Ricordo che era aprile e io mi trovavo nella tua macchina, sul sedile del passeggero, mentre tu guidavi. Fuori pioveva e c’era ancora freddo: nessuna traccia della primavera in quel pomeriggio.
Mi eri venuto a prendere come sempre all’aeroporto, in una delle mie fughe del fine settimana, quando lo studio me lo permetteva. Non ero felice, e a dire il vero stavo per piangere, cosa che tu avevi capito subito. Per questo, sapevo benissimo che avevi acceso la radio per cominciare a canticchiare.
Tra una parola sbagliata e l’altra, le macchine che ci superavano a tutta velocità in autostrada e la pioggia che scendeva sempre più minacciosa, io scoppiai a piangere.
“Non so dove sto andando”, ti dissi.
“Stiamo andando a casa tua”, mi rispondesti.
Ti ho guardato come si guarda qualcuno quando non si ha voglia di scherzare, con una faccia tra l’ammaccato e lo stanco, perché ero stanca da morire.
“Non so dove sto andando. Non so se quello che sto facendo ha senso. Non so se sono su una strada che mi porterà da qualche parte e se da quest’altra parte, io vorrò starci”.
Stavo in silenzio, mentre Mika continuava a cantare felicemente dalla radio della tua macchina. Tu stavi in silenzio, serio e pensoso.
“Ok, mi sto zitta. Dopotutto, non ho il diritto di lamentarmi. Voglio dire, ho tutto: una famiglia solida, degli amici, dei soldi con cui pagare l’affitto e l’università e poi ho te.”
“E se hai tutte queste cose, perchè stai ancora piangendo?”.
Perchè stavo male? Perchè non potevo farmi andare bene tutte le cose che avevo, senza rovinarmi il momento? Perchè non potevo godermi il ritorno a casa con il mio ragazzo, quando invece dovevo sempre rovinare tutto?
“Portami a vedere il mare.”, gli dissi o forse lo supplicai o forse gliel’ordinai.
“Ma hai visto che tempo che c’è? Verrà giù un temporale.”
“Per favore, non è morto mai nessuno per un poco di pioggia, ma sento che io starò peggio senza il mare”.
Lui non disse no, lui non diceva mai no. Ricordo che al bivio sterzò per la spiaggia, parcheggiò la macchina proprio lì davanti, e scendemmo.
Ci coprimmo entrambi sotto l’ombrello e arrivammo a malapena a toccare la sabbia sempre più umida e calpestata dalle nostre scarpe da tennis. In quel momento, davanti al mare grigio che mescolava la sua fine con la linea dell’orizzonte, io mi sentii meglio.
Ti presi la mano, non dissi niente, ma tu avevi capito che ti stavo ringraziando con il cuore.
Poi la pioggia diventò sempre più incessante, e mentre l’ombrello divenne inutile per coprirci entrambi, ricordo che dicesti: “vedi che cose strane che mi fai sempre fare?”, ma ridevi. Ed io ridevo, e penso che non bastava altro.
Avevo 23 anni, ero tornata a casa per tornare a respirare, a respirare te.
Sono passati degli anni da quel momento, e stranamente mi sono svegliata così, questa mattina, con quel ricordo. Le tende sono ancora chiuse e le persiane abbassate, ma nel buio della stanza so che è ormai giorno.
Nel luogo in cui mi trovo adesso non c’è il mare, e in questo strano posto, non ci sei nemmeno tu. Questa domenica mi sono ritrovata a pensare a casa mia, a seguito del mio sogno. Sono ancora a letto che guardo il soffitto rigato dai sottili raggi del sole e quasi quasi mi immagino di stare nel letto della mia vecchia stanza, a casa dei miei. L’armadio bianco, la finestra sul mare, il peluche verde e quello bianco, i miei libri sopra la testa, tutti dettagli che mi erano chiari solo se chiudevo gli occhi.
Dopo colazione, ho deciso di alzarmi e fare due passi per scrollarmi un poco di malinconia di dosso. In questa città non ci sono i miei genitori, né i miei amici di sempre: l’unica cosa su cui contare, e che fosse familiare, sono i libri.
Allora mi preparo ed esco di casa tutta infagottata tra la sciarpa e il cappotto, fino a raggiungere la mia libreria preferita. Tocco alcuni volumi con la punta delle dita, specie quelli che avevano un significato importante per me, quelli che, al solo leggere il titolo, riuscivano a riscaldarmi il cuore.
Finché arrivo nel reparto che, più di tutti, mi fa sempre ritrovare la bambina che è in me; una bambina sui nove anni e con la coda che, come ogni domenica mattina, aspettava felicemente di pranzare a tavola, seduta in mezzo a sua madre e suo padre, in quella stanza con il tavolo davanti il mare.
Dopotutto, un modo per ritornare a casa lo si deve sempre trovare, perfino in una città senza mare; e perfino in questa città senza amare e senza amarti, io dovevo poter saziare la mia nostalgia.
Allora mi avvicino alla libreria, scelgo uno dei libri, lo prendo, lo apro e comincio a leggere. Magicamente, ero di nuovo a casa mia, avvolta dalla coperta azzurra e morbida, con la tazza di tè accanto. Concentrandomi, potevo anche sentire mia madre che ci richiamava a tavola per il pranzo, mentre mio padre stappava il vino.
Con quel libro in mano, e i ricordi vividi in testa, i miei trent’anni erano lontani anni luce, lasciando il posto a quella signorinella ancora la coda, che non sapeva ancora cosa fosse il dolore. E allora eccomi, pronta, scattante, piena di vita in quel sogno-realtà ad alzarmi dal letto, a richiudere il mio libro di Harry Potter, riporlo nello scaffale insieme a tutti gli altri, per andare a tavola a mangiare.