Amami perché vuoi amarmi.
Così, gratuitamente,
Senza ricevute di ritorno o premi da ritirare.
Amami perché preferisci zuccherare la tua vita con la mia voce e il mio profumo.
Amami perché un giorno mi incontri alla fermata della metro e senza pensarci,
ami me.
Non amarmi perché ti senti solo,
depresso,
annoiato,
sconsolato.
Non amarmi perché ti senti a metà,
confuso,
perduto.
Amami perché sei forte di quello che sei,
pur intuendo che con me potresti addirittura essere magico.
Amami perché la tua già piena realtà diventi surreale.
Amami per condividere la tua felicità con me.
Vediamo come il tuo equilibrio si mescola con il mio e come cambiano le giornate.
E infine amami anche quando il cielo è grigio fuori e grigio dentro.
Ti accenderò un fuoco nel camino
e dentro la cioccolata che ti porgerò sotto una coperta in cui mi accoccolerò accanto a te, lì ritroverai subito il calore di un sorriso.
Quello che già avevi conosciuto ancora prima di amarmi,
ma che mai è stato così,
come lo è da quando mi ami:
Magico.
Mese: febbraio 2018
Le luci della notte
Un giorno intero a pensarti e ormai è sera.
Devo uscire, mi aspettano. Sono seduta nel buio di una stanza silenziosa, davanti ai trucchi in attesa di mascherarmi ancora il viso.
Il vestitino nero è sulla sedia, i tacchi ancora nella scatola.
Senza volerlo, mi alzo, accendo la luce e metto un poco di musica per animarmi, per convincermi che quell’uscita servirà a risollevare la serata, mentre la tua mancanza butta giù la mia esistenza.
Allora prendo la spazzola, metto gli orecchini, eyeliner e rossetto. Tiro fuori le scarpe dalla scatola nuova, mi metto il vestito e preparo la borsetta.
Solo prima di uscire, dopo aver cercato le chiavi e la voglia di non ricordarti, infilo quelle torture che non mi faranno camminare bene per una sera intera… di svago. Perché è svago.
Chiudo le finestre, spengo l’ultima candela e chiudo la porta a chiave dietro di me.
Il cielo era limpido, un gennaio che sembrava primavera.
Scendo in garage ed entro in macchina, sempre costringendomi a volere stare in compagnia, in quella compagnia che non è la tua.
Si apre il cancello e parto.
Solo alla fine del mio residence, mi accorgo di una moto posteggiata proprio al di fuori e un ragazzo appoggiato.
Ma che ti dovevo dire, brutto coglione, di quanto mi hai illuminato la notte di miliardi di stelle luminose al sol vederti? Dopo tutto quel training mentale per smetterla di pensarti almeno per qualche ora.
E tu che sei pazzo a stare lì, dopo solo tutti questi infiniti anni.
Il tempo di un attimo
Silenzio. Un sommesso “ahi”. Di nuovo silenzio.
Il momento è surreale. Aspetti una voce fuori campo a dirti che è tutto uno scherzo.
Ma quella voce non arriva e quel silenzio lo devi riempire tu.
Un sorriso.
Dal dolore nasce un sorriso. Un sorriso doloroso.
Anche se un sorriso è un qualcosa di positivo, ma quello no. Quello fa male. E’ il frutto di una coltellata improvvisa allo stomaco in mezzo ad una folla festante.
Eppure devi continuare a far parte della festa anche tu. Senza preavviso, una legge non scritta dice che da quell’instante devi recitare una parte e tu lo fai.
Un momento prima eri te stessa, con la tua tranquillità riconquistata e i vari impegni del tuo nuovo mondo, mentre il secondo successivo, dopo una o forse due parole o magari anche tre, una breve frase che dura meno di dieci secondi, ti stravolge la tua tranquillità riconquistata e quelli che erano i tuoi nuovi impegni si cancellano.
Da quel tic tac, da quello spostamento della lancetta dei secondi, tutto cambia.
E dal riso, dentro, muti al pianto, mentre fuori dal serio muti al riso, ma rimanendo muta, tu.
Potevi essere la persona più tranquilla della terra, ma bastavano solo due, tre o forse anche quattro parole giuste, solo questione di attimi, che il risveglio nel tuo solito letto del tuo solito mondo di quella mattina ti sembra già lontano e che ancora prima di vivere i risvegli successivi, sai già che saranno diversi, crudi e duri, come le notti nel tempo di quel tuo, ormai perduto, equilibrio precario.
Tre, quattro o anche cinque parole così potenti da far crollare il tuo edificio della pseudo-armonia ; quattro cinque o sei secondi da farti cambiare ed essere una persona totalmente diversa dal momento in cui le senti, fino a quelli successivi a tempo indeterminato.
Infondo noti il paradosso di un cambiamento così radicale e profondo che esce fuori in superficie sotto forma di sorriso.
E ne vale la pena nel tuo teatro, il pubblico ci crede e il tuo merito è di essere una brava attrice.
Un pubblico che prima di essere tale era lui stesso messa in scena. Ma quando i suoi attori ebbero terminato quelle brevi sentenze e tu da pubblico, così in segreto te le sei sentita infliggere, quelle latenti leggi non scritte fecero intuire ai partecipanti che lo scambio dei ruoli aveva inizio dal momento in cui le parole avevano cambiato interlocutore, così che il vecchio pubblico divenne scena e la vecchia scena, ormai quieta, era pronta ad ascoltare.
Ma chiuso il sipario, dietro le quinte, nascosto dalla folla, lontano dalla festa, poggi in segreto una mano sullo stomaco.
E’ il calore che senti, ancora prima di vedere il rosso del sangue che colora il tuo palmo immerso nella penombra.
Hai nascosto un’emorragia come quelle ad un pubblico, forse per fortuna, non troppo attento.
Finché il tutto si riduce ad una semplice questione di gocce, tra lacrime e sangue, da tamponare prima del prossimo spettacolo.
Da quell’indecifrabile numero di parole, di quella fugace, ma eterna sentenza;
al silenzio, al “ahi” nella tua testa, al sorriso, al sangue che si dilunga come un pianto. E tu ,per istinto, vuoi tamponare la ferita con la prima cosa, un minimo buona, che serva a medicare e causticare il dolore.
Senza che ciò faccia parte, questa volta, di alcuna legge non scritta, ma soltanto di un bisogno percepibile solo dal sofferente.
Ed inizia così, in quel tunnel che ti si è scavato dentro, che, nella ricerca, s’illumina un’attesa.
E nell’attesa del giorno in cui cotanta indelicata tenacia del tempo ci metterà davanti al destino, il rilievo della cicatrice, di quella ferita ormai risanata, cambierà la sua identità, divenendo un semplice post it; uno vuoto, silenzioso, però carico come sono carichi quei silenzi intrisi di mille infinite, dolceamare emozioni.
Pisa, 2014
E il tema di “oggi” è
L’amore è:
russi da morire; non buttare i vestiti sul divano; non sdraiarti sul letto che l’ho rifatto; non mangiare la torta che la dobbiamo portare dai miei per cena; smettila di fare il bambino e ascolta quello che dico, invece di seguire solo il tuo ragionamento; finiamo di giocare ai videogames e magari mi calcoli? Mi fai scegliere il film e poi ti lamenti per tutto il film? È una sfida?
Ma cosa fai? Togli subito i pattini dal bambino che ha solo 1 anno che c’è ancora tempo per vedere se ci saprà andare! Ti lascio solo 5 minuti e ti ritrovo che giochi con il cane e il bambino pieni di fango in salotto! Cucini una cotoletta e imbratti tutta una cucina? Ma esattamente perché usi il mestolo per fare la cotoletta? Eh no e dai, oggi tocca a te lavare i piatti! E tu vorresti uscire con quella maglietta? E non mi interessa la solita storia che è la tua preferita, la usi da tre giorni! Come non trovi la tua maglietta? Nel cesto della biancheria! Come dov’è il cesto della biancheria?Quattro ore in bagno peggio di me! E non ho sbattuto forte lo sportello della macchina!
…Oh, mi hai portato una torta al cioccolato e panna come piace a me?
Ma insomma, dico io, come si farebbe a non amarlo?
Il giardino francese
In un tempo lontano,
in un’epoca di merletti e balli da favola,
c’ero io, con il mio vestito lungo ed il solito libro in mano, che passeggiavo tra i roseti del giardino francese.
E come ogni volta, tu spuntavi fuori dal cespuglio dietro la fontana con una rosa; con quella faccia buffa e una spada troppo seria appoggiata alla tua gamba.
Se libri e spade fossero stati amanti fedeli, le guerre sarebbero esistite solo tra le loro pagine.
Ma le battaglie erano reali, quanto lo eravamo noi; e se quella spada ti ha portato via da quel lontano 1780, il tempo non ha mai cancellato il tuo ricordo, impresso ancora per i sentieri di quel giardino francese.
Lettera al mare
Le ultime volte che sono tornata a casa, sono andata a guardare il mare quasi ogni giorno. Quasi ogni giorno alla stessa ora, o meglio, allo stesso momento: al tramonto. Arrivavo sempre un poco prima dello spettacolo, con in borsa i miei pensieri, la musica, un libro o un foglio su cui scrivere. E finalmente stavo bene.
Le ultime volte a casa sono andata costantemente a passeggiare sulle rive del mare, andandolo a trovare come se fosse un vecchio amico, un fratello, un amante. E non importa se si trattava di una giornata di pioggia o di quiete, d’estate o d’inverno, riusciva sempre a calmarmi e a ricordarmi che la bellezza esiste, senza essere soltanto una favoletta di tutti i sognatori.
Ed infine, il tramonto.
Distrattamente, altri nostalgici e pensatori come me, si soffermavano a guardarlo. Ogni giorno, in quel momento, l’aria si riempiva di tanti sospiri e pensieri che dal rosa, passavano all’arancione per poi sfumarsi nel silenzio della notte. Ed era così che mi congedavo da te, mio amato mare. Come Penelope che tornava sulla riva ogni giorno per dare la buonanotte a Ulisse. Anche io ti davo la buonanotte a ogni tramonto. Giacché preferivo farlo di persona, almeno finché potevo: finché la distanza e il freddo di una nuova città senza mare, non ci avrebbero divisi ancora una volta.
Un omaggio
23:56. Non capisco se sia il ticchettio dell’orologio, del lavandino che perde o delle mie orecchie.
Veramente io non capisco: ancora le 23 e 56 e questo ticchettio non passa.
Ricapitolando, è stato come: pace, scoppio di bomba genere: <<BOOM, BADABOOM, TUMB!>>- poi silenzio e… ticchettio. Sono le orecchie? E’ lo specchio del bagno che fa questo strano rumore? Come può lo specchio fare rumore? Allora la luce, la plafoniera, la vasca, il bidet. La mia mente non arriva a tanto, so solo che è successo questo: cioè praticamente sono le 23:56, le lancette non hanno ancora deciso di spostarsi, ma prima erano circa le ventitré e cinquantaquattro -quasi e cinquantacinque- e c’era una pace incredibile. Io, tra le parole, sorridevo, oppure sorridevano le mie parole e parlavo con lei; lei magari non sorrideva come me, ma quel letto era ancora comodo, il cuscino quasi una piuma e, lo ripeto, erano le 23:54 e ancora non avevo fatto domande. Poi non capisco cosa sia stato: il rumore di una macchina che proveniva dalla strada; il rombo di un altro veicolo partito male; lo scoppio di un motore di un aereo; il residuo di una bomba di Hiroshima e Nagasaki che risuonava a distanza di anni e paesi fino a noi, per uno strano effetto della fisica. So solo che non c’era più quella pace: e lei, lei sì, mi aveva risposto e parlava ancora, ma io avevo le orecchie ovattate. Sai, quando c’è un rumore forte e non senti niente per un po’? Sì, un rumore come quel <<BOOM, BADABOOM, TUMB!>> e non si capisce più niente. Ma come fa a continuare a parlare, se nella stanza è scoppiata una catastrofe? Vedo i vetri in pezzi; il tappeto attaccato al tetto, le porte sgangherate. Questo letto brucia, ma lei parla! <<BOOM, BADABOOM, TUMB!>>, 23:55, un omicidio nella mia camera da letto e lei non se n’è accorta. Allora corro ai ripari senza mostrarle niente, perché io sono l’uomo.
Quello è il bagno che ho voluto far costruire io, così vicino al letto; sai, in caso di emergenza o di attentato, oppure di un’emergenza per un attentato alla mia persona. Ed ho voluto proprio questo grande specchio; perché dal primo giorno che l’ho comprato, ho notato che con la sua forma rettangolare, mi capiva. Anche adesso mi risponde e mi riserva un riflesso impallidito. C’è del sangue sulla mano, la maglia ne è inzuppata. Ma il mio petto, il mio petto… <<BOOM, BADABOOM, TUMB!>>-. Ho guardato l’orologio ed erano le 23:55, quando cominciò questo ticchettio. -<<BOOM, BADABOOM, TUMB!>>- le 23 e cinquantacinque. Ancora, dico? Ma com’è possibile?
Fisso l’orologio: “cinquantacinque” sembra l’effigie di una lapide. “Cinque”, quel cinque, ed intanto io divento pazzo. E poi rimbomba ancora tutto, il ticchettio aumenta di volume e mi immagino un’eco di quel rumore che viene riflessa nello specchio: e perciò <<BOOM, BADABOOM, TUMB!>> – ticchettio- e finalmente “sei”. Sono passati millenni e l’orologio si sposta avanti di un solo minuto: le ventitré e cinquantasei, ticchetta e ticchetta. Il lavandino, lo specchio o la maglia rossa o tutti insieme. E ancora: <<BOOM, BADABOOM, TUMB!>>- sempre e cinquantasei. Di nuovo quel loop che gira in circolo. Le 23 e 56. Non si riesce ad arrivare a domani; nelle mie orecchie c’è posto solo per quel tic seguito da tac, che continua con tic e non termina mai col suo tac. Allora capisco che è il tempo che ha scelto; ha deciso di interrompersi in questo bagno, all’unisono con il mio cuore.
<<BOOM
BADABOOM
TUMB!>>
…e lei è andata a letto con un altro.
<<Amore va tutto bene, in bagno?>>
<<Sì, adesso ho ricordato quel nome. Buonanotte!>>.
-<<TUMB!>>
Il nome e le sue spine
Sei un nome.
Sei un nome ed un cognome.
Sei uno schermo di un cellulare,
un’illuminazione che alla fine non parla di te,
una chiamata che non arriva.
Sei un messaggio salvato in archivio:
“lontano dagli occhi”, così dicono.
Sei una foto in galleria che vedo solo quando mi manchi,
quando per raggiungerla scavo tra le cartelle
ed eccomi, di nuovo, mentre arrivo al tuo nome.
Al tuo nome e al tuo cognome
ed anche al tuo sorriso e al tuo viso.
Sei un ‘mi piace’ casuale, nel mezzo di altri ‘mi piace’ casuali.
Sei un ricordo, una fitta, la lama intera.
Il tuo nome è la spina della rosa e non il suo profumo.
Il tuo viso è quello di un angelo e di un demone insieme;
per quanto fai bene
e per quanto fai male.
Eppure non hai più un corpo.
Tu sei ricordo,
tante frasi dette,
molte bugie ascoltate e da un lato del cuore, pure credute.
Sei una macchina fredda,
un mazzo di fiori secco,
un regalo ormai troppo stretto.
Non esisti più.
Tu non esisti più.
Sei un fantasma che non vive in città,
sei una rottura e una morte che non si incrocia con la mia vita.
Quella che ora sono, non sa più niente di quel che adesso sei;
ma i ricordi del cuore lo fanno sussultare
quando tornano a leggere casualmente quel nome.
Quel nome e quel cognome
che anche se lontani dalla vista,
anche se fantasma, lama e spine insieme,
non ho mai potuto dimenticare ad amare.
Paragoni notturni della buonanotte
Stare con chi si ama è un po’ come la sensazione di dare l’ultima materia all’università.
E’ quel momento in cui, incredula, ti alzi dalla sedia con il libretto completo dell’ultima firma mancante, quella tanto sognata.
All’inizio non esulti, proprio perché non ci credi. Poi una volta uscita dall’aula, ti soffermi a guardarla nel mezzo del corridoio della facoltà e tutta quella stanchezza, noia, abbrutimento diventano una gioia, una unica grande gioia di vivere.
Stare con chi si ama deve essere un poco come segnare un gol all’ultimo minuto di partita e far sì che l’esito non finisca in pareggio.
Un momento di silenzio precede un boato generale e tu rigiocheresti nuovamente; ora sì che hai ritrovato tutte quelle energie che ti erano finite giusto nell’attimo in cui l’avversario segnava il suo ultimo gol, lo stesso che hai tanto odiato, non sapendo che avrebbe solamente precorso il tuo.
Stare con chi si ama è paragonabile a bere un bicchiere d’acqua, dopo una serata in discoteca, tra musica forte e alcol. E ti scivola, liscia e fresca nel silenzio del cuore della notte, finalmente la purezza.
Stare con chi si ama,
stare con chi si ama;
ebbene lo ripeto due volte, mentre la testa si affolla di mille esempi sulla sua essenza e dunque ne scelgo qualcuno:
come il mare, finito l’inverno;
come la prima neve per i bambini;
come il cioccolato, in certi pomeriggi,
o come una voce amica, nei momenti di solitudine.
Eppure un esempio, per quanto possa rendere il concetto, non sostituirà mai l’oggetto originale.
Stare con chi si ama deve quasi essere come stare con chi si è amato: ma mentre chi si è amato viene avvolto dalle coperte nuvolose del tempo, dalla memoria e da quel senso di rottura, chi si amerà , dopo essersi rivelato a te, ecco che si farà presenza dai colori vividi e diverrà costante motore della tua vita. Un motore che sarà regolato soltanto dalle leggi di un perpetuo presente. Dopotutto una vita insieme non è fatta da una serie finita, ma lunga di variopinti presenti?
Stare con chi si ama, insomma, deve essere come stare con chi si ama. Sembra banale vero?
Ma cosa c’è di banale nel poter realmente godere della presenza di una persona che solo guardandola e figuriamoci abbracciandola, ti da la capacità di saziarti, abbeverarti, farti dare l’ultima materia proprio mentre segni il gol vincente a un minuto dalla fine della partita?
Quindi, basta con il rendere l’idea e con gli esempi;
l’attesa vale tutto quello che hai patito, perché poi, tra le sue braccia, giusto un momento prima di addormentarti e di ricevere la buonanotte, sospesa tra un sorriso e un sospiro leggero, nemmeno ti accorgerai che il resto lo avrai già dimenticato.
E adesso, vado a bere.
Buonanotte.
Questioni di film
Eccoti il tuo dvd.
Me l’hai prestato, lo rivolevi. Anzi, me l’avevi regalato e poi l’hai rivoluto.
Il tuo cd e il tuo amore.
E quindi eccolo, libero di tornare a casa tua: nella tua libreria con tutti gli altri film.
E lì c’è anche il mio dvd, quello che ti ho regalato perché quella sera al cinema, il film ti era piaciuto tanto, stranamente. E allora eccomi il giorno dopo alla Feltrinelli a comprartelo.
Quei soldi, i miei risparmi in giorni di magra, per te, per il tuo sorriso, per il nostro amore. Capisci? Era tutto un investimento per il nostro amore. E ho investito i miei desideri, i miei progetti, il mio tempo, la mia vita per un sogno che non ne aveva, di vita.
Cosa sono pochi anni in confronto a tanti anni?
Cos’è amare un uomo che una mattina si sveglia con il piede sbagliato e capisce che non ti ama più?
Io lavoravo tanto, guadagnavo e tu smettevi di amarmi.
Io smettevo di lavorare tanto, guadagnavo meno, ti amavo di più e tu ti accorgevi che non mi amavi. Ma che “non che non ci tenga a te, non che non ti voglio, perché in fin dei conti tu sei mia”. No, amore, di tuo c’era solo quell’ultimo dvd che ti apparteneva e di mio c’era quell’ultimo dvd che insieme al cuore, diedi a te.
Ed è tutta una questione di film, alla fine, penso io: tu amavi gli horror, i thriller, gli spara tutto. E anche se i thriller mi andavano bene, io ero più per i sentimenti, l’intelligenza, la passione, qualche lacrima e qualche risata: io ero sempre per la vita.
Perciò, sai quella piccolissima differenza tra me e te di cui ti accennai un giorno, dopo aver visto “Dorian Gray”? Quel giorno non mi ascoltasti, lo so, pensavi ad arrivare in tempo per guardare la partita. Eppure oggi te la riassumo così: che quel dvd te lo puoi riprendere. Sì, tu conservati pure il tuo “Saw l’enigmista”, ma io, in quella tua fredda libreria, ti voglio lasciare comunque un briciolo di sentimento.
Perciò eccoti “Via col vento”, te lo puoi proprio tenere.
E detto ciò: “…francamente, me ne infischio”.