Pensieri della sera che magari non parlano sempre di amore

Scorrere

Come ogni mattina:
ho salutato chi ero ieri, mi sono avvicinata alla persona che sono oggi e mi incuriosisco su chi sarò domani.
Sono in costante evoluzione, vivendo immersa nel flusso del mondo: un panta rei di pensieri, persone ed eventi che scorrono veloci davanti a me.
Dal finestrino di questo treno invisibile, supero stazioni, campi, case popolate da gente che si muove come tanti atomi confusi. Magari mi fermo momentaneamente in qualche luogo a me sconosciuto, e vedo gente anonima in attesa del treno giusto, mentre il mio intanto riprende a correre.

Chissà quante volte, agli occhi altrui, sono stata io una di quelle facce anonime, incerte sul salire o meno. Chissà cosa mi direi, se mi vedessi lì, in piedi e titubante davanti alle porte aperte di un treno soggiogato da un conto alla rovescia tanto rapido che, in men che non si dica, lo avrà già fatto andare via per sempre.
Se ci penso, un treno è un po’ come Paganini: non ripete; non si ripete.
Chissà cosa avrebbe fatto un mio possibile alterego, in quell’occasione: sarebbe salita o avrebbe aspettato ancora, in eterno, la chimera del momento “giusto” che tale, non sarà mai?Forse il momento diventa propizio, proprio quando lo si coglie. E finché nessuno prende in mano la valigia del coraggio, tutti gli attimi non colti sono soltanto momenti neutri, in potenza, che assumono il loro colore solo quando vengono sfruttati.
Ma in fin dei conti, ad oggi la penso così: io che sono salita sul treno e da qui, vedo scorrere il panorama dal finestrino, rimango comunque contenta della decisione che ho preso. Ogni scelta comporta una perdita, e sebbene questo treno non mi abbia portato dove speravo, rimane l’incognita e la speranza sul dove mi porterà.
Che non posso prevedere ogni cosa nella vita, sennò quello sarebbe un romanzo già scritto da qualcun altro, e che a volte devo solo lasciarmi trasportare da un treno in corsa, che -ironia- magari prima avevo pure scambiato per qualche altro. Dunque, oggi, in questo giorno del presente, sono convinta che la parte più importante e titanica del viaggio è il salire: salire quei gradini, superare le porte scorrevoli, andare al proprio posto e sedersi. Poiché fatto questo, non sono già più chi ero e così mi apro davvero a tutte le possibilità di chi potrei essere e di chi sarò. Certo, non so a quale stazione scenderò ancora, ma so che se non si tratterà del posto adatto a me, potrò pur sempre ripartire.
Quel che è sicuro, tuttavia, è soltanto ciò che ho lasciato alle mie spalle: la stazione che mi ha vista andare via era alla pari di un porto sicuro che, suo malgrado, non mi avrebbe mai dato la possibilità di evolvermi, specie quando il vento, nuovamente, mi spingeva ad andare.
Magari domani non la penserò così, o chissà che non rimanga invariata e uguale a me stessa, eppure non importa: che ad oggi, in questo lucido presente, voglio osannare un verbo che, con il senno di poi, aggiusta sempre ogni cosa: “scorrere”. “Rei“.

“Scorre-rei”, lo faccio, lo faccio: e allora “scorro” come il treno su cui fortunatamente sono salita.

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Andare

Apri la porta,
lascia indietro il superfluo.
Cammina, respira
sali sul primo aereo.
Non pensare a niente.
Sali sul primo aereo
e ritrovati.

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Il giardino francese

In un tempo lontano,
in un’epoca di merletti e balli da favola,
c’ero io, con il mio vestito lungo ed il solito libro in mano, che passeggiavo tra i roseti del giardino francese.
E come ogni volta, tu spuntavi fuori dal cespuglio dietro la fontana con una rosa; con quella faccia buffa e una spada troppo seria appoggiata alla tua gamba.
Se libri e spade fossero stati amanti fedeli, le guerre sarebbero esistite solo tra le loro pagine.
Ma le battaglie erano reali, quanto lo eravamo noi; e se quella spada ti ha portato via da quel lontano 1780, il tempo non ha mai cancellato il tuo ricordo, impresso ancora per i sentieri di quel giardino francese.

Pensiero e sentimento

Con il coraggio in valigia

Ogni volta lasciare quella macchina è dura; ci sono mille cose da fare insieme.
Sorridere, rimanere serena, prendere la valigia, il borsone, il tuo coraggio, scendere rapidamente e richiudere lo sportello dietro di te, come quando i tuoi ti davano uno strappo a scuola.
Solo che quella non era più l’entrata principale che vi separava per qualche ora; si trattava di un aeroporto che ti conduceva a un’altra città, di un altro paese magari e che vi separava per altri mesi.
Ancora quell’aeroporto, ancora quello scappare senza voltarti perché comunque c’è: il solito nodo in gola, c’è.
Poi succede che si aprono le porte scorrevoli e appena sei dentro, cambi testa. Torni di nuovo la ragazza indipendente, quella munita di forza, speranza, volontà, anche ironia e qualche vestito.
Soltanto la fila del metal detector ti riporta al momento in cui sei davvero: stai lasciando ancora una volta la tua città e lo fai come se fosse sempre la prima. E proprio quando sta per toccare a te spogliarti e passare i controlli, ringrazi, nonostante il desiderio costante, di non averci pure l’amore in quella città.
Perché un fuggi fuggi da mamma e papà è difficile, ma si fa: loro sono il nido da cui la vita ti fa staccare, quello che sarà con te, impresso nei tuoi occhi, ovunque andrai, tanto che sembra che avessero sempre vissuto con te.
Ma l’amore, l’altra metà del cuore; quelle braccia e due occhi tristi che vedono andartene via e che vedi allontanarsi, fino a non poterli più mettere a fuoco. Quello non credo che avresti… che avrei mai potuto sopportarlo.
Ogni cosa che non ho avuto, ha lasciato posto per altro.
Ed io sono certa che avrò due braccia che mi attenderanno agli arrivi, agli arrivi della mia metà – meta definitiva.

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L’albergo sul mare

Da quella stanza dell’albergo si sentiva il rumore del mare.
Era come un tuffo nell’infanzia; uno sguardo sereno volto all’indietro a quei viaggi che faceva da bambina, quando ancora sua madre e suo padre le facevano fare “vola vola”.
E dopo quasi una vita assaporava, di nuovo, quella sensazione che aveva conservato fino a tutti quegli anni, sentendola uguale e diversa nello stesso tempo.
Ma, in quel momento, il suo pensiero cambiò di direzione, non arrestandosi semplicemente alla porta chiusa a chiave di quella camera di albergo. Superò la serranda abbassata, arrivò al balconcino e lo scavalcò.
Di lì a poco, lei poteva già sentire la sabbia sotto di sé, che, a pochi metri più in là, si faceva sempre più umida fino a toccarlo: il mare.
Soltanto chi si trovava a passare di lì, a quell’ora tarda della notte che stava per scambiarsi con il giorno, poteva intravedere la sagoma di una ragazza a piedi nudi sulla riva, seguita dalla danza con il vento dei suoi capelli scuri, sciolti e quella gonna lunga e chiara che le faceva da strascico e da scia.
Un ragazzo era seduto sulla sabbia e osservava il mare. C’erano delle orme che la conducevano a lui.
Bastò un breve sguardo che il cuore le si fermò per un istante e non per paura;  avrebbe riconosciuto quella sagoma tra mille, sebbene a distanza di anni di silenzio. Lui alzò gli occhi e la riconobbe.
Lei gli si avvicinò, lasciando che fossero solo le onde a cantare, e gli si sedette accanto, a fissare il mare. Entrambi sapevano che ogni parola avrebbe rovinato il miracolo di quel momento che li fece ricondurre l’uno accanto all’altra, attratti dal richiamo delle onde. Nel mentre, insieme davano le spalle a tutti quegli anni passati che sapevano di vite vuote, come lontane, in un punto sperduto di un mare profondo e sterminato. E loro, accarezzati dalle prime luci dell’alba, guardando il riflesso del sole nascente sull’acqua, che, timida, si avvicinava per toccarli, si presero per mano, mentre quel silenzio che sapeva di musica e di vento e di mare li isolava dal resto del mondo.
Non servì altro per capire che quell’alba era la loro.
Fu in quel momento che il pensiero ritornò a lei, ancora distesa sul letto che sapeva di onde, di quell’albergo sul mare. Aprì la serranda, per vederla davvero quella distesa di blu con punte di bianco. Distrattamente, con la brezza marina che le accarezzava le guance, si mise a cercare con lo sguardo appena tre delle cose che richiamavano il suo viaggio ad occhi chiusi di quella notte e le trovò: le onde, l’alba e, dopo tanto tempo, lui.

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Il punto sulla spiaggia

Oggi il cielo era meraviglioso.
Ero proprio lì, nel punto in cui quel giorno, con aria buffa, mi hai chiesto di andare a vivere insieme con la stessa facilità con cui si chiede alla propria ragazza se preferisce una margherita o una quattro stagioni.
E tu eri lì che mi guardavi inebetito mentre io scoppiavo a ridere come una matta.
Chissà che avranno pensato quei due che erano mano nella mano, vedendo un pazzo che mi chiedeva di convivere ed un’altra folle che accettava a suon di risate.
Se solo avessero saputo che genere di conversazione c’era in corso, saremmo stati il loro argomento di dialogo per i prossimi appuntamenti.
E quindi io stavo lì, sempre in quel punto in cui mi rotolavo sulla sabbia per le risate e dove poi correvo a piedi scalzi verso il mare; proprio nel momento in cui decidevi che quella doveva essere una gara a chi toccava prima l’acqua.
Che buffa la scena di noi due, poveri pazzi – pazzi d’amore – che tentavamo di sopportare il freddo di novembre in una corsa folle verso il bagnasciuga.
E ci vedo ancora, tu che prima di entrare in acqua cambi idea e torni indietro per frenarmi in un abbraccio, ma poi mi lasci e mi guardi.
Ed io che, ancora a distanza di anni, ripasso dallo stesso pezzettino di spiaggia e poso lo sguardo nel punto in cui, tante vite fa, c’eri tu; chiedendomi come sarebbe stata quella nostra casa e la nostra vita, insieme a tutte le altre scene folli a cui avrebbe assistito il mondo che, fino ad allora, calpestavamo insieme…
Se solo il tempo non avesse deciso di portarti via.

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Viaggiare e tornare

Oggi era uno di quei giorni in cui il vento ricominciò a soffiare.
Una domenica di fine ottobre, finalmente libera dal solito tram tram.
Presi il primo treno per andare via da quel posto. Volevo cambiare luogo e tempo. Volevo raggiungere qualunque meta mi fosse concessa e cambiare pensieri ed emozioni.
Perciò eccomi arrivare in questa vecchia cittadina medievale.
Le sue strade di pietra costeggiate da un fiume che fa da letto alle colombe e poi il castello che con le sue mura osserva maestoso l’evolversi di quel posto, come fa un fidato guardiano del tempo.
Il mio passo a momenti è lento, altre volte è rapido. Mi soffermo sulle piccole cose e tralascio quelle che non mi ‘chiamano’; come quel ragazzo, per esempio, che voleva farsi la foto di rito, arrampicato alla torretta. A chiamarmi fu, invece, lo sguardo della bambina bionda che mi passò accanto, guardando in alto verso di me e lanciandomi un enorme sorriso puro e buono.
Camminando, mi sono ritrovata in un vecchio giardino. Solo le panchine erano della mia epoca, mentre il resto sapeva ancora di vestiti merlettati con il corpetto, uomini accompagnati da spade e balli fiabeschi. A proposito del ‘chiamare’, quello era un posto che mi chiamava. Orticelli, scale, cunicoli nascosti, torrette e una miriade di sentieri che sapevano di labirinti e portavano al cielo. Mi sentivo parte di tutto questo.
Seguo una delle varie ed infinite scale a chiocciola ed eccola, la città, tutta ai miei piedi.
Un silenzio vaporoso, gli alberi che sventolavano le loro bandiere nel cielo e coprivano tutte quelle casette rettangolari e colorate. Solo gli uccelli davano velocità a quella scena; svolazzando di qua e di là, in cerca di un altro ramo, in cerca di un altro canto.
Respiro a fondo, guardo lontano e scorgo il tramonto.
Una giornata a camminare con me stessa, immersa nel concerto di pensieri, ovattata da uno scudo di silenzio.
Scendo nuovamente le scale, supero quel giardino francese che un tempo lontano, che mi è difficile ricordare, deve essere stato di mia abitudine visitare. Ritorno sulle stradine in pietra e, ancora una volta, a chiamarmi è una musica ai piedi di una chiesa.
Un ragazzo che suona con la chitarra “I love her” e sulle scale il suo piccolo pubblico privato composto da una coppia abbracciata. C’era lei che cercava di coprire lui, dandogli parte della sua giacca e c’era lui che ogni poco la ringraziava con un bacio.
Ed ecco che lì sentii la tua mancanza.
Mi ricordai di quella volta in viaggio per Praga, quando prima che arrivasse il treno, mi hai dato la tua giacca, i tuoi guanti e per fami ridere, hai cercato di condividere anche il tuo amato berretto di stoffa grigio, sdillabrandolo tutto. Il treno arrivò, io sentivo freddo, come anche te d’altronde, ma dentro, dentro stavamo benissimo.
Mi alzo da quelle scale, mi allontano dal concerto ai piedi della chiesa e continuo ad andare.
Poco lontano vedo una ragazza che guarda le vetrine di un negozio di souvenir e il suo ragazzo, lì, in piedi che tiene il cane. Ancora una volta tu: quel giorno di inizio estate in cui mi ero fissata che volevo comprare la padella per fare le crepes che costava il triplo perché adatta per non farle bruciare e tu, per dissuadermi da quella truffa, hai cominciato a dirmi che ci aspettava una sorpresa. Senza dirmi dove stessimo andando, e probabilmente nello stesso tempo inventandotelo anche tu, mi hai portato nella mia creperia preferita. Ed io conclusi con: “la prossima volta che voglio spendere soldi per una cosa che non userò mai, portami qui” e tu, tu che già lo sapevi perfettamente.
Ed ecco lo stesso odore di crepes in giro per la cittadina che si preparava per la sera. Le luci nei viali e le musiche e la gente: tutto era ancora più magico. Eppure avrei avuto voglia di dirtelo che anche quelle crepes, probabilmente, ci sarebbero piaciute.
Calava la notte e qualcosa in me cambiò. Il vento smise di soffiare ed io sentivo la necessità di tornare a casa.
Come in una moviola, ripercorsi il cammino a ritroso, aspettai il treno coprendomi dal freddo, vi salii, mi addormentai, ti sognai, mi risvegliai. Scesi a pochi metri da casa mia e percossi a piedi, in un silenzio assoluto, quelle strade che mi dividevano dal portone di casa.
Le chiavi in mano, le scale al buio, il silenzio davanti al mio appartamento. Infilo le chiavi, giro la toppa e:
un uragano.
Musica, profumi di cucina misti a bruciato. Valigie a terra e panni stesi.
-“Ok, non arrabbiarti!Sono tornato prima del tempo da Lyon e ti volevo preparare il riso con i funghi -perché mi ha preso così oggi-, ma l’ho bruciato. Però non ti arrabbiare! Perché ti ho portato i tortini cuore caldo come piacciono a te! Davvero non ti faccio neanche parlare, già so cosa vuoi dirmi, che vuoi tutto ordinato, che c’è casino, che la cucina è un disastro. Ma vedila così: almeno sono già qui!”.
Non avrei potuto dire niente, assolutamente niente. Se non abbracciarlo e sorridere del fatto che, dopo quella lunga giornata, ero di nuovo a casa;
e che sì,
finalmente lui era già lì.

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Ricordo di una vita passata

Era il 1803 ed io spazzolavo i miei lunghi capelli neri, seduta davanti allo specchio.
Il bimbo mi guardava con la piccola cuffietta bianca ricamata da dentro la sua culla, mentre, con la coda dell’occhio, ti vedevo dalla finestra che tornavi dalla tua battuta di caccia, con il cucciolo Russell dietro di te; attraversavi il vialetto del nostro giardino inglese ed entravi dalla cucina sul retro, lasciando il tuo solito fiore alle domestiche.
Arrivato in camera da letto, portavi le mani dietro la schiena e lì nascondevi il fiore più bello che avevi colto come tutte le domeniche mattina. Un bacio sulla fronte del bimbo e poi, con un sorriso, mi guardavi. Io smettevo di spazzolarmi i capelli e poggiavo la spazzola, senza nemmeno guardarla, attonita dagli occhi tuoi che sorridevano nel vedere i miei, e, senza accorgermene, sorridevo anche io.
Ero ricca, non per il giardino, né per la casa che avevamo; il mio potere era insito in me e così sconosciuto, perché senza sapere come, avevo catturato il tuo cuore. Una cattura che fruttò gioia, insieme ad un figlio che batteva le mani, contento, da dentro il suo lettino.
In quella campagna londinese del 1803 noi vivemmo felici e per sempre.
Dopo un lungo sonno, mi risveglio in un letto diverso e più piccolo. Le mie mani sono bianche come neve e piccole e morbide. Una donna dagli occhi azzurri mi sorride ed io ricambio. Tutti si congratulano con quella donna in questo giorno di fine estate del 3 Settembre 1991.
Passa del tempo e cambio luogo, cambio tempo, abiti, pensieri. Sono in un altro letto, questa volta più grande e sono da sola.
Ti ho risognato questa notte: era il momento in cui facevi spuntare da dietro la tua schiena il mio fiore, ma le tue fattezze erano smussate dall’atmosfera rarefatta di un sogno che sta per sostituirsi al ricordo.
L’orologio calcola un tempo inventato da noi corpi. Sono in un altro luogo, mentre quel calcolo chiamato tempo per convenzione sociale, mi fa ritrovare con i capelli raccolti e un cuore più maturo.
Mi ritrovo in un piccolo locale di Parigi con un bicchiere di assenzio e un foglio su cui scrivere.
C’è un tale, davanti a me, che giurerei di aver visto da qualche parte. Ripone il giornale e si mette al collo la sua macchina fotografica, da un saluto al cameriere, lascia dei soldi sul bancone e fa cadere un fiore, poi va via.
Il Capodanno di quel 2015 riempie l’atmosfera di colori e fumi, ma anche dopo che quel tale ha lasciato quell’aria così bohemien il mio pensiero lo insegue per un poco, per poi dimenticarlo, come tutto del resto.
Tu non mi vedesti altre mille volte che ci siamo incontrati e così feci io. I nostri lunghi giri si intersecavano alla cieca, senza mai riconoscerci entrambi, in un unico momento.
Molti giri di orologio si sono susseguiti, prima di sorprendermi qui, sulle rive di questo fiume indiano.
Dall’acqua compare un piccolo battello su cui una figura sta affacciata a fotografare le increspature del letto dormiente. Senza esserci chiamati, nello stesso istante tu hai guardato me ed io ho guardato te.
Eri quasi ancora la stessa figura seduta in quell’ambiente parigino.
Per una volta la fortuna volle che quel battello si fermasse nel molo accanto a me e tu scendesti.
Sorridendomi, mi dicesti il tuo nome e mi regalasti quello che per te era il fiore più bello e che avevi colto un momento prima di raggiungermi.
Io ti guardai e, senza saperlo, già sorridevo e con un filo di voce sussurrai un semplice :“ti ho trovato…”
ed eravamo di nuovo insieme.

About R.O.

Racconti Ondivaghi che alla fine parlano sempre di Amore

Ed ecco cominciare una nuova fase della mia vita e con essa do inizio a un nuovo esperimento.
Un blog, un diario scritto dall’immaginazione per condividere le mie fantasie con chiunque avesse voglia di tuffarvisi e di farsi trascinare dal loro andamento sinusoidale, tipico delle onde del mare.

Un abbraccio

V.

Barcellona, Novembre 2017