Racconti, Racconti & Poesie

Capitolo 1 di un libro mai scritto

Quando decisi di trasferirmi in Inghilterra, non so perché lo feci. Forse per scappare dalla routine, da quella gente, dalla mia città; forse per dimenticare un amore o forse per trovarne uno vero. Quel che mi dissi, però, fu che era per crescere e rimuovere quelle paure che non mi potevano far diventare la donna indipendente che ho sempre voluto essere. Per cui, un giorno di novembre, decisi che era il momento di evadere. Scesi in cantina e ripescai quella vecchia cartina dell’Europa messa da parte con l’avvento della fredda tecnologia. Mi portai Ugo; Ugo era il mio gatto trovatello (o per meglio dire la gatta trovatella che avevamo scambiato per maschietto). Accesi la luce della cantina e stesi per terra quella vecchia mappa impolverata, strappata e che sapeva di tutti quegli oggetti vintage che hanno un passato da raccontare, ma che in pochi vogliono ascoltare. In quel momento Ugo, dopo aver annusato un po’ della Germania e della Spagna, saltando completamente l’Italia, e miagolando in direzione della Russia, si soffermò particolarmente sull’Inghilterra e, certa che la sua attenzione non fosse dipesa da quella strana macchia grigia sopra Manchester, decisi o meglio, Ugo decise per me che quella sarebbe stata la mia meta.
So che può sembrare stupido affidare una scelta così importante all’olfatto di un gatto femmina a cui è stato pure dato un nome maschile, ma dopotutto lei che ne sapeva. Solo se certe cose si vengono a scoprire, in alcuni nasce un senso di vendetta, ma grazie al cielo questa malattia affetta solo gli uomini, mentre i gatti come la mia Ugo ne erano immuni.
Avevo 20 anni e in un banalissimo giorno di pioggia di Dicembre, con la primavera nel cuore, due valigie più grandi di me e senza Ugo, me ne andai nell’altrettanto piovosa Inghilterra per costruire il mio futuro.

 

Capitolo II
“Indietro non si torna”

Pensiero e sentimento, Racconti, Racconti & Poesie

A Virginia

Mi ritrovai a pensarlo.
Stavo a letto, leggendo un libro dalla copertina azzurra e, mentre i caratteri neri si alternavano agli spazi bianchi, ecco che io ripensavo a lui.
I giardini inglesi di Virginia diventavano pezzi di strade familiari e quelle conversazioni cambiavano voci, assumendo le nostre, solo più roche e stridenti.
Così io lo ripensai, mentre sfogliavo le pagine senza guardarle; mentre richiudevo il libro senza segnalibro, e vedevo i suoi capelli scuri da sopra quella copertina azzurra color cielo terso e lontano.
E allora forse il paradiso era quello; e dunque l’amore erano le sue braccia, e forse il vero calore poteva scaturire solamente dalla sua carne che toccava la mia.
E allora io, senza tutto questo, andavo perdendo significato?
Non lo sapevo: tenevo il libro in mano, accarezzando il cielo azzurro con la punta delle dita e quei pensieri cominciavano a gocciolare dalla mia testa fino a sfociare in una pioggia torrenziale che mi arrivava agli occhi.
Un’inondazione nel mio di cielo azzurro, mare mosso nei miei occhi. Avevo il terremoto nella testa e quest’apocalissi si era generata in un non-istante, per una parola nera tra due spazi bianchi che mi hanno portato indietro, indietro e basta.
Leggevo Virginia e leggevo me stessa, leggevo Virginia e intanto incominciavo a intravedere nei suoi discorsi quello che non volevo io, ma che volevano i pensieri irrisolti e le conversazioni mai concluse.
L’Inghilterra che ho sempre amato perdeva ormai fascino tra quei fogli; la mia mente volava in quel luogo che si stava concretizzando a partire dal ricordo. E poi la nostalgia, quella compagna sempre in agguato, mi fece chiudere il libro e aprire la porta di casa.
Una panchina nuova, solitaria, ingenua e ignara di tutte le vicende d’amore che avrebbe sostenuto negli anni, mi aspettava sotto l’ulivo e a una lunga camminata di distanza da casa mia.
Ai piedi dell’albero c’era ombra e anche pace: tutto quello che voleva la mia testa in piena guerra fredda con il passato.
Mi sedetti, con un uomo e una donna dai nomi conosciuti che mi urlavano, in un ping pong di parole lanciate tra un orecchio e l’altro, passando per la testa.
“Sono quella che tu non sei. Sei quello che io non sono. Siamo nomi, siamo foglie, siamo il vento che ci ha preso e spostato. Siamo il giallo e siamo il grigio. Siamo il rosso diventato marrone. Siamo il nero e nessun colore. Siamo nessun colore, amore”.
Scrivevo nel taccuino accanto l’ulivo, e scrivendo, parlavo di rabbia, di te, di odio, di amore e ancora di te. Contavo i mesi, poi le ore e più ti scrivevo e sfogavo la burrasca dei pensieri, più mi accorgevo che mi andavo scordando dei dettagli del tuo viso.
Avevo la tua voce che impazziva nella mia testa, quella sì: era quella che mi amava e che poi fingeva, quella che tornava e che dopo avermi confusa, mi abbandonava a me stessa.
Avevo le tue parole conservate nel cassetto del mio cuore; avevo ancora quel pezzo del tuo cuore che mi avevi regalato, qui sotto il braccio sinistro. Avevo conservato tutto.
E invece tu dov’eri?
Mi hai lasciato tante parti di te, pezzi di passato e di ricordo; mi hai lasciato i silenzi, mi hai lasciato le parole non dette insieme ai gesti non espressi. Mi hai lasciato tutte cose che io non posso toccare con le mie mani: non c’è niente da schiaffeggiare, niente da accarezzare.
Da qualche parte del mondo, ci sarai tu che cammini e fischietti allegramente nell’andare al lavoro, ignaro degli effetti di quelle piume e poi dei sassi e delle carezze e poi dei coltelli che mi hai lanciato.
In una parte del mondo, ci sei tu che entri serenamente in un bar a ordinarti un caffè: lo sorseggi, lo assapori, mentre c’è qualcun altro che si sta ancora curando tutte le ferite per quel caffè caldo che, senza nemmeno accorgertene, hai lanciato sui tagli che fingevi di curare.
Avevi dimenticato l’importanza delle parole, che sono lame e sono piume. Eppure io ancora non avevo dimenticato la tua voce, la tua bella voce travestita da musica, ma che fendeva la mia carne come vetri infranti.
E dunque, in questo taccuino scriverò un brano, qui, seduta all’ombra dell’ulivo. E parlerà di amore e di odio e di rabbia e di te.
Appena finito, prenderò una foglia dall’albero, la metterò in mezzo alle pagine e chiuderò il plico. L’ulivo cambierà il senso a tutto: le mie parole trasformeranno il loro discorso e con loro anche la mia testa avrà cessato di urlare.
Alla fine dei giochi, le mie parole nere miste a spazi bianchi parleranno di quattro cose: prima di odio, poi di amore, finchè si intrometterà il perdono e infine sempre di te;
e se il perdonare precede il ringraziare, allora quel che ho scritto lo intitolerò così:
“A Virginia”.