.
Ammetto che, ad oggi, non rimpiango di aver ritrovato quel caos nel mio cammino; consapevole che senza la tragedia, non saremmo capaci di saper godere del bello che tinge di colore le nostre esistenze. Difatti, se la mia vita non fosse stata sconquassata in certi momenti dalle onde che mi hanno fatto sbattere sugli scogli fino a farmi male, io non avrei mai potuto forgiare il mio carattere. In quel modo, non sarei nemmeno riuscita a evolvermi, come dimostrò di fare Giulietta tramite il suo gesto finale tanto assurdo, se paragonato con la sua indole all’inizio della vicenda. Allo stesso modo, anche io imparai che non sarei voluta rimanere in eterno una fanciulla, alla quale mai sarebbero mai stati iniziati i segreti -gioie e dolori- della esistenza; piuttosto che evitarla, preferivo combattere nella tempesta per venirne fuori sì ferita, ma pur sempre eroica.
Quell’attrazione che mi aveva fatto legare a un’altra persona, fu generata dall’assenza di una persona e dalla chimica con un’altra. Eppure, avevo con me l’arma migliore di tutti per combatterla: la volontà. Perché, invece, la mia fu tanto offuscata? Perché non riuscii a vedere chiara la via in cui mi stavo immettendo? Faticai a lungo per trovare le risposte, ancora in balia di un angelo che mi bacchettava. Eppure, la lezione che ricevetti qualche tempo dopo, mi insegnò che io evidentemente dovevo sbagliare strada proprio per ritrovare il mio cammino.
Con il senno di poi, dunque presi la decisione migliore: quella di non avere paura di mettermi in gioco, cambiare strada, sbagliare ancora, ricominciare; in una parola crescere. Tuttavia, da quella esperienza in poi, mi giurai che nei bivi della vita, avrei dovuto chiamare in causa sia il cuore che la razionalità, consapevole del mio ruolo da mediatrice tra le parti. E seppure il pensiero di aver fatto soffrire qualcuno è riuscito a farmi titubare per un attimo sul mio percorso, mi sono sempre risposta che anche quello faceva parte di un piano che non ero stata io a prestabilire.
Pertanto, imparato ciò, ho deciso di mostrare le mie ferite come medaglie al valore. Io stessa, più in là negli anni, riuscii a perdonarmi degli errori compiuti, proprio perché figli di una me che non ero ancora io. Grazie a quelli capii a quale versione migliore di me stessa avrei voluto ambire, e ci riuscii imparando a domare e conciliare i Pro e i Contro della mia anima. I miei comportamenti passati e che procurarono del male a me e a chi mi stava intorno, oltre a tutti quei pensieri incoerenti con i miei desideri, appartenevano ormai soltanto alla ragazzina che poi smisi di essere. Quei miei sbagli mi ricordarono inoltre che, se il destino ci avesse risparmiato parte di quel dolore, con il suo rimescolare le carte di una vita tranquilla tanto da complicarla esponenzialmente, nessuno dei due – né io e né il mio amato Norbert- sarebbe diventato la persona che, ad oggi, è. E proprio per questo non c’era spazio per i rimpianti: per quei “se” e “ma” che sono incapaci di essere manipolati, una volta che si è fatta una scelta. Al contrario -e qui lo ripeto- noi ci trovammo esattamente dove ci dovevamo trovare e facemmo esattamente quello che dovevamo fare, pur nella città sbagliata e in una relazione con la data di scadenza. Lui con i suoi comportamenti -come lame su di me- e io con i miei – come spine dentro di lui-: così noi ci ferimmo, così noi ci forgiammo.
E lo stesso ragionamento vale anche per la nostra storia: seppure sia giunta al capolinea, proprio per il semplice fatto di essere esistita, ci ha portati esattamente dove dovevamo essere. E proprio la sua fine ha sancito il nostro coraggio e la nostra maturità: abbiamo scosso il nostro torpore e così abbiamo divelto le inferriate dell’abitudine; abbiamo capito che lasciarsi non era una sconfitta, ma significava accettare che il nostro tempo insieme, si era esaurito.
Una bellissima rosa con le sue spine, questo è ciò che è stata la nostra relazione. E sebbene questo fiore così delicato seguì facilmente la sua sorte, appassendo troppo in fretta, il ricordo del suo profumo è rimasto indelebile in eterno nella mia memoria.


***

Un giorno mi fermerò.
Un giorno mi fermerai.
Ma non è questo il giorno.

***

Come dite? Anche se ho smesso di paragonare tutti gli uomini a Romeo, volete ugualmente sapere se poi sono riuscita a trovare qualcuno che vi si sia potuto avvicinare? Voi che siete arrivati a leggere fino a qui, come posso non accontentarvi. 
Dunque, grazie alla pratica del “lasciare andare”, una volta che la mia anima fu pronta e in equilibrio con i miei desideri, rinunciando al superfluo, ho davvero fatto spazio a ciò che stavo veramente attirando. 
A distanza di anni, la mia vita e i suoi giri mi riportarono in Inghilterra con occhi più maturi e un cuore più coscienzioso. Ricordo che era Maggio e gli alberi si andavano colorando di tanti fiori dalle tinte delicate; fu in uno di quei pomeriggi che, nel bel mezzo delle mie passeggiate, notai un uomo che se ne stava seduto su una panchina di un parco di Londra. Io mi avvicinai e vidi che stava leggendo Romeo e Giulietta. Lui, alzando gli occhi verso di me, mi disse con tono dolce che gli sarebbe piaciuto rivedere prima o poi un suo rifacimento teatrale. Allora presi posto accanto a lui, e ricordo ancora come, a partire da quel pomeriggio, non smettemmo più di parlare.

Se era Norbert o non era Norbert, questo non posso rivelarvelo.
Ma, dopotutto, anche questa
è un’altra storia.

Aggiunta dell’Autore:

A voi, cari lettori, che siete arrivati fino alla fine di questo breve racconto, scritto tra le mie mura bolognesi durante il primo lockdown, chiedo, qualora conosceste qualche giornale online o cartaceo disposto a pubblicare, di scrivermelo nei commenti o di inviarmi una mail all’indirizzo rossittovaleria@gmail.com .
Grazie di cuore del vostro affetto.

Valeria

Racconti, Racconti & Poesie

Il vecchio diario

11/11/18

Vai sereno, cuore di pietra. Vai e sgambetta pure liberamente di fiore in fiore, proprio come ti piace fare. Dopotutto, che importanza hanno avuto tutti i nostri lunghi anni insieme? Il tempo passato l’uno accanto all’altra, uniti a tutti quei soldi che mi avresti fatto risparmiare. Che poi, era necessaria quella attrezzatura per risistemare la tua barca? E di tutti gli strumenti per andare a fare le tue cose spericolate con i tuoi amichetti poco furbi, non potevi farne a meno?
I tuoi giochi ti hanno portato così lontano che non ti sei neanche preso la briga di avvisare che te ne andavi; anzi, preso dalla tua vita com’eri, ti sei pure dimenticato di salutare. E mentre tu socchiudevi la porta di casa per quella che non sapevi fosse l’ultima volta, all’ennesima crepa del mio cuore, ho buttato finalmente la chiave e ti ho lasciato fuori. Tanto, ero certa che non avrei ricevuto neanche un messaggio del tipo: “Non so se tu sia viva o no, e ancora sto cercando di capire quanto la cosa mi interessi, ma spero solo che la botta che ti ho inflitto nuovamente non ti abbia fatto molto male questa volta”. Eh, no, mica l’hai fatto; sennò non saresti il famoso Mr Narcisista, quale tu sei.
Eppure sai che ti dico, mio caro? Un giorno io e te ci rincontreremo.
Oh, sì che ci rincontreremo e puoi giurarci. E ti assicuro che io non sarò più la tua fragile “pupetta” con gli occhi chiari e il cuore spezzato. Eh no, quella versione lascerà il posto a una me fatta di cicatrici e un cuore di pietra, proprio come il tuo.
E accadrà più o meno così: dopo tanti anni da quella porta chiusa alle tue spalle ormai lontane, noi ci rivedremo lì, in una triste sala comune di un ospizio per anziani. Tu sarai quello con la giacca blu e il tuo stupido solito fiore all’occhiello, manco fossimo nell’Ottocento. Io sarò quella ancora figa per i miei anni, che penserai non essere cambiata di una virgola. Allora ti avvicinerai a me, mentre io sarò girata a guardare un’altra anziana suonare una malinconica melodia al pianoforte. Finché mi busserai alla spalla, e dopo aver speso l’ennesimo secondo importante della mia vita per tornare a guardare indietro verso te, tu mi dirai: “Emma, dopotutto questo tempo… Il destino ci ha riuniti”. Dunque, soltanto in quel momento, io ti guarderò con i miei occhi grandi oceano-mare, poi accennerò un sorriso tenero che ti parrà di ricordare e infine ti risponderò delicatamente con: “E tu chi sei?”.
E allora sarà lì che ti verrà quel principio di infarto che porrà fine alla tua misera vita, e sarà lì che finalmente avrai capito: che una persona non la perdi anche quando ti chiude la porta alle spalle e butta la chiave, che non la perdi nemmeno quando sono gli anni a dividervi. Ma, attento! Che il tempo stringe e poi ci pensa la vita, in questo caso l’alzheimer, a farti perdere l’unico tesoro puro e di valore che ancora rimaneva.
“Signora Emma, è il momento di tornare alla sua camera. Saluti il signor Benito, lui sta tornando al suo ospizio dall’altro lato della città”. Ed io: “Arrivederci signor Benito, è stato un piacere conoscerla.”

“Mamma cosa stai leggendo?”, mi chiese Isabel, mentre faceva capolino nel salotto dove stavo seduta a ripassare tutti i ricordi racchiusi nei miei vecchi diari. “Nulla, tesoro” dissi, prendendola in braccio e facendola sedere sulle mie gambe. “Che cosa sono tutti questi libriccini?”, mi domandò, indicando le copertine variopinte dei tanti blocchetti. “Vedi, c’è stato un tempo in cui la mamma era molto arrabbiata e allora scriveva”, le spiegai, sistemandomi meglio sulla poltroncina gialla. La bambina non capiva, prima guardò le pagine scritte fitte fitte e a tratti scarabocchiate e poi si voltò a indagare il mio viso: “Arrabbiata con chi? Con me?”. “Oh, no amore, non con te!”.
Ma lei non si dava pace, il suo volto turbato era lo specchio del suo dubbio interiore: “E allora con papà, perché spesso fa le monellerie?”. Io la guardai; accidenti, come somigliava a suo padre. “È vero, papà fa le sue monellerie e la mamma lo sgrida, ma poi ci mettiamo sempre a ridere, non è così?”. La bambina ci pensò su un attimo e sorrise: “Sì, tu ridi e lui ti abbraccia e poi mi prende in braccio e mi fa fare l’aeroplano”. Io la strinsi, ma poi la mia piccola si fermò nuovamente: “E allora mamma, non eri arrabbiata con papà?”, tornò a fissarmi con occhi seri per un’ultima volta. “No tesoro, anzi, è stato proprio dal giorno in cui ho conosciuto il tuo papà che ho definitivamente smesso di essere arrabbiata”.
Dopo aver pronunciato quella frase, stetti in silenzio; era come se per la prima volta, il mio cuore si fosse quasi fermato a realizzare quelle parole, a mo’ di delicata e intima rivelazione. Semplicemente sorrisi, come un riflesso incondizionato o forse fin troppo condizionato da verità a lungo sotterrate nel mio inconscio. Di seguito, i miei occhi si poggiarono automaticamente nella foto di noi tre, posta sul tavolinetto di fianco a me. In un grande parco, c’ero io, in fondo, immortalata nel bel mezzo di una frase di ammonimento, tra il finto arrabbiato e il divertito, mentre davanti a me guardavo Isabel che faceva l’aeroplanino con suo padre.
Dunque, istintivamente chiusi il diario, e lanciai un’occhiata a tutte quelle pagine ingrigite dal tempo e ormai obsolete, sparpagliate sul tavolinetto. Allora feci un respiro profondo e mi alzai dalla poltrona, prendendo in braccio la piccola che guardava ancora incuriosita quella montagna di pensieri lontani in forma scritta: “Dai Isabel, aiuta la mamma a preparare la cena. Sai dov’è papà?”, le chiesi, intuendo già la risposta. Ma la bambina non disse nulla; semplicemente indicò con il suo ditino affusolato e roseo fuori dalla finestra. “Di nuovo tutto sporco di fango per giocare con Rudi! Ah, si salvi chi può!”.
E sorrisi nuovamente. E sorrisi davvero, finalmente.

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Risvegliarsi

Finalmente.
Esatto, finalmente mi ritrovavo dentro un teatro. Guardavo incredula e con occhi lucidi ogni cosa intorno a me: dallo schermo che cambiava immagini a un ritmo vorticoso, ai sedili in pelle bordeaux ordinatamente in fila, fino a tutta quella gente che parlava entusiasta, quanto lo ero io. Sembrava che fossimo tutti lì per la prima volta e forse lo era per davvero.
Una marea semi composta di persone continuava a entrare, pronti a prendere posto in platea per l’evento. A quanto pare, quella era una serata speciale; infatti si festeggiavano i settant’anni di un film che ha segnato la storia del cinema, con Audrey Hepburn come protagonista.
Una volta raggiunto il mio posto, accanto ad altre persone allegre e agghindate a festa, ricordo che non riuscii a stare seduta per la frenesia del momento.
Mi sentivo nuovamente una bambina, in attesa che Babbo Natale arrivasse con i doni; oppure ancora un’adolescente, trepidante, nel momento prima che si spegnessero le luci dell’anfiteatro per dare inizio al concerto della sua band preferita.
Ad ogni modo, mancava ancora tempo prima dell’inizio della pellicola. Dunque, una volta chiesto permesso alle tante gambe comodamente sedute perché si spostassero in modo da lasciarmi passare, riuscii infine a uscire dalla sala per raggiungere la hall: e fu solo in quel momento che mi accorsi di essere al MET di New York.

I luoghi dell’arte in funzione del cinema, il quale divulga la cultura come se si trattasse di una nuova primavera. Sembrava un altro mondo, una nuova era, e forse, magari, chissà che non lo fosse sul serio.
E mentre signore e signori inzuppati, con l’ombrello ancora aperto, si facevano strada verso l’interno del teatro, una volta varcate le grandi porte a vetro scorrevoli, io, incurante della pioggia torrenziale che imperava per la città, con il cellulare tra le mani, decisi di uscire fuori. Volevo immortalare quello spettacolo: un grande schermo posto sulla costruzione permetteva anche ai passanti non paganti di ammirare il ritorno di un capolavoro ancora tanto amato, mettendo il cinema a disposizione di tutti e portandolo tra le strade della Grande Mela.

Una volta inquadrato con il telefono lo schermo variopinto con la scritta MET come firma, sulle note languide di Henry Mancini, molte teste distratte subito alzarono il naso all’insù, richiamate dalla dolce melodia di Moon River. E tra quelle c’ero anche io, che con la pelle d’oca, soltanto allora realizzai come tutta New York stesse festeggiando proprio Breakfast at Tiffany.
Presi a sorridere inconsapevolmente, mentre intanto continuavo a guardare il film da quella inedita postazione. Un croissant, un lungo tubino di raso nero Givenchy che tocca terra e una donna che si riflette sulle vetrate di un negozio ormai senza tempo. I miei occhi erano incantati dalla visione del mondo sentimentale di Blake Edwards, e mentre una parte di me veniva letteralmente rapita da quelle scene di una città sempre attuale, riuscendo perfino a dimenticare come la pioggia fosse riuscita ad inzupparmi ormai fino ai capelli, non potei fare a meno di pensare a quanto la realtà si avvicinasse al sogno. Un meraviglioso sincretismo artistico, questo il regalo di New York. L’abolizione dei confini, del ‘mio e tuo’, una libertà che va a braccetto con una rinnovata tolleranza: che siano stati questi alcuni degli effetti positivi di due lunghissimi anni di pandemia?
Finalmente la vita ci offriva uno spettacolo più democratico e l’arte era pronta ad aprire le sue porte per risollevare lo spirito umano dopo questa lunga guerra.
Cosa volere di più? “Beh, forse semplicemente un phon per asciugare i capelli, prima di beccarmi una semplice influenza”. Così, risposi tra me e me, mentre tornavo sui miei passi per varcare nuovamente e al contrario le porte scorrevoli del MET. Dopotutto, il mio posto a sedere in platea, finalmente, mi aspettava.

Dopo di ciò, mi svegliai.

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Davanti al mare

Profumo di gelsomini in un giorno di maggio.
Rumore di tacchi e dei primi ventagli che sventolano.
Voci di bambini al di fuori del silenzio della grande chiesa e una moltitudine di persone dai volti conosciuti, in attesa.
E allora arrivi tu, che saluti tutti quanti, tremando e sorridendo insieme e ti dirigi subito verso il prato, superando lateralmente le file di sedie bianche immerse tra i fiori.
Il prato è umido, eppure il sole delle cinque lo riscalda delicatamente mentre viene pettinato da un venticello leggero.
Sei nervoso, ma vuoi dissimulare: dopotutto fai cose ben più “difficili” nella vita, tu che usi il sorriso per dare forza agli altri, questa volta ti servirà per darla a te stesso.
Eppure l’odore della salsedine lì vicino ti calma; anzi, quando senti che la tachicardia ti annebbia i sensi, spingi tutto il tuo corpo ad abbracciare la presenza del mare. Arrivi perfino a sentire il debole rumore delle onde che si infrangono sullo scoglio al di sotto del prato, ed è lì che pensi a me.
Continui a salutare gli altri ospiti: vedi tua madre e tuo padre prendere posto, guardi il tuo migliore amico che ti abbraccia e ne rimani ancor più confortato. Il suo sguardo, come quello di tua madre seduta davanti a te, sono sempre stati il metro di giudizio per capire la validità di una tua scelta e, vista la loro espressione serena, quella doveva essere proprio la scelta giusta.
L’orchestra accorda i violini e vedi come l’arpista sistema accanto a sé il suo strumento degli angeli. Allora ridi tra te e te: “immagina se ci fosse un ukulele”, ed ecco che ancora una volta ripensi a me, sentendoti meglio.
Ed io intanto sono lontana. Immagino ad occhi chiusi i preparativi attorno a quell’archetto fiorito sul prato della chiesa che si affaccia sul mare, mentre vestita di bianco, sono attorniata dalle mie amiche di una vita e da mia madre, che ancora hanno la stessa espressione incredula di quel lontano giorno in cui dissi loro che avevo finalmente incontrato qualcuno.
Entro in macchina e, per una volta, accorciare le distanze non è stato mai così facile. Come una calamita venivo attratta dal mare, dallo stesso mare che ogni volta mi riportava da te.
Mille pensieri, le chiacchiere felici di mia madre, il velo ovunque, tutti dettagli che resero fin troppo breve quel tragitto che ci riuniva. Eppure io non ero tranquilla, tanto che per calmarmi, provavo a pensarti, ripercorrendo i lineamenti del tuo viso e ripensando a quel modo dolce con cui i tuoi occhi mi hanno detto che avrebbero sposato i miei. E questo accadde ancora prima di conoscerci, ancora prima di innamorarci: accadde che i tuoi occhi mi parlarono per caso in una sera qualsiasi di dicembre, quando ti incontrai nel mezzo di facce conosciute, in un grattacielo di Manhattan.
L’autista si ferma davanti alla chiesa, ed io, che per distrarmi, cerco di paragonare il valzer che sentivo nello stomaco, a quello provato altre volte nella mia vita: per la mia laurea, ad esempio, o per qualche altro evento nel quale io avrei dovuto parlare in pubblico e da quel momento sarebbe cambiata la mia vita.
Mia madre aveva già l’occhio lucido, come le mie amiche – che però lo dissimulavano meglio-.
Comincio a salire la scalinata della chiesa e proprio tra il primo e il secondo gradino dell’entrata, il pensiero del nostro primo litigio mi sferzò un colpo allo stomaco talmente forte da confondermi e da farmi allentare il passo. Quei problemi gonfiati a dismisura da parole e paranoie,  riuscirono a rovinare i nostri giorni di pace. E subito ecco il secondo colpo sulla milza, il litigio del 13 marzo: noi trentenni a litigare per incomprensioni nemmeno degne dei diciottenni; io che volevo farti capire le mie ragioni e tu che andavi somigliando sempre più a un sordo muro.
Un altro colpo: la tua improvvisa gelosia in quella sera di luglio ed io che ridevo, per quanto te la stessi prendendo ingiustamente per una cosa mai esistita.
La mia amica nota qualcosa dal mio viso e mi prende a braccetto: “Se hai una guerra in corso nella tua testa, vedi di scoprire chi è il vincitore prima della fine di questa scalinata”.
Un vincitore? Un vincitore significava andare avanti o scappare per sempre; significava dare peso ai momenti negativi, ai difetti, alle situazioni scomode come se non ci fosse una soluzione dettata dagli anni, dalla maturità e dall’amore. Oppure significava far prevalere la speranza che quei momenti negativi sarebbero arrivati e se ne sarebbero andati subito: significava terminare la scalinata, sorridere a tutti, sorridere a lui, e fare un passo a cui non avrei più potuto porre rimedio e solo per fiducia nell’amore.
Allora la mia amica continua con quello che risulta essere uno dei discorsi più profondi e anche più brevi della sua vita probabilmente, peraltro sussurrati piano al mio orecchio nascosto dal velo: ” qualunque sia il vincitore della tua battaglia interiore, non avere paura di declamarlo. Non è ancora troppo tardi”.

A quelle parole mi venne in mente uno degli ultimi litigi che abbiamo avuto proprio pochi giorni prima che mi chiedesse di sposarlo. Quella sera mi disse che era ovvio che gli andasse bene che io progredissi nella vita e sopratutto nel lavoro; accettava anche che avessi molti amici uomini e che molte delle persone con cui avevo a che fare nell’ambito lavorativo erano di sesso maschile. Accettava la mia apertura verso il mondo e il mio voler aiutare anche gli sconosciuti. Nonostante ciò, vi era un punto che gli veniva difficile dominare: le partenze. Quando in lui si è sviluppato un amore maturo nei miei confronti, io ero una giovane curatrice in erba che viaggiava non solo per amore dell’arte, ma anche per crescita professionale e personale. Nel mio ambito, conoscere luoghi, culture, persone è fondamentale come leggere libri e giornali. I viaggi, le partenze, gli aerei che ci hanno divisi tante volte, avrebbero continuato ad esistere, seppure con un anello al dito che ci avrebbe legato ancora più fortemente, insieme a quell’amore con cui abbiamo combattuto il tempo e i chilometri.
Così io gli ho spiegato che la mia personalità, la mia voglia di fare e la buona riuscita della mia carriera, si basavano su quei viaggi e sulla libertà di affrontarli a mente serena e sentendomi supportata. Io sarei stata una farfalla dalle ali tarpate senza di essi e lo sarei stata anche senza la mia spontaneità, e sicuramente non sarei stata la ragazza che lui diceva di volere accanto a sé per tutta la vita.
Dormimmo separati quella notte: non ci dividevano paesi, né città, ma due case. Infatti lui tornò a dormire dai suoi genitori dopo aver digerito il mio discorso del “o così o in nessun modo” davanti a una birra e una giuria di amici.
Quella notte dormii malissimo e non perché non ero più abituata a non sentire il suo profumo nel letto accanto a me, ma perché quel silenzio e quella stanza più vuota del solito mi diedero modo di pensare a tutte le ombre che io avrei dovuto accettare di lui, in una nostra vita insieme.
Nonostante tutto, la decisione maturata proprio prima di addormentarmi fu la seguente: sentivo che avrei potuto anche accettare le sue parti negative, purché fossero superate in numero dalle sue parti positive, purché fossimo disposti entrambi a venirci incontro e ancora purché entrambe le sue parti negative e positive portassero lui -in anima e corpo- di nuovo accanto a me. Dunque vi erano ben tre e massicci purché in questa scelta, ma dopotutto stare insieme non si è mai trattato di una passeggiata.
Catastrofica come sono, presi sonno poche ore prima per svegliarmi alle 8 e organizzare subito il successivo viaggio di lavoro per Vienna: consideravo già che mi sarei fatta forza partendo e andandomene, nel caso in cui lui mi avesse lasciata. Dopotutto è così che facevo ogni volta a vent’anni.
E in quel momento il telefono squillò: era lui.
“Prima che tu dica qualcosa” dissi io senza dargli modo di parlare “vorrei dirti che…”
Ma lui mi raggelò con un glaciale “Dobbiamo parlare”. E siccome i discorsi seri arrivano sempre nei giorni più complicati, a condire il tutto c’era il fatto che quella sera saremmo dovuti andare a un concerto: un concerto che si trovava pure in un’altra città, una città che a sua volta era da qualche parte fuori dall’Italia, in un punto che tutti chiamano Inghilterra.
Quindi con il mal di pancia che di botto prese a strozzare le parole, riuscii solo a chiedere in modo confuso: “E il concerto? E il volo per Londra?”. “Vediamoci dopo pranzo in aeroporto, stacco da lavoro e vengo direttamente lì”, la sua sintetica risposta inversamente proporzionale alla mia ansia in fermento.
Mi vuole lasciare durante il viaggio per Londra. No, mi vuole lasciare durante il concerto dei Coldplay a Londra. No, meglio! Vuole lasciarmi dopo il concerto, al ritorno da Londra, sempre su uno dei miei dannati aerei per rimarcare e sottolineare il fatto che non può tollerare la mia vita. Va bene, io non mi tiro indietro, che me le dica in faccia queste cose, ed io sarò impassibile. Riderò mentre sorseggerò la Coca-Cola che vendono a ben 5 euro sui voli che chiamano low-cost e sarò tranquilla. Dentro sappiamo tutti che morirò, ma cascasse il mondo, non gli darò mai questo sazio.
E questo fu un assaggio di quel flusso di coscienza che ebbi dopo il suo semplice “dobbiamo parlare” delle 8 e 15 e due secondi di un mattino “ansiogeno”.
Ed eccomi all’aeroporto, mentre lui era già seduto davanti al gate per London- Stansted. Immaginavo di vederlo con quella faccia livida, tipica delle migliori litigate in termini di serietà. Mi avvicino, poso la valigia per terra, lo guardo e lui si alza e mi stringe fortissimo tra le braccia. Io tremavo, perché non capivo il significato di quella reazione: “forse, da signore, vuole lasciarmi in quel modo prima di partire. Forse così la decisione sarà solo mia: se salire sull’aereo insieme a lui, oppure no”, di nuovo il mio flusso di coscienza che continuava a perdere incontrollato dalla mia testa come un lavandino che gocciola.
“Sei pronta per il viaggio?”, mi disse con un sorriso e un bacio in testa.
Ed io non sapevo più se stavo parlando con dottor Jekyll o con mister Hyde in quel momento; sapevo soltanto che decisi di non aprire bocca sul fatto di lasciarsi, visto che la decisione in quel caso sarebbe stata solo sua.
Il volo andò stranamente benissimo: anche la Coca-Cola venne abbassata di prezzo alla quasi-modica cifra di 3 euro e 50. Lui mi parlava della sua giornata, di quanto non si ricordasse che il letto a casa dei suoi genitori fosse piccolo e di come Filippo, il suo migliore amico, si fosse invaghito della sua personal trainer. Io ridevo come sempre alle sue parole e per come raccontava ogni cosa con quell’ironia sagace e dolce allo stesso tempo, ma frenavo le grandi risate scaturite anche dal mio cuore, proprio perché non avevo dimenticato che di colpo sarebbe scoppiata la bomba.
Ma intanto il concerto si avvicinava e lui non mi lasciava. A quel punto, mentre eravamo in fila per entrare, fui io a prendere l’argomento stanca di quella tensione: “Senti, a proposito della discussione che abbiamo avuto…”. Lui mi zittì, “non è il momento” mi disse.
Ed ecco che cominciai ad andare internamente in escandescenze, pensando che mi avrebbe davvero lasciata durante il concerto e che io avrei odiato i Coldplay per tutta la mia vita. Cercai di insistere, e vedendomi triste, lui mi serrò in un abbraccio che durò fino all’entrata di Chris Martin sul palco.
Io decisi di acquietarmi e godermi quel momento… come se fosse stato il mio ultimo momento di puro amore con lui.
E allora fu che, a quasi fine concerto, cominciò Fix you, e tutta la platea era diventata un firmamento di stelle luminose, per via degli accendini e dei cellulari accesi in aria.
Lui mi si avvicinò, prendendomi da dietro e cominciando a cantare la canzone sussurrandomela dolcemente all’orecchio, mentre Chris Martin la cantava a entrambi. E al secondo ritornello, sentii che aveva cambiato le parole, anzi, che non stava più seguendo il concerto, che mi stava parlando. “Vuoi sposarmi?” disse piano, talmente piano che io davvero non lo capii. “Eh?”, dissi mentre mi girai verso di lui. E intanto lui si staccò, e indietreggiando, prese una scatoletta dalla tasca dei jeans. “Vuoi sposarmi?”, mi chiese ancora, adesso con un tono più forte ed in viso visibilmente emozionato. Avrei avuto bisogno che qualcuno mi avesse dato un pizzicotto, ero come bloccata dall’emozione di una scena che non mi sarei mai aspettata, specialmente in quel modo. Allora lo vidi inginocchiarsi davanti a me, tra la folla che a quel punto istintivamente gli fece spazio: in mano la scatoletta aperta, dentro c’era il mio anello.
Io piansi: Chris Martin cantava, lui si rialzò subito per avvicinarsi a me ed io vedevo tutto annebbiato tra le lacrime e i sorrisi. Mi strinse nuovamente, mi baciò e fece silenzio. Dopo poco: “Ma se non vuoi, non c’è bisogno di reagire così, basta dire no…”, disse con quell’ironia che di lui amavo. Lo guardai,  i suoi occhi parlavano più di lui, rimisi in sesto il mio viso assumendo una vaga aria da furbetta -poco convincente-, infilai l’anello al dito, gli gettai le braccia al collo e all’ultimo “fix you” cantato dai Coldplay, dissi sì.
“Questa sei tu e voglio che non cambi per nessuno né tantomeno per me. Proprio perché la nostra storia non è facile, vuol dire che è qualcosa di speciale da coltivare, è una sfida che accettiamo insieme che siamo così diversi, ma anche così testardamente uguali. E se anche il lavoro ci porterà ad allontanarci a periodi alterni, non siamo novellini in questo: voglio che tu ti realizzi come persona, come donna e come professionista. Voglio che tu sia felice e soddisfatta, senza che sia io a frenarti in qualcosa. Voglio che tu sia mia moglie e voglio che come moglie, donna e professionista tu sia intraprendente, spontanea, buona e ingenuamente bella come sei. Voglio che rimanga la mia migliore amica e la mia complice, perché se mai dovessimo lasciarci e io dovessi trovare qualcun’altra con queste caratteristiche, non sarebbe lo stesso: perché io non voglio una come te, io voglio te.
Ho più desiderio di starti accanto, nonostante i nostri momenti no, che vederci dividere ancora e per sempre da aerei e altri finti amori. E dunque, mia cara, questo è il mio verdetto”. Il suo verdetto, detto tutto di un fiato con il cuore in mano sulle rive del Tamigi alla fine del concerto di una delle mie band preferite, nella mia amata Londra.

Strano da dirsi, ma tutto il film che è passato davanti ai miei occhi è durato il tempo di salire tutte le 32 scale della chiesa.
Mi fermo davanti la grande porta della navata centrale, la supero e mi dirigo verso il passaggio per arrivare al giardino. Ecco che a quel punto mia madre lascia il posto a mio padre che mi prende a braccetto.
Le mie amiche, ancora ignare su chi avesse vinto la guerra dentro di me, si erano indirizzate già verso l’arco fiorito, con il prete che guardava nella mia direzione.
Entro nel giardino e cominciano a suonare i violini.
Inconsciamente avevo scelto il vincitore di quella ennesima guerra che non era nemmeno stata la prima, solo che io ancora non lo sapevo. Raggiungo il centro delle sedie, sentendo il cuore che impazziva in gola: forse volevo scappare o forse volevo continuare, ma ecco quello che successe.
Lo vidi, vidi lui che spuntava da dietro le sedie, accanto al suo testimone. Lo vidi con quel fiore nel taschino e vidi i suoi occhi che si illuminarono, come se non mi vedesse da una vita, come se non volesse vedere altro nella sua vita. Cominciò a suonare l’arpa ed io mossi il primo passo a ritmo della marcia nuziale, con mio padre accanto che sorrideva anche lui, per frenare la commozione.
Ed eccomi lì: che con lo sguardo fisso su di lui, con il nostro mare che gli faceva da sfondo, io lo stavo sposando con tutto il mio cuore.
Percorsi tutta quella bucolica navata centrale direzione onde, scorgendo rapidamente i sorrisi dei miei cari, felici e che ci hanno sempre considerato come gli eterni innamorati ondivaghi di una storia d’amore lunga molti viaggi.
Arrivo all’altare, posto davanti al mare per noi e lui mi alza il velo, sorridendomi finalmente sicuro e fiducioso.

E fu in quel modo che il filo rosso che ci ha legati fino ad allora si trasformò in due anelli; e su di essi la nostra unione, lungamente voluta dal destino, venne incisa in un giorno di maggio, nel mezzo del giardino profumato della ormai nostra chiesa davanti al mare.

Pensieri della sera che magari non parlano sempre di amore, Racconti, Racconti & Poesie

L’interrogatorio: racconto di una tesi provocatoria tra la performance e la solennità di una sessione di laurea

“Chi siamo? Da dove veniamo? Ma, soprattutto: dentro la Merda d’artista c’è davvero la merda dell’artista?
Ecco, signori miei, i tre quesiti cardine della storia dell’uomo e del mio lavoro che oggi vi presento. Voglio proprio mettervi davanti ai dubbi dell’arte, quelle questioni di cui non potremo mai conoscere la risposta, allo stesso modo di come non possiamo sapere cosa ci sarà dopo la morte.
Duchamp ha realmente riempito con il suo fiato quel palloncino oggi sgonfio?
E de Domincis che ha sigillato un forziere misterioso completamente vuoto, ha ideato una performance che è durata anni, fino alla sua apertura? O la sua apertura era qualcosa che non sarebbe mai dovuta avvenire, ammazzando l’opera?
E se anche tutto ciò ci ricollega al senso del tempo che come una freccia, scatta solo in avanti e mai indietro; oppure se vogliamo proprio tornare indietro con il pensiero e riprendere fatti biblici come la curiosità di San Tommaso, San Tommaso ci avrebbe creduto anche senza vedere e toccare la ferita, che Cristo era risorto?
Ironia? Provocazione? Non c’entra niente di tutto questo, sebbene il titolo della mia tesi vada a braccetto proprio con la prima. Vi rispondo io, miei cari, è pura genialità.
Questa genialità, così credo io, è figlia di padre coraggio e di madre follia: sennò non si spiegherebbe com’è che Salvador Dalí abbia disegnato un pene gigante nel quadro legandolo alla figura di suo padre e lo abbia fatto a regola d’arte -permettetemi questi giochi di parole-.
E la follia, a sua volta, è anche sorella della conoscenza: quel pene gigante, non era una cosa infondata, dopotutto, ma aveva origini lontane, addirittura alla mitologia, avrebbe detto Freud.
Divago? Oh, no signori, è tutto collegato: la psicologia che porta alla follia, che porta all’ironia, che porta alla provocazione altrui e che porta al medesimo dubbio: ma questa scatoletta di latta, conteneva merda?
Rimane soltanto un elemento certo: che il tutto è parte dalla mente umana.”

L’incipit della mia discussione di laurea stava andando “bene”; o meglio “bene” nei termini previsti e studiati a priori dalla candidata -me medesima- e dalla sua professoressa, nonché relatrice, nonché partner in crime e che per l’occasione chiameremo Kant -come Eva Kant-.
La commissione era in silenzio: alcuni ascoltavano davvero, altri cercavano oggetti non identificati all’interno delle loro borse.
Anche nella platea, composta da: due genitori -appunto i miei-, tre amici -di Palermo- e quattro altri colleghi di questa Unibo che sto per salutare, mi ascoltavano in un silenzio poco assenso, riflettendo solo su un fatto: io non pronuncio mai la parola “merda” né “pene”, specie in pubblico.
In quel clima un poco scomodo, di imbarazzo, in quel clima, diciamocelo teso -sebbene previsto- io continuavo a parlare, appoggiata dallo sguardo sorridente e complice della prof. Kant.
Ripresi:
“Avrei voluto basarmi su tanti artisti, in questo mio sproloquio sulla risatina e sull’ironia: avrei scelto Salvador Dalí, ma con lui ho già dato anni fa. Avrei scelto Duchamp, ma altri, che non sono me, hanno già dato anni fa -mentre io ero impegnata con Dalí-. Avrei scelto Pascali, e de Dominicis, ma, sapete che c’è? Sono morti.
E allora ecco perché ho scelto Cattelan, che è ancora vivo.”
E cominciai a parlare, con tono serio e professionale,  di Cattelan, insigne e irreprensibile artista contemporaneo che, nel corso della sua vita, ha fatto arrabbiare una lunga lista di persone che se la sono presi a ridere, tutti di nascosto.
Forse.
“Cattelan nacque a Padova nel… e morì nel… No, e appunto non morì – e quella era stata l’ansia-.  La sua provocazione è un modo per parlare e farsi sentire dalla società, su temi per niente banali, a sfondo sociale e bla bla bla.
Ma direi di passare ad analizzare proprio Cattelan.”

E lì cominciai a sudare. Generalmente ogni evento importante è organizzato al 100%, ma non il mio, e questo lo sapevo bene. Diciamo che il mio aveva una percentuale di inaspettato che né io, né la Kant potevamo controllare.
Allora guardai la professoressa, lei guardò me, io mi girai ad esaminare rapidamente tutta la platea alle mie spalle; una platea che non stava capendo se io fossi in preda ad un’amnesia dovuta all’ansia -con tanto di commenti sommessi come “poverina, è agitata” che mi arrivavano alle orecchie- dunque, mi rigirai a guardare la prof.
Sí, ero agitata.
E dopo un secondo o forse due ore -ora bene non so-, ecco che la prof. fece segno a una persona in prima fila di alzarsi, quella prima fila dal lato sinistro dove all’ultimo posto c’era seduta una persona che speravo di vedere e che non avevo visto, perché convinta che al momento della mia laurea avrei anche magicamente smesso di essere miope, non indossando gli occhiali.
Si alzò un uomo, o forse un ragazzo, e si mise ai lati della commissione, in modo da farsi vedere anche dalla platea. Era vestito di jeans, maglia blu, scarpe da tennis e con al collo un cartello con scritto a lettere cubitali: “Tesi della candidata”.
Sentii tutti cominciare a sorridere e sghignazzare, poiché si accorsero che sul viso aveva un maschera con sopra stampata la faccia di Maurizio Cattelan. Per questo, dalla platea mi giunsero voci del tipo: “ah ma che simpatica, ha chiamato “Cattelan”.
Dopo qualche momento di ilarità generale che richiamò l’attenzione di tutti i prof., compresi quelli alias esploratori-di-borsette, io mi alzai, mi avvicinai al mio Cattelan e proseguii il mio intervento con il tono più serio possibile, proprio come se stessi per descrivere la solennità del Lacoonte:
“Bene, signori, cominciamo ad esaminare Cattelan.
Cattelan è alto più o meno così” E alzai il braccio fino ad arrivare più o meno ai suoi capelli, mettendomi un poco in punta di piedi e aggiungendo un:”be’, sicuramente è più alto di me”. Risate generali.
“Ha due occhi” continuai io “due occhi e, permettetemi di dirlo, un naso simpatico nel mezzo della faccia, né troppo in alto, né troppo in basso rispetto alla bocca”. Mi girai un attimo alle mie spalle e mi accorsi che intanto entrarono delle persone nell’Aula Magna.
“Ma andiamo ad esaminare la maglia appositamente semi coperta da un cartello per scopi divulgativi e del tutto personali “Tesi della candidata”: è chiaramente una provocazione.” Ci tengo a specificare che quella era una maglia normalissima, senza niente di provocatorio, motivo per cui tutti ridevano.
“Eh no signori, è una provocazione, vi dico io. Perchè questa maglia non è solo una maglia: è il risultato del lavoro disonesto di queste multinazionali di vestiti che sfruttano davvero tantissimi operai nei paesi non europei.” Il clima ritornò serio per un attimo.
“E questi jeans? C’è un sistema dietro che ha reso famosi i jeans, perchè la gente cominciasse a volere e comprare i jeans. Allora i jeans furono pubblicizzati da qualsiasi mass-media, come da qualsiasi rotocalco. “Non sei figo se non hai il jeans, non sei voluto dalle donne se non hai il jeans” questi i messaggi manipolatori. Ed ecco che adesso tutti vogliono il jeans, compresi coloro a cui nemmeno i jeans piacevano. Dunque, signori miei, questo è il motivo per cui la mia Tesi indossa il jeans: per dire che siete pazzi a indossarlo. Non indossatelo!”
In quell’aula, la maggior parte aveva i jeans. A quel punto c’era chi aveva ripreso a ridere e chi rimaneva serio.

“Per concludere e per lasciare andare il nostro Cattelan che non ho potuto impagliare, come lui ha fatto con i suoi cavalli , guardategli le mani.” Mi misi ad indicare le sue mani che erano inerti lungo i fianchi. “Io le chiamerei: “le mani di artista”. Dico, quanta arte hanno prodotto queste mani? Quanta arte, reputata tale, giudicata tale, tanto da rientrare in musei come il Solomon Guggenheim, hanno realizzato? Era pazzo il curatore a fare una personale su di lui? A chiamare dei piccioni, arte? Queste mani hanno generato arte o hanno manipolato la concezione dell’arte? Queste mani hanno creato qualcosa che riesca a spiccare per bellezza o, unite alla sua testa, hanno creato un non-so-ché , il quale rimane più impresso della bellezza stessa? E infine, ce la siamo bevuti tutti?”
Tutti erano in silenzio: la platea, la commissione, il Cattelan che sorrideva sornione attraverso la stampa della sua maschera e a poco anche io, che li avevo inondati di domande il giorno della mia laurea.

Allora la prof. Kant, Eva Kant, approfittò di quell’atmosfera avvolta da un silenzio sospeso e riflessivo per fare una domanda.
Eravamo giunti dunque al momento delle domande.
“Signorina, lei quindi ci sta dicendo che la provocazione dell’artista è un modo per arrivare ovunque. Possiamo definirla una strategia?”
Stavo giusto per rispondere, quando “Cattelan” attirò la mia attenzione ed io mi fermai di colpo. Mi dovevo attenere al piano.
Di conseguenza, rivolta alla commissione, dissi: “Gentili professori, sono qui oggi a presentare la mia tesi, dunque credo e reputo giusto che sia proprio la mia Tesi a dover parlare di sé stessa. Prego Cattelan, ci dica”.
La professoressa, complice ricordiamolo, si rivolse garbatamente a Cattelan e, tra il serio e il faceto, gli porse la stessa domanda: “Signor Cattelan, la sua provocazione è per caso una strategia?”
Dopo un silenzio, come se la maschera ci mettesse del tempo a far arrivare alla testa di chi la indossava quella domanda, ecco la risposta: “Si”. Laconica, rapida, veloce, concisa, completa.
“La ringrazio”, concluse la prof., sorridendo divertita e sicura di quella reazione.
Allora, ecco che un altro professore decise di prendere la parola: “Dunque, sulla base di quello che ha detto, l’artista non parla mai in prima persona, piuttosto è la sua assenza a parlare di lui tramite le sue opere, è corretto?”. Ancora una volta, la risposta era un “sì”, così sicuro, così fermo, così maschile, perché a rispondere fu nuovamente lui. Intanto da dietro si sentivano delle risate e dei commenti allegri su quei sì perentori e beffeggiatori, come a voler dire che quei professori – i miei- con le loro domande da copione per via di un momento solenne, lo stavano quasi disturbando, importunando, toccando nel privato. Un privato che in quel momento stava rendendo volutamente pubblico a modo suo, quel “Cattelan”.
“Grazie, Cattelan”, il professore che se la rideva, anche lui. Era soddisfatto.
Ci furono altre domande che i professori fecero, un pò divertiti, un pò seri, tutte rivolte alla mia Tesi, tanto per sapere come questa -o questi- avrebbe risposto e se mai avesse detto qualche no.
Era diventato un interrogatorio, dunque, ma anche questo io e Kant, l’avevamo previsto insieme a quel Cattelan che dopotutto era a suo agio, in quell’atteggiamento alla De Domincis.
“Passiamo all’ultima domanda”, disse un’altra professoressa “e questa volta è rivolta esclusivamente alla candidata. ” E intanto mi rivolgeva un sorriso del tipo “guarda che non scampi alle domande della commissione”. “Vorrei sapere, secondo lei, a proposito di Manzoni, perchè allora la sua opera si definisce arte, nonostante il suo contenuto può non essere quel che dice di essere. Nonostante, cioè, la scatoletta non sia mai stata aperta  e quindi non sappiamo ciò che si trova al suo interno.”
Ci pensai un attimo, era una domanda serissima e io, strano a dirsi, fin dall’inizio di quella laurea ero più seria che mai. Perciò riordinai le idee e risposi.
“Se consideriamo l’arte come qualcosa legata solamente alla bellezza estetica, allora, dal mio punto di vista, sicuramente né la scatoletta di Manzoni e neppure il suo contenuto (qualunque esso sia) si potrebbero definire arte. Eppure, se noi ci troviamo davanti a quella scatoletta da lui firmata tantissimi anni fa; una scatoletta che ha fatto parlare di sé negli anni, tanto da continuare a parlarne oggi, in questa stanza di questa illustre università, durante una sessione di laurea, qualcosa di fuori dagli schemi, questa scatoletta ce l’ha.
Mi spiego meglio: quanto è stato lungimirante Charles Saatchi a creare la mostra con gli artisti della YBAs e a chiamarla Sensation? Dopotutto, molte di quelle opere hanno lasciato sconvolta non solo la Gran Bretagna, ma anche l’America, tanto da voler togliere i fondi al Brooklyn Museum che l’aveva ospitata.
Dunque, cosa traiamo da tutto questo? Non è forse l’arte a farci vedere il mondo filtrato attraverso occhi diversi? Non è forse l’arte quel velo di Maya che, se scostato, mostra la realtà nuda e cruda -o meno cruda, dipende dallo stile degli artisti- di come la creazione artistica ce la presenta? Non è forse arte, un semplice gabinetto capovolto e defunzionalizzato, che peraltro è stato definito pure tale da menti con più fosforo della mia? E non è forse arte, proprio quell’arte di percepire quelle sensazioni: piacevoli, non piacevoli, di ironia, di rabbia, e sentire come ci pervadono, ci meravigliano tanto da farci dimenticare per un attimo il luogo e il momento in cui ci troviamo?
Per concludere citerò una frase trovata in quel luogo, centro della divulgazione mondiale di idee geniali e minchiate – quale internet-“. E subito mi rivolsi al Cattelan: “mi perdoni, signor Cattelan, per il mio francesismo” e fortunatamente tutti risero. Dopo di ciò proseguii: “E la frase recitava: “Lei non era bellissima, era come arte. E l’arte non deve essere bellissima, deve farti provare qualcosa.”. Io e tutti coloro che hanno tramandato fino a noi quella “scatoletta di merda”, abbiamo provato qualcosa, seguendo la poiesis dell’artista. E se questa idea “creata” da Manzoni, era di fare tante scatolette chiuse, firmarle e lasciare con esse una legge non scritta che sanciva di non aprirle, questo in sé, racchiude i caratteri della creazione artistica.
Come questo Cattelan dal volto coperto proprio da Cattelan. ” Dissi, rivolgendomi al mio prigioniero, ormai dopo quattro ore di discorsi e indicando la sua maschera.
“Perchè voi non potete sapere se qui dietro c’è il vero Cattelan oppure no, e saperlo smorzerebbe in voi quello che sentite adesso: dubbio, curiosità, magia. E renderebbe quello che è stata tutta la mia performance, una banalissima discussione di tesi magistrale.”
A queste mie parole, la sessione di laurea si era finalmente conclusa, tra due risatine, uno mezzo applauso -di mia madre- e sul retro uno sbadiglio camuffato. I professori andarono sul retro a deliberare e tornarono con il mio voto -un dato che qui non ci interessa divulgare per non peccare di tracotanza-.
Dopo essere stata nominata -per i loro poteri conferiti- nuovamente dottoressa, durante gli applausi di una stanza che si era andata riempiendo man mano che io facevo una delle sessione di laurea più strambe che avessi mai pensato di fare, “Cattelan” si alzò, ritornò nuovamente al centro della stanza, sollevò la maschera per mostrare il suo vero volto e…

Ed era lui o non era lui? Non lo sapremo mai, ma, almeno per oggi, concentriamoci su questo racconto aperto e fingiamo giusto per un attimo
che sia arte.

Racconti

No

Orfeo,
non ti è permesso voltarti indietro.
Siete liberi, potete andare, ma non la devi guardare.
Comprendi?

Ti fidi, Orfeo?
Euridice è dietro di te,
ti tiene la mano e segue il tuo piede fino alla luce.
Ma tu frena la tentazione e bada a non voltarti,
sennò l’Ade la richiama a se’
e io, Persefone,
non permetterò un secondo lasciapassare.

Orfeo,
pensa al futuro,
alla tua musica,
all’amore che ti ha condotto da solo tanto in basso
per permettervi di risalire in due così in alto.
E tu, immaginati già lí; la metà che ritorna ad essere intero,
nuovamente insieme ad assaporare la fresca rugiada del mattino
come se la notte non fosse mai calata su di voi.

Eppure, tutto ha un costo, perfino nell’aldilà.
Non girarti Orfeo.
Se vuoi vivere in quel futuro che hai assaporato con il tuo sguardo interiore,
non voltarti.
Un sacrificio in più, un piccolo passo ancora e i raggi del sole torneranno ad accarezzarvi le braccia infreddolite.
Non temere l’incertezza, non basarti sugli occhi, sulle orecchie, sui sensi.
Ascolta al di là delle tue percezioni da umano,
perché una volta disceso negli Inferi, sei simile a un dio che è risorto
e, come tale, devi trascendere le tue false sensazioni.

Non ti voltare, Orfeo.
Ti fidi?
Di me, di te, di lei,
ti fidi?
Non voltarti, Orfeo.
Ti fidi?
È Euridice, Orfeo.
Ti fidi?

Racconti, Racconti & Poesie

Are you ready to jump?

-“E quindi ti ha lasciato?”
-” Sí.”, dissi piangendo e con una voce rotta che cambiò il tono della nostra videochiamata.
G. si mise comoda sulla sedia e, mentre sistemava meglio lo schermo del computer per mettere a fuoco la sua faccia, fece un respiro profondo: “E quindi il tuo amore tossico ti ha lasciata.”
-“Sí, ti ripeto, sì”.
-“Di nuovo. A quante volte siamo? Cinque in quest’anno?”
-“No, soltanto tre.”
-“Tre perché fortunatamente c’è stata la quarantena. Sennò sarebbero state cinque”.
-“Per una volta, smetti di essere sarcastica?”.
-“E no. Alla prima volta potevo essere dispiaciuta per te, alla seconda potevo perfino essere seria, ma dalla terza in poi, capisci bene, che il tutto è ridicolo. Nemmeno avessi sedici anni.”.
-“Smettila”, dissi sempre piangendo “e poi, a sedici anni ero ancora una ragazzina felice. Lo sono stata inconsciamente per tanti anni, prima di incontrare questo…”
-“…Questo stronzo. Eh sì, la solita tiritera. Che lui è insensibile, che è uno stronzo, che ti ha sempre fatto soffrire, che è falso, che non ci tiene. E giustamente, con tutte queste “qualità”, ti sembrava coerente andargli dietro così a lungo.” G. non ne poteva più di sentire ogni volta gli stessi discorsi, e questo sentimento arrivava chiaro e forte, anche a tante regioni di distanza.
– ” Sí, ma stavolta è definitivo. Ma lo capisci che dopo tanti anni fa male? Ci si affeziona ai personaggi di una serie tv, ai gattini di Instagram, perfino al figlio di Chiara Ferragni che non ho mai visto dal vivo. Pensa come devo stare io che non potrò vedere e né sentire più tutti i giorni la persona che ho amato così tanto!”.
-“E sai che perdita! Non vedere, né sentire un ragazzo che ti fa dubitare di te stessa ad ogni passo. Una persona con cui devi stare attenta alle cose che dici, a quelle che fai, magari anche a quello che pensi perché lui le capta, lui le presagisce. Poi, magari, queste dimostrazioni di telepatia si dimostrano pure errate e ti ritrovi a chiedere scusa per cose che non hai nemmeno pensato, per persone -ragazzi- che non hai mai guardato, per parole che non hai mai detto. Ma poi ti senti? Lo hai appena paragonato ai gattini di Instagram! Ascolta me, tu ne sei già fuori da un pezzo -sentimentalmente parlando-, è che adesso ne sei soltanto ossessionata. Eppure, ti assicuro che anche l’ossessione, con il tempo, va via.”.
Io annuii; come potevo dare torto alla mia coscienza, la quale, in questo caso, aveva preso le sembianze di una mia amica. Asciugai le lacrime, mi alzai dal letto per mettermi a camminare nella stanza -sempre attenta a non dare le spalle al monitor- poi ripresi a parlare. “Sí, razionalmente hai ragione e io odio avere questi momenti in cui perdo lucidità. Eppure, ad ora è come se fossi solo cuore, non posso non pensare che vorrei abbracciarlo.”
– “Ti assicuro che sei in parte ormoni: la conosco bene quella voglia di “abbracciare” un ex”.

Ex. Otto anni di relazione, sette viaggi fatti insieme, due genitori conosciuti, un trasferimento in un’altra città e qualche mese di convivenza. Eppure, alla fine di questa scalinata non c’era un anello ad aspettarci, ma quella unica e breve parola: Ex. Bam! Porta in faccia.  Da questa corsa non si usciva vittoriosi, ma con un’etichetta che ti riportava alla solitudine.
-“Forse hai ragione, ma io senza lui, mi sento spenta.” Stavo per iniziare nuovamente a piangere.
-“Ci credo che ti senti spenta. Lui ti ha cominciato a risucchiare le tue energie fin dal vostro primo anno insieme; fin da quando -e cito-: “vabbè è perché ancora non mi conosce bene”. Eh, no, sbagliato! Perché alla fine della festa non è stato lui a migliorare, a crescere, ad aprirsi, a conoscerti, ma sei stata tu a ridurti, rimpicciolirti, reprimerti. Tanto che quello che era rimasto della tua vecchia te, ha lasciato il posto a una ragazza che non è altro che la sua strana visione dell’amore e del mondo.”
-” E cioè? Come sarei?”, mi fermai e mi risedetti sul letto: temevo quella risposta.
-“La sua visione malata dell’amore ti ha trasformato paradossalmente in un bruco, invece di renderti una farfalla.”

Facemmo una pausa: la consapevolezza di quelle parole mi aveva schiaffeggiato in pieno viso. Tuttavia, con tono più affabile, probabilmente dipeso dall’espressione distrutta del mio volto, G. continuò: “Devi ritrovare i tuoi colori, amica mia!”. E mi mandò in chat l’emoticon di un abbraccio. “Se un tempo eri una farfalla, allora ti assicuro che quella farfalla è ancora da qualche parte dentro di te”.
Io mi guardai le gambe, come se stupidamente fossero il punto in cui avrei ritrovato le ali. G. riprese a parlare: “Tu eri vita, solarità, spuma. La tua arte, la tua pittura, ti rendevano te stessa e facevano sì che tutti si interessassero a te e al tuo carisma, compreso lui; compreso quindi il più grande dei narcisisti paraculo nati su questa terra”.
Io sorrisi non solo per quella descrizione, ma anche perché quell’immagine di me così lontano tornava piano ad affacciarsi da qualche finestra dei ricordi.
-“Riprova a dipingere. Siediti sulla sedia più comoda che hai, prendi una matita, poi traccia su un foglio le basi di qualsiasi cosa tu abbia dentro di inespresso e, infine, aggiungici i colori. E una volta fatto, applica ciò alla tua vita: è così che devi ricominciare, ma da subito!”.
Io non mi sentivo più capace di fare quanto aveva detto con tanta facilità; anzi, era come se non mi sentissi più capace di essere quella che ero un tempo, come se quella ragazza fosse un’altra, come se non fossi mai stata io. Dopotutto, erano passati secoli da quando andavo in giro con leggerezza e vitalità, e da allora, io avevo perso anni importanti della mia giovinezza e mi sentivo stanca e invecchiata dentro.

E poi, questo che significava? Che quegli anni, li avrei dovuti recuperare?
Ma come avrei fatto? Ritrovarmi single a trent’anni e senza un lavoro, era senza dubbio un fallimento. Io ero un fallimento.
-“Smettila di guardare in basso con sguardo colpevole. Pensi che nella vita tutti vadano sempre a mille? Che la ruota non giri e rimanga bloccata? Che il tuo destino non ti spinga, a poco a poco, esattamente dove devi essere? Sapevi già da tempo che sarebbe finita con lui, per non parlare del fatto che eri tu stessa a volerlo perché sapevi che potevi ambire a molto di più per te stessa
. E adesso che succede? Invece di sentire che finalmente si rompono quelle famose catene che ti serravano il polso, ti rinchiudi in te stessa, costruendoti una prigione volontaria?”

-“Non è vero” la interruppi bruscamente, sebbene sapessi che voleva solo stuzzicarmi. “Io so rialzarmi e se voglio riprendermi in mano la mia vita, posso farlo in ogni momento.”
-“E allora perché non me lo dimostri?”, il suo tono era di sfida.
-“Levati quel sorrisino, la fai facile te.” Mi alzai nuovamente e ripresi a camminare: “Tu la fai facile: io sono lontana da casa, lontana dai miei genitori, lontana da te e dalle altre. Voi avete modo di riunirvi e scambiarvi un abbraccio, io al massimo posso chiedervi la cortesia di vederci in webcam finché qualcuna non deve andare a cena.
Non ho un lavoro, passo le giornate a cercarmelo, mentre voi tra lo smartworking e il negozio, avete la vostra parte di strada quotidiana da percorrere per raggiungere i vostri obiettivi. E io vi vedo, e sono orgogliosa delle mie amiche e del vostro costruirvi un futuro, crescere, evolvervi. Eppure, ciò non fa che aumentare il divario tra di noi”.
-“E quindi mi vuoi dire che il divario non c’è, soltanto se tu hai un ragazzo?” Eccola, una delle domande-trabocchetto tipiche di G.
Dato che non risposi, lei proseguí: “Secondo te, noi stiamo crescendo perché siamo fidanzate o perché abbiamo un lavoro? Scusami eh, e poi quale divario? Tu hai perso quel lavoro perché l’Italia intera è entrata in lockdown. Ma intanto, se non sbaglio, stavi avanzando di livello ed eri contenta di ciò che facevi. Non mi risulta che non fossi qualificata per il tuo ruolo. Ok, magari come ambiente non era il massimo e tu eri appena entrata, eppure eri contenta di essere finalmente definita una Content Creator per quell’azienda. No, ma attenzione, perché, a causa del tuo imminente vittimismo da “piccola fiammiferaia” delle 19:37 di sera – e che ti ha inculcato Chi-So-Io-, saresti pure capace di dire che il Covid è stata tutta colpa tua. Quindi, già hai detto la prima cavolata.
Ma, a che ci siamo, passiamo anche alla seconda: se per te, il divario che ci divide è che fatturiamo oppure il fatto che la maggior parte di noi è fidanzata, ti ricordo dell’esistenza di quegli elementi del nostro gruppo che hanno brillato di più, specie da quando erano single. Perché non dovresti esserci tu nella lista aggiornata al 2020?
Qui l’unico divario che esiste è fisico: che noi siamo qui e che tu sei lì. E con la tecnologia che ci tiene in contatto, non è neanche tutta questa tragedia. Perciò, questo è l’unico fattore reale a separarci; perché, per il resto, lui avrà pure spezzato il tuo cuore, ma fortunatamente non ha danneggiato irreparabilmente il tuo cervello, che a questo punto deve essere soltanto resettato!”

G. fece una pausa intanto per calmarsi, poiché quei discorsi, frutto di un’insicurezza generata dagli otto anni della mia relazione tossica, erano sbagliati; e poi perché, forse forse, le stava per balenare in testa una soluzione a cui in verità aveva già cominciato a pensare da tempo.
-“Tu credi che essere single significhi sentirsi soli? Ricordi che prima di trovare il mio ragazzo, sono stata sola per sette anni? E che ho fatto nel frattempo?  Secondo te, mi sono fermata credendo che “senza il principe che mi salva, allora non sono una principessa”?
-“No” risposi io, che nel mentre rivivevo come un flashback nella mia testa, l’altalena delle sue fortune.
-“No, bravissima. All’inizio ho pianto -vero- e poi successe che, ad un certo numero di lacrime, ho detto che era anche il momento di finirla. Mi sono alzata dal pavimento della mia stanza dove mi ero rannicchiata per lamentarmi della vita, sai, proprio con il tuo stesso modo di fare da vittima che mi stai riproponendo così bene. Poi sono andata alla scrivania, ho acceso il pc e ho cominciato a cercare un’idea che confutasse quella assurda necessità di dover essere per forza una principessa in questa società.  All’inizio non sapevo bene cosa stessi cercando, forse un hobby, forse un lavoro, insomma qualcosa in cui impegnarmi. E poi, ti ricordi che è successo?”
-“Ti sei iscritta in palestra”, suggerii.
-“Bravissima. Io che ero l’antisport, mi sono iscritta in palestra e ho perso i miei famosi venti chili.”
Io intanto rimanevo in silenzio: l’esempio da seguire, avevo la fortuna di considerarlo una delle mie più care amiche e stupidamente, prima di quel momento, non ci avevo mai pensato.
-“E poi? E poi mi sono creata il mio giro, e quelli della mia palestra diventarono come una seconda famiglia. Aumentò la mia autostima e intanto andava aumentando anche la stima degli altri nei miei riguardi. E te la ricordi la faccia del mio ex quando tornò da me, chiedendomi perché non mi fossi comportata in quel modo anche quando stavamo insieme? E fu lì che ho avuto una delle soddisfazioni più grandi della vita, dicendogli che era proprio perché stavo con lui che non sarei mai potuta essere quella che poi sono diventata una volta senza di lui.
Alla fine, sappiamo bene come si è sviluppata la faccenda: che da quello che nacque come un hobby salvavita, ne derivò il mio lavoro. E quando tutte le cose cominciarono ad andare da sé, come spinte da un vento favorevole -nonostante qualche errore umano per ricalcolare la rotta- un giorno di primavera il mio ragazzo entrò in palestra. E io lo aspettavo? Lo volevo? Ma soprattutto, ne avevo bisogno?”
-“No. Tu con la tua forza non ne avevi minimamente bisogno”.
-“Esattamente, scimunita che non sei altro. Come ti ricordo anche che il mio negozio l’ho messo su ancor prima di lui.
Quindi, per farla breve: io non voglio mica sentirmi l’eroina scesa in terra per salvare l’umanità o sentirsi migliore di tutti, ma semplicemente ti sto dicendo che se ci sono riuscita io, dopo quanto mi hai vista soffrire, perché non dovresti riuscirci tu che sei e rimarrai sempre una farfalla a cui un tempo piaceva volare?”

Mi batteva il cuore come se mi avessero iniettato dell’adrenalina.
Forse G. aveva ragione: probabilmente da sola, sarei riuscita a splendere, a esprimermi a mio modo, a tirare fuori la grinta e le mie ali. Tanto, ormai, chi mi frenava più? La guardai, rivolgendole finalmente un sorriso che lei ricambiò pienamente, e la sentii vicina, nonostante fossimo separate da due monitor e tanti chilometri di distanza.

-“Ad ogni modo, sto pensando che io ho proprio quello che fa al caso tuo.”
-“Di che parli?”, ero insospettita.
-“Sai perfettamente cosa succederà in questa fase della tua vita. Adesso sei più tranquilla, ma quando chiuderemo il telefono e si farà notte, tu tornerai a pensarci e ripensarci, alimentando l’ossessione. Allora è lì che ti devi ripetere che non è lui a mancarti, ma l’idea di amore che lui ti suscitava, seppur distorta. E finché il tempo non ti metterà accanto qualcuno che ti sappia ricambiare un amore sano e che tu meriti – perché te lo meriti-, allora comincia ad occupare la tua mente in attività da cui puoi trarre qualcosa di concreto.”
-“Cosa intendi? Tornare a dipingere, dici?”.
Lei mi guardò fissa per un attimo e poi mi disse: “Dico di collaborare con me.” Poi si fermò e finì il suo pensiero: “Oltre che tornare a dipingere, ovviamente.”
Io mi sarei aspettata di tutto, fuorché quella proposta. “Ma in che senso? Dimentichi il divario diatopico del quale ci siamo lamentate entrambe?”.
-“No, che non lo dimentico. E nonostante ciò, io ti sto facendo questa seduta terapeutica, con tutto che non siamo nella stessa città e con tutto che io non sono una psicologa, soprattutto.”

Io risi, abbassando il viso timidamente. “Hai ragione, ma sei tanto brava. Ad ogni modo, vorrei davvero capire cosa mi stai proponendo.”
-“Mi sto appellando alla Content Creator che c’è in te; mi sto appellando alla tua capacità di inventiva che non si è mai assopita in questi anni e alla tua abilità di usare quel mondo a me sconosciuto dei social e di Canva. Insomma, diventa la mia Social Media Manager.” E nel dire questa frase, allargò le braccia a mo’ di “vieni a casa”, seppur solo con il pensiero.
-” Io, la tua Social Media Manager? Ma sai perfettamente che ancora non sono molto pratica e che vado a braccio. E poi non credere che sia così brava.”
-“Aridaje, qui il gattino di Instagram spaventato sei tu. Guarda, io ti propongo di saltare e tu te la fai sotto. Insomma, salta sulla mia barca; tanto conosci me e conosci la barca. Inoltre, qui, il Capitano -che sarei io-, conosce te e le tue paturnie, ed è nonostante quelle tue paturnie, che ti vuole a bordo. Questo è l’amore! Impara, amica mia!”

Sebbene fossi lusingata, ero davvero impaurita; non volevo deludere nessuno, soprattutto lei. Tuttavia, dopo quella conversazione terapeutica con un’amica che era più una sorella -e che in quel momento mi stava dando sia la sua mano che tutto il braccio-, a quel punto ero io a non voler deludere più nemmeno me stessa.
-“Oh, ci sei? Dimmi qualcosa. Guarda che se non te la senti, io lo capisco. Poi però chiudo la videochiamata e ti prendo a male parole per messaggio. Eppure sappi che, cioè, io ti capisco.”
Feci un respiro profondo per prepararmi a saltare.
Allora ricambiai lo sguardo serio di prima e poi saltai: “Va bene, ma sappi che non avrò chissà quante e quali idee. Inoltre, ricordati che non conosco bene il ramo del fitness e quindi, sappi che non so quanto potrò essere creativa.”
-“C’è altro?” disse G., fingendo di sbuffare e alzare gli occhi al cielo.

Ci pensai un attimo:”Sí. Che farò mille errori, sicuramenteTienilo in conto, cioè io ti ho avvisata e a quel punto, se accadrà, ricordati che non puoi prendertela con me.”
-“Bene”, G. si rimise dritta sulla sedia e con uno sguardo acceso, concluse: “questo vorrà dire che saremo sulla strada giusta per trovare la vetta. Insieme”.
Una mezzoretta dopo chiudemmo la chiamata: io ero esausta e piena di dubbi, eppure quella notte dormii stranamente bene.

– Un mese dopo-

-“Buongiorno, mia cara! Allora, il programma della settimana è pronto. Ricordati che pubblicherò questi file che ti sto mandando agli orari che troverai nel Pdf che ti ho inviato ieri notte…”.
Intanto G, di tutta quella frase detta d’un fiato, capì soltanto la parola Pdf, senza nemmeno saperla inserire all’interno del contesto. Riuscì a scandire a malapena qualche parola, mentre si rigirava nel letto: “Ma sono le otto del mattino, come fai ad essere così carica?”.
-“E che ti devo dire, sarà questa marca di caffè che bevo. Insomma, mi ascolti? Abbiamo ottenuto trecento nuovi followers in un mese! Il piano editoriale che ti ho scritto, funziona!”
G. intanto si sistemò meglio il cuscino sotto la testa: “Ed è una cosa stupenda, ma adesso per favore, parla più lentamente e dammi il tempo di svegliarmi. Non sono mica una Staca come te.”
É vero, andavo a mille e avevo energie da vendere; una sensazione ritrovata e, per questo, bellissima. Tuttavia, a quelle parole, rallentai quasi un attimo per capirne meglio il senso: “Una Staca?”.
-“Staca, Stacanovista.” G. riuscì a balbettare, alzandosi finalmente dal letto, mentre si toccava i capelli arruffati.
-“Beh, colpa tua” ripresi lentamente “che quando un mese fa avevo bisogno di specchiarmi e vedere il mio riflesso, invece di rimandarmi l’immagine di una fallita, sei riuscita a far sì che tornassi a credere nuovamente in me stessa. Per cui, in quanto tua Manager, ti dico che ti devi svegliare e andare a fatturare!”.
Così, ripresi a muovermi da un punto all’altro della cucina, e mentre posavo la tazzina del caffè nel lavandino, intanto finivo di riorganizzare nel mio telefono i post da pubblicare di lì a poco, con G. ancora in vivavoce.
-“Sticazzi, Staca. Ho creato un mostro”. G. aprì le serrande della finestra della sua camera da letto: il cielo era sereno nella sua città.

E non chissà quanto lontano da lei, anche il mio cielo era sereno quella mattina. Sebbene avessi chiuso la chiamata, non mi sentivo più così lontana dalla mia terra, così a sud dal posto in cui mi trovavo, poiché da circa un mese tornai a sentirmi di nuovo sotto un unico tetto che mi univa a quelli che erano i miei veri affetti stabili. E con loro, potei sentirmi vicina anche alla mia amica, che da questa quarantena, tornò ad essere mia collega; sebbene adesso con un’accezione diversa, rispetto a quando ci conoscemmo all’università.
No, che non mi sentivo sola, guardai fuori dalla finestra e il giardino di maggio rifletteva i suoi colori nei miei occhi. I colori, quei colori, li stavo finalmente introiettando in me; tornavo a sentire nuovamente le ali sbattere da qualche punto del mio petto e spingere le mie gambe a muoversi a ritmo di musiche allegre.
Poi ad un tratto vidi una coppia che passeggiava nella via: il ragazzo aveva la stessa maglietta che io regalai a…
Mi fermai, chiusi gli occhi e immaginai la vetta: step by step. Il primo obiettivo era quello di far raggiungere molti followers a G., così che potessero conoscere il suo negozio. Quindi, fare un buon lavoro e ricambiare un giorno, quell’enorme aiuto che la mia amica aveva dato a me, impegnandomi a diventare brava nel mio mestiere.

Fu lo squillo di un messaggio a distogliermi bruscamente dai miei pensieri e farmi tornare alla realtà.
“Allora, pubblichiamo?” Era G. che evidentemente era risorta.
Andai sull’account Instagram di Body Store Giulia Sirchia , poi cliccai “Nuovo contenuto”; scelsi la foto che avevo già editato giorni prima -un arcobaleno di colori-, così aggiunsi gli hashtag, il luogo e la didascalia.
Mi chiedeva di premere ok, di confermare, di saltare ancora una volta.

“Ok”, dissi ad alta voce. In sottofondo, alla radio passava “Jump” di Madonna.
Accettai il consiglio.
E così saltai ancora una volta.