E le nostre diversità
E tutta la distanza
E chilometri di autostrade
E file infinite di lampioni a dividerci.
Irraggiungibili
Siamo irraggiungibili.
Mese: aprile 2020
Prima di vederti oggi
In quante altre vite ti ho incontrato, prima di vederti oggi?
Quante altre volte ci siamo presentati, guardati negli occhi, stretti la mano?
Quanti nomi ti ho detto che mi sono appartenuti?
E quante altre volte l’hai fatto tu?
Ma il carattere, la tua personalità,
quelli sono rimasti sempre gli stessi,
lo sento.
Giusto, è vero, io non ti conosco;
non ti avevo mai visto in questa nuova vita,
prima di adesso,
qui, dove ci stiamo finalmente imbattendo l’uno nell’altra
ancora un’altra volta, seppur per la prima volta.
Ebbene, io ti conosco.
Sì, ti ri-conosco adesso che mi parli
e la tua voce comincia a sembrarmi familiare,
nonostante non l’abbia mai sentita.
Tu, con quel sorriso così sincero e gli occhi profondi;
se solo potessi entrare in quell’azzurro
e percorrere a ritroso tutta la loro profondità,
probabilmente viaggerei nel tempo,
ripercorrendo ogni tappa della nostra esistenza,
fino al momento in cui ci siamo innamorati.
In quante vite ti ho incontrato, ancora?
Quante altre volte ci siamo ri-conosciuti?
Il destino, amico o nemico, ha sempre fatto incrociare i nostri passi?
E se anche avessimo vissuto una sola vita senza ri-conoscerci,
quella sarà stata una vita vuota, insignificante, sprecata?
Sono certa di sì:
che vita era anche solo la mia,
prima di sentire queste vene così elettriche risvegliare ogni parte del mio corpo?
E lo vedo, come ti sei acceso anche tu,
da quando mi parli, pur senza parlare.
In quante altre vite ci siamo riconosciuti?
E sopratutto,
quella prima volta in assoluto che l’esistenza ci ha plasmato entrambi,
in due uniche metà create per combaciare,
l’abbiamo capito subito
o abbiamo sprecato del tempo,
o abbiamo dovuto buttare altre vite vane,
fingendo di non sentire,
fingendo di non ri-conoscerci?
In quante altre vite ci siamo ri-conosciuti?
E in questa?
NOT TO DO List
• NON bere disinfettante durante il giorno: nel #mantenersiidratato lifestyle va ancora di moda l’acqua.
• NON fare aperitivo col disinfettante -il Martini col disinfettante: no buono-.
• NON brindare nemmeno per il 25 aprile con shot di disinfettante mentre canti Bella Ciao, affacciato al balcone.
• NON tentare di lavare via i peccati ingerendo il disinfettante al posto dell’olio per condire l’insalata.
• NON credere che il disinfettante ti trasformi in una persona migliore.
• NON usare il disinfettante al posto della doccia: come per il deodorante, serve comunque lavarsi, sennò significa che rimani sporco.
• NON fare riti di sangue che sanciscono l’amicizia tra te e il tuo besty, iniettandovi del disinfettante. Al massimo cambia best friend, che un cervello in due non lo fate.
• NON iniettarti comunque disinfettante endovena come scopo ludico, ricreativo, con amici in videocall e nel desktop uno sfondo di Piazza Verdi (Bo) o Vettovaglie (Pi).
• NON curare le seguenti tipologie di malesseri: raffreddore, celiachia, preciclo, ciclo, vene varicose, lato b floscio, emicrania, overdose da Netflix, con il disinfettante. Se non cura quelle, figuriamoci il Covid in tutte le sue forme.
• NON ascoltare Barbara d’Urso al suo prossimo tutorial.
• NON considerare Trump come un sedicente medico-scienziato-avanguardista. La sua verve non appartiene alla categoria “genio e sregolatezza”: è proprio stupidità.
E infine
• NON ascoltare Salvatore Aranzulla mentre ti fa un tutorial su come NON usare il disinfettante.
Perché, in quel caso, stavolta mi offendo.
Oggi con ironia
Una notifica che ne vale Mille
Qualche giorno fa è stato un giorno da ricordare.
Infatti, oltre che essere una pasquetta in quarantena, é stato anche il giorno in cui -non so come- ho raggiunto mille iscritti sul mio blog di WordPress.
-Un qualcosa che, se ci ripenso: Mille…
M-I-L-L-E.
Che parola grande, che moltitudine!
Chissà, magari lo stesso Catullo avrebbe apprezzato!-
Racconti Ondivaghi è un’idea nata qualche anno fa, nel mio periodo barcellonese. È sorto come una palestra di scrittura creativa che mi permettesse di andare alla ricerca di uno stile tutto mio e, soprattutto, che mi servisse a constatare se i miei pensieri e le loro formulazioni suscitassero interesse tra chi vi si imbatteva.
E, inoltre, mi ha dato modo di poter coniugare la mia visione del mondo espressa tramite la parola scritta, insieme a quella mostrata attraverso le mie fotografie da amateur.
E se i brani -come le foto- sono per lo più basati sui sentimenti, con il mare come leitmotiv nello sfondo, l’intento è sempre stato quello di far immedesimare il lettore e trasportarlo all’interno dei paesaggi che, negli anni, ho provato a dipingere con le parole.
Per quanto riguarda lo stile, lo sto ancora cercando, ma intanto, sono contentissima così.
Per cui: Mille volte grazie Internet!
Alla radice della catena
È più bello il decollo o l’atterraggio?
Fotografia di un momento felice: io atterravo.
Toccavo terra, la mia terra, e finalmente tornavo a vederne i colori dopo un viaggio durato mesi o forse anni.
Si parte sempre con un’ancora nel cuore che tende la sua catena fin dove dobbiamo arrivare.
Mentre all’arrivo in un posto, il macigno riduce la sua misura e si stagna in una stanza remota, da cui, silenziosamente, ci farà compagnia per tutto il viaggio.
Quel macigno è generalmente la mia casa quando parto oppure è una città, quando la lascio. Le loro immagini, rimangono lì conservate in un cassetto della mia anima, con sopra l’etichetta: “Non dimenticarmi”. No che non vi dimentico e la mia partenza é sempre una promessa di ritorno. Io, figliol prodiga delle città in cui ho vissuto, ho promesso mille volte di ritornarvici con occhi diversi e con un animo sempre più antico.
E così, riguardo questa foto scattata in un settembre ancora soleggiato: é il simulacro del macigno che ho nel cuore, legato a una lunga e grossa catena di ferro che percorre chilometri e chilometri di cielo, fino a raggiungere la sua estremità. Ed è lì che ritrovo la famosa ancora che porta ancora le mie iniziali, sotterrata a pochi metri da quell’ormai consueto isolotto sul mare, e che nei miei sogni ha sempre avuto le sembianze di delfino.
È dunque l’atterraggio, il momento a me più caro. Ritorno alla radice della catena, ritorno al focolare da cui tutto è iniziato; ritorno alla mia gente, al suono della mia parlata e di una me che finalmente torna a ricongiungersi con il suo essere.
A tutti coloro che sono lontani da casa in questi tempi strani.
Tu che vieni da Marte
Tu che vieni da Marte,
io che vengo da Venere,
penso, mentre mi guardi in silenzio a braccia conserte.
Ti guardo con occhi lucidi, mi rispondi con le labbra serrate.
É tutto chiuso nel tuo castello: ogni cancello, ogni porta, ogni finestra.
Da lì non entra il mio vento e neppure il mio canto;
e non vedo spiragli tra le tue barricate,
soltanto cannoni e lame, che ormai conosco da tanto.
Tu che vieni da Marte, io che vengo da Venere
ancora non so come avvicinare i nostri mondi;
io che non conosco le leggi della chimica, posso solo confidare nella sua magia.
Con un passo in più, una carezza sul volto di cera
e possiamo liquefarci, noi finti pezzi di ghiaccio al sole.
Ma non è il momento, mentre stiamo qui a guardarci,
tu sempre a braccia incrociate, io sempre con le ferite al cuore.
E intanto, tu, guerriero, vieni da Marte, mentre io, artista, vengo da Venere,
e lo dico a voce alta perché voglio che lo senti:
sebbene sappia che le mie parole non hanno potere
nella mente di chi lotta e considera soltanto l’agire.
E allora io, abitante di Venere, invoco il tuo stesso silenzio, direttamente da Marte.
Che esso mi avvolga tutta intera, lasciando scoperti solo gli occhi
che ora bruciano un poco, influenzati dal mantello marziale.
Tu che mi continui a osteggiare, eppure del mio silenzio cominci a dubitare:
non ci sono più le mie parole a guidare le tue strategie,
stai perdendo potere, e questo so che non lo puoi sopportare.
Allora, di nascosto, indaghi ogni parte del mio corpo
per tentare di scoprire almeno uno sprazzo di intenzione,
e intanto io sorrido, sono al sicuro,
finché barricata da questo manto nero che ti è familiare.
Tu che vieni da Marte, ed io che uso le tue stesse armi:
come te lo spieghi adesso, questa improvvisa inversione dei ruoli?
Per come ti hanno insegnato, ricalcoli la strategia: vuoi farmi arrendere.
Ma questa volta, non ti rimane che un’unica finestra aperta,
all’altezza dei miei occhi scoperti e infuocati, oramai.
Così, per la prima volta tu mi guardi.
Marte, Guerriero, Narciso: io esisto.
Interroghi i miei occhi con i tuoi, indugi su di loro, sperando di sentirli parlare,
ma questa volta li vedi solamente bruciare.
E adesso, guerriero di Marte, sai che ti rimangono soltanto due scelte:
l’una verso avanti e l’altra verso dietro; che sia arretrare o sia avanzare;
puoi bruciare il mio mondo e ritirarti; oppure issare bandiera bianca.
Io sono pronta, ho avuto tante albe e tramonti, un tempo lungo, per potermi preparare.
Ma nel mentre che scegli, rimani fermo, e ancora le tue braccia formano una X.
E intanto io festeggio per aver scalfito la muraglia
con la mia strategia che si chiama empatia:
quindi alzo un braccio, scostando di poco il mio mantello,
e ancora senza parlare, ti metto una mano sulla spalla.
“Io che vengo da Venere, ripeto che so poco di alchimia, ma credo nella sua magia”.
Te lo sussurro all’orecchio, e innesto un brivido sul tuo collo.
E tu guerriero, impreparato su questo, ecco che piano, vai disfacendo quella X dal tuo petto
e getti le braccia parallele al tuo corpo:
segni di un castello che adesso sta valutando la sua resa;
segni di una Venere potente che, dall’alto, osserva compiaciuta.
Ma ancora non parli, tu che vieni da Marte, tieni la bocca serrata,
eppure mi guardi; mi osservi in silenzio con due occhi meno di ghiaccio.
Quella mia mano ancora sulla tua spalla, ti sta diffondendo il calore della mia terra,
un calore che non sa di fiamme e fuoco dell’inferno, ma di sentimenti e di vita.
Sento il tuo corpo meno in tensione, vedo la tua carne cambiare colore.
Certa che anche Venere ci sta guardando, e che Marte, lui sa che davanti a lei,
la guerra prima o poi dovrà cessare.
Finché il fuoco si trasformerà in rose rosse
e i silenzi diventeranno parole;
finché il vento soffierà piano nel castello dalle finestre spalancate sul mare
e il canto colorerà le sue sale di emozioni.
E da quel tuo sguardo tornato umano, inaspettatamente mi sorridi:
tu che vieni da Marte, io che vengo da Venere
non siamo poi di mondi così opposti;
conosciamo la guerra, conosciamo l’amore,
e tu, guerriero, ogni volta è grazie a me che ti ricordi che hai un cuore.
Are you ready to jump?
-“E quindi ti ha lasciato?”
-” Sí.”, dissi piangendo e con una voce rotta che cambiò il tono della nostra videochiamata.
G. si mise comoda sulla sedia e, mentre sistemava meglio lo schermo del computer per mettere a fuoco la sua faccia, fece un respiro profondo: “E quindi il tuo amore tossico ti ha lasciata.”
-“Sí, ti ripeto, sì”.
-“Di nuovo. A quante volte siamo? Cinque in quest’anno?”
-“No, soltanto tre.”
-“Tre perché fortunatamente c’è stata la quarantena. Sennò sarebbero state cinque”.
-“Per una volta, smetti di essere sarcastica?”.
-“E no. Alla prima volta potevo essere dispiaciuta per te, alla seconda potevo perfino essere seria, ma dalla terza in poi, capisci bene, che il tutto è ridicolo. Nemmeno avessi sedici anni.”.
-“Smettila”, dissi sempre piangendo “e poi, a sedici anni ero ancora una ragazzina felice. Lo sono stata inconsciamente per tanti anni, prima di incontrare questo…”
-“…Questo stronzo. Eh sì, la solita tiritera. Che lui è insensibile, che è uno stronzo, che ti ha sempre fatto soffrire, che è falso, che non ci tiene. E giustamente, con tutte queste “qualità”, ti sembrava coerente andargli dietro così a lungo.” G. non ne poteva più di sentire ogni volta gli stessi discorsi, e questo sentimento arrivava chiaro e forte, anche a tante regioni di distanza.
– ” Sí, ma stavolta è definitivo. Ma lo capisci che dopo tanti anni fa male? Ci si affeziona ai personaggi di una serie tv, ai gattini di Instagram, perfino al figlio di Chiara Ferragni che non ho mai visto dal vivo. Pensa come devo stare io che non potrò vedere e né sentire più tutti i giorni la persona che ho amato così tanto!”.
-“E sai che perdita! Non vedere, né sentire un ragazzo che ti fa dubitare di te stessa ad ogni passo. Una persona con cui devi stare attenta alle cose che dici, a quelle che fai, magari anche a quello che pensi perché lui le capta, lui le presagisce. Poi, magari, queste dimostrazioni di telepatia si dimostrano pure errate e ti ritrovi a chiedere scusa per cose che non hai nemmeno pensato, per persone -ragazzi- che non hai mai guardato, per parole che non hai mai detto. Ma poi ti senti? Lo hai appena paragonato ai gattini di Instagram! Ascolta me, tu ne sei già fuori da un pezzo -sentimentalmente parlando-, è che adesso ne sei soltanto ossessionata. Eppure, ti assicuro che anche l’ossessione, con il tempo, va via.”.
Io annuii; come potevo dare torto alla mia coscienza, la quale, in questo caso, aveva preso le sembianze di una mia amica. Asciugai le lacrime, mi alzai dal letto per mettermi a camminare nella stanza -sempre attenta a non dare le spalle al monitor- poi ripresi a parlare. “Sí, razionalmente hai ragione e io odio avere questi momenti in cui perdo lucidità. Eppure, ad ora è come se fossi solo cuore, non posso non pensare che vorrei abbracciarlo.”
– “Ti assicuro che sei in parte ormoni: la conosco bene quella voglia di “abbracciare” un ex”.
Ex. Otto anni di relazione, sette viaggi fatti insieme, due genitori conosciuti, un trasferimento in un’altra città e qualche mese di convivenza. Eppure, alla fine di questa scalinata non c’era un anello ad aspettarci, ma quella unica e breve parola: Ex. Bam! Porta in faccia. Da questa corsa non si usciva vittoriosi, ma con un’etichetta che ti riportava alla solitudine.
-“Forse hai ragione, ma io senza lui, mi sento spenta.” Stavo per iniziare nuovamente a piangere.
-“Ci credo che ti senti spenta. Lui ti ha cominciato a risucchiare le tue energie fin dal vostro primo anno insieme; fin da quando -e cito-: “vabbè è perché ancora non mi conosce bene”. Eh, no, sbagliato! Perché alla fine della festa non è stato lui a migliorare, a crescere, ad aprirsi, a conoscerti, ma sei stata tu a ridurti, rimpicciolirti, reprimerti. Tanto che quello che era rimasto della tua vecchia te, ha lasciato il posto a una ragazza che non è altro che la sua strana visione dell’amore e del mondo.”
-” E cioè? Come sarei?”, mi fermai e mi risedetti sul letto: temevo quella risposta.
-“La sua visione malata dell’amore ti ha trasformato paradossalmente in un bruco, invece di renderti una farfalla.”
Facemmo una pausa: la consapevolezza di quelle parole mi aveva schiaffeggiato in pieno viso. Tuttavia, con tono più affabile, probabilmente dipeso dall’espressione distrutta del mio volto, G. continuò: “Devi ritrovare i tuoi colori, amica mia!”. E mi mandò in chat l’emoticon di un abbraccio. “Se un tempo eri una farfalla, allora ti assicuro che quella farfalla è ancora da qualche parte dentro di te”.
Io mi guardai le gambe, come se stupidamente fossero il punto in cui avrei ritrovato le ali. G. riprese a parlare: “Tu eri vita, solarità, spuma. La tua arte, la tua pittura, ti rendevano te stessa e facevano sì che tutti si interessassero a te e al tuo carisma, compreso lui; compreso quindi il più grande dei narcisisti paraculo nati su questa terra”.
Io sorrisi non solo per quella descrizione, ma anche perché quell’immagine di me così lontano tornava piano ad affacciarsi da qualche finestra dei ricordi.
-“Riprova a dipingere. Siediti sulla sedia più comoda che hai, prendi una matita, poi traccia su un foglio le basi di qualsiasi cosa tu abbia dentro di inespresso e, infine, aggiungici i colori. E una volta fatto, applica ciò alla tua vita: è così che devi ricominciare, ma da subito!”.
Io non mi sentivo più capace di fare quanto aveva detto con tanta facilità; anzi, era come se non mi sentissi più capace di essere quella che ero un tempo, come se quella ragazza fosse un’altra, come se non fossi mai stata io. Dopotutto, erano passati secoli da quando andavo in giro con leggerezza e vitalità, e da allora, io avevo perso anni importanti della mia giovinezza e mi sentivo stanca e invecchiata dentro.
E poi, questo che significava? Che quegli anni, li avrei dovuti recuperare?
Ma come avrei fatto? Ritrovarmi single a trent’anni e senza un lavoro, era senza dubbio un fallimento. Io ero un fallimento.
-“Smettila di guardare in basso con sguardo colpevole. Pensi che nella vita tutti vadano sempre a mille? Che la ruota non giri e rimanga bloccata? Che il tuo destino non ti spinga, a poco a poco, esattamente dove devi essere? Sapevi già da tempo che sarebbe finita con lui, per non parlare del fatto che eri tu stessa a volerlo perché sapevi che potevi ambire a molto di più per te stessa. E adesso che succede? Invece di sentire che finalmente si rompono quelle famose catene che ti serravano il polso, ti rinchiudi in te stessa, costruendoti una prigione volontaria?”
-“Non è vero” la interruppi bruscamente, sebbene sapessi che voleva solo stuzzicarmi. “Io so rialzarmi e se voglio riprendermi in mano la mia vita, posso farlo in ogni momento.”
-“E allora perché non me lo dimostri?”, il suo tono era di sfida.
-“Levati quel sorrisino, la fai facile te.” Mi alzai nuovamente e ripresi a camminare: “Tu la fai facile: io sono lontana da casa, lontana dai miei genitori, lontana da te e dalle altre. Voi avete modo di riunirvi e scambiarvi un abbraccio, io al massimo posso chiedervi la cortesia di vederci in webcam finché qualcuna non deve andare a cena.
Non ho un lavoro, passo le giornate a cercarmelo, mentre voi tra lo smartworking e il negozio, avete la vostra parte di strada quotidiana da percorrere per raggiungere i vostri obiettivi. E io vi vedo, e sono orgogliosa delle mie amiche e del vostro costruirvi un futuro, crescere, evolvervi. Eppure, ciò non fa che aumentare il divario tra di noi”.
-“E quindi mi vuoi dire che il divario non c’è, soltanto se tu hai un ragazzo?” Eccola, una delle domande-trabocchetto tipiche di G.
Dato che non risposi, lei proseguí: “Secondo te, noi stiamo crescendo perché siamo fidanzate o perché abbiamo un lavoro? Scusami eh, e poi quale divario? Tu hai perso quel lavoro perché l’Italia intera è entrata in lockdown. Ma intanto, se non sbaglio, stavi avanzando di livello ed eri contenta di ciò che facevi. Non mi risulta che non fossi qualificata per il tuo ruolo. Ok, magari come ambiente non era il massimo e tu eri appena entrata, eppure eri contenta di essere finalmente definita una Content Creator per quell’azienda. No, ma attenzione, perché, a causa del tuo imminente vittimismo da “piccola fiammiferaia” delle 19:37 di sera – e che ti ha inculcato Chi-So-Io-, saresti pure capace di dire che il Covid è stata tutta colpa tua. Quindi, già hai detto la prima cavolata.
Ma, a che ci siamo, passiamo anche alla seconda: se per te, il divario che ci divide è che fatturiamo oppure il fatto che la maggior parte di noi è fidanzata, ti ricordo dell’esistenza di quegli elementi del nostro gruppo che hanno brillato di più, specie da quando erano single. Perché non dovresti esserci tu nella lista aggiornata al 2020?
Qui l’unico divario che esiste è fisico: che noi siamo qui e che tu sei lì. E con la tecnologia che ci tiene in contatto, non è neanche tutta questa tragedia. Perciò, questo è l’unico fattore reale a separarci; perché, per il resto, lui avrà pure spezzato il tuo cuore, ma fortunatamente non ha danneggiato irreparabilmente il tuo cervello, che a questo punto deve essere soltanto resettato!”
G. fece una pausa intanto per calmarsi, poiché quei discorsi, frutto di un’insicurezza generata dagli otto anni della mia relazione tossica, erano sbagliati; e poi perché, forse forse, le stava per balenare in testa una soluzione a cui in verità aveva già cominciato a pensare da tempo.
-“Tu credi che essere single significhi sentirsi soli? Ricordi che prima di trovare il mio ragazzo, sono stata sola per sette anni? E che ho fatto nel frattempo? Secondo te, mi sono fermata credendo che “senza il principe che mi salva, allora non sono una principessa”?
-“No” risposi io, che nel mentre rivivevo come un flashback nella mia testa, l’altalena delle sue fortune.
-“No, bravissima. All’inizio ho pianto -vero- e poi successe che, ad un certo numero di lacrime, ho detto che era anche il momento di finirla. Mi sono alzata dal pavimento della mia stanza dove mi ero rannicchiata per lamentarmi della vita, sai, proprio con il tuo stesso modo di fare da vittima che mi stai riproponendo così bene. Poi sono andata alla scrivania, ho acceso il pc e ho cominciato a cercare un’idea che confutasse quella assurda necessità di dover essere per forza una principessa in questa società. All’inizio non sapevo bene cosa stessi cercando, forse un hobby, forse un lavoro, insomma qualcosa in cui impegnarmi. E poi, ti ricordi che è successo?”
-“Ti sei iscritta in palestra”, suggerii.
-“Bravissima. Io che ero l’antisport, mi sono iscritta in palestra e ho perso i miei famosi venti chili.”
Io intanto rimanevo in silenzio: l’esempio da seguire, avevo la fortuna di considerarlo una delle mie più care amiche e stupidamente, prima di quel momento, non ci avevo mai pensato.
-“E poi? E poi mi sono creata il mio giro, e quelli della mia palestra diventarono come una seconda famiglia. Aumentò la mia autostima e intanto andava aumentando anche la stima degli altri nei miei riguardi. E te la ricordi la faccia del mio ex quando tornò da me, chiedendomi perché non mi fossi comportata in quel modo anche quando stavamo insieme? E fu lì che ho avuto una delle soddisfazioni più grandi della vita, dicendogli che era proprio perché stavo con lui che non sarei mai potuta essere quella che poi sono diventata una volta senza di lui.
Alla fine, sappiamo bene come si è sviluppata la faccenda: che da quello che nacque come un hobby salvavita, ne derivò il mio lavoro. E quando tutte le cose cominciarono ad andare da sé, come spinte da un vento favorevole -nonostante qualche errore umano per ricalcolare la rotta- un giorno di primavera il mio ragazzo entrò in palestra. E io lo aspettavo? Lo volevo? Ma soprattutto, ne avevo bisogno?”
-“No. Tu con la tua forza non ne avevi minimamente bisogno”.
-“Esattamente, scimunita che non sei altro. Come ti ricordo anche che il mio negozio l’ho messo su ancor prima di lui.
Quindi, per farla breve: io non voglio mica sentirmi l’eroina scesa in terra per salvare l’umanità o sentirsi migliore di tutti, ma semplicemente ti sto dicendo che se ci sono riuscita io, dopo quanto mi hai vista soffrire, perché non dovresti riuscirci tu che sei e rimarrai sempre una farfalla a cui un tempo piaceva volare?”
Mi batteva il cuore come se mi avessero iniettato dell’adrenalina.
Forse G. aveva ragione: probabilmente da sola, sarei riuscita a splendere, a esprimermi a mio modo, a tirare fuori la grinta e le mie ali. Tanto, ormai, chi mi frenava più? La guardai, rivolgendole finalmente un sorriso che lei ricambiò pienamente, e la sentii vicina, nonostante fossimo separate da due monitor e tanti chilometri di distanza.
-“Ad ogni modo, sto pensando che io ho proprio quello che fa al caso tuo.”
-“Di che parli?”, ero insospettita.
-“Sai perfettamente cosa succederà in questa fase della tua vita. Adesso sei più tranquilla, ma quando chiuderemo il telefono e si farà notte, tu tornerai a pensarci e ripensarci, alimentando l’ossessione. Allora è lì che ti devi ripetere che non è lui a mancarti, ma l’idea di amore che lui ti suscitava, seppur distorta. E finché il tempo non ti metterà accanto qualcuno che ti sappia ricambiare un amore sano e che tu meriti – perché te lo meriti-, allora comincia ad occupare la tua mente in attività da cui puoi trarre qualcosa di concreto.”
-“Cosa intendi? Tornare a dipingere, dici?”.
Lei mi guardò fissa per un attimo e poi mi disse: “Dico di collaborare con me.” Poi si fermò e finì il suo pensiero: “Oltre che tornare a dipingere, ovviamente.”
Io mi sarei aspettata di tutto, fuorché quella proposta. “Ma in che senso? Dimentichi il divario diatopico del quale ci siamo lamentate entrambe?”.
-“No, che non lo dimentico. E nonostante ciò, io ti sto facendo questa seduta terapeutica, con tutto che non siamo nella stessa città e con tutto che io non sono una psicologa, soprattutto.”
Io risi, abbassando il viso timidamente. “Hai ragione, ma sei tanto brava. Ad ogni modo, vorrei davvero capire cosa mi stai proponendo.”
-“Mi sto appellando alla Content Creator che c’è in te; mi sto appellando alla tua capacità di inventiva che non si è mai assopita in questi anni e alla tua abilità di usare quel mondo a me sconosciuto dei social e di Canva. Insomma, diventa la mia Social Media Manager.” E nel dire questa frase, allargò le braccia a mo’ di “vieni a casa”, seppur solo con il pensiero.
-” Io, la tua Social Media Manager? Ma sai perfettamente che ancora non sono molto pratica e che vado a braccio. E poi non credere che sia così brava.”
-“Aridaje, qui il gattino di Instagram spaventato sei tu. Guarda, io ti propongo di saltare e tu te la fai sotto. Insomma, salta sulla mia barca; tanto conosci me e conosci la barca. Inoltre, qui, il Capitano -che sarei io-, conosce te e le tue paturnie, ed è nonostante quelle tue paturnie, che ti vuole a bordo. Questo è l’amore! Impara, amica mia!”
Sebbene fossi lusingata, ero davvero impaurita; non volevo deludere nessuno, soprattutto lei. Tuttavia, dopo quella conversazione terapeutica con un’amica che era più una sorella -e che in quel momento mi stava dando sia la sua mano che tutto il braccio-, a quel punto ero io a non voler deludere più nemmeno me stessa.
-“Oh, ci sei? Dimmi qualcosa. Guarda che se non te la senti, io lo capisco. Poi però chiudo la videochiamata e ti prendo a male parole per messaggio. Eppure sappi che, cioè, io ti capisco.”
Feci un respiro profondo per prepararmi a saltare.
Allora ricambiai lo sguardo serio di prima e poi saltai: “Va bene, ma sappi che non avrò chissà quante e quali idee. Inoltre, ricordati che non conosco bene il ramo del fitness e quindi, sappi che non so quanto potrò essere creativa.”
-“C’è altro?” disse G., fingendo di sbuffare e alzare gli occhi al cielo.
Ci pensai un attimo:”Sí. Che farò mille errori, sicuramente. Tienilo in conto, cioè io ti ho avvisata e a quel punto, se accadrà, ricordati che non puoi prendertela con me.”
-“Bene”, G. si rimise dritta sulla sedia e con uno sguardo acceso, concluse: “questo vorrà dire che saremo sulla strada giusta per trovare la vetta. Insieme”.
Una mezzoretta dopo chiudemmo la chiamata: io ero esausta e piena di dubbi, eppure quella notte dormii stranamente bene.
– Un mese dopo-
-“Buongiorno, mia cara! Allora, il programma della settimana è pronto. Ricordati che pubblicherò questi file che ti sto mandando agli orari che troverai nel Pdf che ti ho inviato ieri notte…”.
Intanto G, di tutta quella frase detta d’un fiato, capì soltanto la parola Pdf, senza nemmeno saperla inserire all’interno del contesto. Riuscì a scandire a malapena qualche parola, mentre si rigirava nel letto: “Ma sono le otto del mattino, come fai ad essere così carica?”.
-“E che ti devo dire, sarà questa marca di caffè che bevo. Insomma, mi ascolti? Abbiamo ottenuto trecento nuovi followers in un mese! Il piano editoriale che ti ho scritto, funziona!”
G. intanto si sistemò meglio il cuscino sotto la testa: “Ed è una cosa stupenda, ma adesso per favore, parla più lentamente e dammi il tempo di svegliarmi. Non sono mica una Staca come te.”
É vero, andavo a mille e avevo energie da vendere; una sensazione ritrovata e, per questo, bellissima. Tuttavia, a quelle parole, rallentai quasi un attimo per capirne meglio il senso: “Una Staca?”.
-“Staca, Stacanovista.” G. riuscì a balbettare, alzandosi finalmente dal letto, mentre si toccava i capelli arruffati.
-“Beh, colpa tua” ripresi lentamente “che quando un mese fa avevo bisogno di specchiarmi e vedere il mio riflesso, invece di rimandarmi l’immagine di una fallita, sei riuscita a far sì che tornassi a credere nuovamente in me stessa. Per cui, in quanto tua Manager, ti dico che ti devi svegliare e andare a fatturare!”.
Così, ripresi a muovermi da un punto all’altro della cucina, e mentre posavo la tazzina del caffè nel lavandino, intanto finivo di riorganizzare nel mio telefono i post da pubblicare di lì a poco, con G. ancora in vivavoce.
-“Sticazzi, Staca. Ho creato un mostro”. G. aprì le serrande della finestra della sua camera da letto: il cielo era sereno nella sua città.
E non chissà quanto lontano da lei, anche il mio cielo era sereno quella mattina. Sebbene avessi chiuso la chiamata, non mi sentivo più così lontana dalla mia terra, così a sud dal posto in cui mi trovavo, poiché da circa un mese tornai a sentirmi di nuovo sotto un unico tetto che mi univa a quelli che erano i miei veri affetti stabili. E con loro, potei sentirmi vicina anche alla mia amica, che da questa quarantena, tornò ad essere mia collega; sebbene adesso con un’accezione diversa, rispetto a quando ci conoscemmo all’università.
No, che non mi sentivo sola, guardai fuori dalla finestra e il giardino di maggio rifletteva i suoi colori nei miei occhi. I colori, quei colori, li stavo finalmente introiettando in me; tornavo a sentire nuovamente le ali sbattere da qualche punto del mio petto e spingere le mie gambe a muoversi a ritmo di musiche allegre.
Poi ad un tratto vidi una coppia che passeggiava nella via: il ragazzo aveva la stessa maglietta che io regalai a…
Mi fermai, chiusi gli occhi e immaginai la vetta: step by step. Il primo obiettivo era quello di far raggiungere molti followers a G., così che potessero conoscere il suo negozio. Quindi, fare un buon lavoro e ricambiare un giorno, quell’enorme aiuto che la mia amica aveva dato a me, impegnandomi a diventare brava nel mio mestiere.
Fu lo squillo di un messaggio a distogliermi bruscamente dai miei pensieri e farmi tornare alla realtà.
“Allora, pubblichiamo?” Era G. che evidentemente era risorta.
Andai sull’account Instagram di Body Store Giulia Sirchia , poi cliccai “Nuovo contenuto”; scelsi la foto che avevo già editato giorni prima -un arcobaleno di colori-, così aggiunsi gli hashtag, il luogo e la didascalia.
Mi chiedeva di premere ok, di confermare, di saltare ancora una volta.
“Ok”, dissi ad alta voce. In sottofondo, alla radio passava “Jump” di Madonna.
Accettai il consiglio.
E così saltai ancora una volta.
Preghiera
Guardo accanto a me e tu non ci sei.
Vedo solo un letto vuoto e un lato freddo da troppo tempo.
Non ricordo più nemmeno il tuo profumo, come la tua voce o il tuo viso.
Eppure sento l’assenza; la mancanza di una parte di me stessa che usciva allo scoperto solo in tua presenza.
Vedi, non so se mi rivolgo a te come a una persona o a un concetto, ma so solo che ho bisogno di parlarti. Sì, rivolgerti frasi, parole brevi e profonde, per poi immaginare tutte le risposte che mi facciano tremare la carne, che mi riscaldino nuovamente il cuore.
Non so nemmeno perché senta questa esigenza di scrivere a un’assenza: fossi qualcuno di esistito, ti chiamerei fantasma. Piuttosto, cominci a diventare un amico immaginario che vorrei chiamare amante, ma cosa direbbe questa società, se le dicessi che amo un’idea?
Un’idea di te, un’idea di uomo che non esiste. Sei esistito o non sei esistito, Amore, poco importa, perché la versione che ho di te adesso è impalpabile e sublime.
Sei trasparente e come ossigeno invadi tutto, tanto che ho bisogno della tua presenza, seppure nella tua assenza.
E allora con queste parole nere su fondo bianco, io traccio i tuoi contorni; che scriverti è sempre stato il mio modo di toccarti, seppur da lontano.
E guardo questo letto accanto a me, così spoglio, trasformandolo con gli occhi della speranza in un giaciglio che già preparo per accoglierti.
Accogliere te, Amore, per quando ti sarai materializzato in un altro corpo , allora avrai occhi e capelli nuovi da indagare col mio sguardo per la prima volta.
Aspetto quel momento più del solito, in queste sere dove la tua mancanza pesa come una presenza; ma una di quelle tossiche e che fanno male.
Potesse abbandonarmi per tanti anni la malinconia, probabilmente sarei meno profonda di quello che sono adesso; chissà, magari anche parte della sofferenza mi sarebbe risparmiata e, una volta incontratoti, sarei più leggera, invece di essere quella che sono ora: fin troppo attenta, insicura, imperfetta. Questo è l’effetto che mi hai lasciato, quando per l’ultima volta ti ho visto andare via; da allora ho sentito un bisogno, partire dalla bocca del mio stomaco e trascinarmi via. Con quel masso, ho dovuto camminare a lungo da sola nel deserto, nell’attesa che riducesse il suo volume. Di sicuro, quella è stata la medicina più amara, l’ora più dura della mia esistenza, ma che ho dovuto sopportare pur di curarmi, pur di ritrovarmi.
E chissà, magari, che tu non preferisca la versione senza ferite; una bambina che corre sorridente come se niente al mondo le avesse mai sbucciato il ginocchio.
E chissà anche se quella diversa me attirerebbe Te? Te, per come ti immagino in base alla me di adesso. Se la risposta è sì, allora Tu, verresti attirato da una ragazza che mi somiglia nell’aspetto, ma che nell’anima non sono io.
Se, invece, la risposta è no – perché noti che le manca un sapore che non sai spiegarti – questo significa che verrebbe attirato qualcun altro.
Ed infine mi chiedo: Io, la me di adesso, verrebbe attratta da quest’altro che ti somiglia, ma che nell’anima non sei Tu?
Basta. Fermiamo il flusso e torniamo al punto in cui ci siamo io e te: dove Io sono Io post-guerra e Tu sei Tu, il pezzo combaciante in questo puzzle a due.
Ed è per questo che quando arriverai, Amore mio, purtroppo ti prenderò in braccio con la stessa paura di una madre che per la prima volta tiene in grembo il proprio bambino: così perfetto, un miracolo piccolo e fragile che basterebbe un soffio di vento a spazzarlo via.
Dopo tanto dolore, dopo che questo cuore è stato spezzato e più volte triturato da te, sì da te, che mi confondevi attraverso altre sembianze che non ti appartenevano, adesso mi è rimasta la paura di vedermelo frantumare nuovamente.
Come posso sopravvivere a un ennesimo inferno?
Il mio cuore, come la mia testa, non reggerebbero più come un tempo.
Un conto è avere il cuore spezzato a poco più di vent’anni, un conto è che ciò succeda nuovamente dopo che sono passati anni da quella ferita finalmente cicatrizzata. Riaprirla, farebbe doppiamente male. Non è un segreto la fragilità umana: io e te lo sappiamo che, in quel caso, si tratterebbe della sua sentenza di morte e della nascita di un cinismo che rischierebbe di rendermi eternamente un’isola, poiché incapace di riconoscerti, anche se mi passi davanti.
Ma c’è ancora tempo, mi ripeto, finché guardo questo letto vuoto sempre con la medesima speranza che venga riempito. Eppure, io sono qui che ti (e)spero ancora con tutta la mia forza e perciò:
io ti prego
di notare la fatica nel mantenere in vita quella vecchia parte di me, romantica sognatrice, sopravvissuta alla catastrofe e desiderosa di superare vittoriosa altre notti nuvolose come questa.
Tuttavia, è pur vero che io stessa non mi conosco all’interno di una vera relazione, dove l’amore è equo e sano: che tipa di ragazza sono? Veramente una di quelle temono? Che si sottomettono? Che si difendono? No. Non voglio credere che vecchi errori non mi abbiano insegnato nulla nella maturità, specie dopo tanti anni di desertica solitudine.
Quel carattere che un giorno, un ragazzo mi disse di non avere, ce l’ho. Quella necessità di avere qualcuno per forza, al mio fianco, era solo un falso giudizio dato da chi non mi conosceva affatto.
Perciò, Amore, ho superato le tre sfide: la solitudine, il silenzio e la dignità.
È tempo di lasciare nuovamente posto alla primavera.
E di nuovo ti prego,
tu che arriverai: sii paziente e buono con me.
Non sarò perfetta, non sarò la migliore e ce ne saranno molte da prendere al posto mio. Eppure, posso dire già da ora e con tutta sicurezza, che se ti amerò, allora ti amerò con tutta me stessa e che se davvero ci troveremo, allora sarà un amore senza mezze misure, senza falsi sì, né dolori.
E che se questa preghiera ti condurrà da me, allora non ci sarà nessun “aspettami che poi ritorno”; perché sappi che in cuor mio, anch’io ho ascoltato la tua silente preghiera, e con lo stesso religioso silenzio ti faccio una promessa e in sua virtù,
ti rimarrò al fianco,
per tutta la mia vita.
Amen
Il cappello di paglia
Richiusi dietro di me la porta della mia camera d’albergo e misi il passepartout nella borsa del mare che avevo in spalla. Mi aggiustai il cappello di paglia che non avevo mai voluto mettere prima di allora, ma che, tutto d’un tratto, assunse completamente un altro sapore.
Quel giorno, il quadro era perfetto così: io con i capelli ondulati, il mio cappello di paglia, il costume sgargiante finalmente riesumato dopo un lunghissimo anno e il profumo della crema solare sul corpo.
Camminai lungo il corridoio bianco e azzurro, superando ogni porta: 205, 204, 203. Soltanto per un attimo mi soffermai ad osservare il mare che mi stava chiamando dalla grande finestra aperta; potevo nuovamente godermi quel venticello leggero che tornava a rinfrescare l’aria oltre ai miei pensieri.
Fu, credo, in quell’attimo che cominciai a realizzare di sentirmi come in una grande festa a cui ero stata invitata, mentre gli altri convitati erano già di sotto, che mi aspettavano, distesi nei lettini della piscina che luccicava.
Entrai in ascensore e mi imbattei negli altri ospiti dell’hotel, sorridenti e trepidanti di scendere nella hall, come se fossimo tutti reduci dall’inferno e non avessimo fatto una vacanza da tantissimi anni.
Superai la terrazza del buffet dove c’era ancora chi faceva colazione a base di croissant, aranciate e caffè; sapessero cosa mi ero divorata io, soltanto qualche ora prima e in compagnia delle mie altre compagne di viaggio.
Arrivai in piscina: un’enorme piazza con un prato, un bar, sdraio, tavolini e ombrelloni. Sembrava di stare all’interno di un grande teatro di colori e voci, ulteriormente vivacizzato e riscaldato da un meraviglioso sole di luglio.
Mi alzai la visiera del cappello per cercare le altre più mattiniere di me e subito le trovai che mi facevano segno:
-“Vale, siamo qui! Ti abbiamo preso una sdraio!”.
Ricordo quanto mi sembrasse di sognare: mi sarei quasi pizzicata per provare a me stessa che quella era la realtà e che mi trovavo davvero in vacanza.
“Vacanza”, ripetei a bassa voce, un concetto che a ben pensarci, anche soltanto pochi mesi prima, mi sembrava quasi fantascienza.
Eppure, adesso ero di nuovo libera; libera di sentirmi in un mondo a parte, governato dalle leggi della leggerezza, della spensieratezza e di una ritrovata joie de vivre che potevo tornare ad applicare alla mia vita.
Insomma, si era concluso l’inverno e io avevo finalmente dismesso i cappotti di ansia, paura e solitudine. Prima di partire, li avvolsi nel cellophane per conservarli con la naftalina, all’interno di un armadio, nell’angolo di quella prigione in cui ero stata rinchiusa per un anno eterno.
Era tornato il tempo del mare e delle sue onde che scorrono senza padrone; era tornato il tempo del sole caldo, dei sorrisi e degli abbracci reali, dati a quelle persone che, nonostante la distanza, non si erano allontanate di un solo centimetro: come le mie amiche.
Dunque, le raggiunsi: mi tolsi il caftano bianco, lo misi in borsa, poi poggiai il telo sulla sdraio; ma il cappello di paglia, quello me lo tenni addosso a fare ombra agli occhiali da sole. E mentre controllavo per l’ultima volta il cellulare, prima di abbandonarlo indefinitamente nel porta oggetti, sorrisi tra me e me, nel sentire la conversazione in corso tra le ragazze.
Una di loro: “Dai, finitela di bagnarmi con lo spruzzino che mi si rovina il libro!”
-“E ancora con questo libro! É da quando sei arrivata che sei tutta concentrata e alla fine sei sempre al primo capitolo!”.
Poi un’altra voce si aggiunse al coro :”Io sto cambiando nazionalità per quanto mi sto abbronzando, chi si fa un bagno?”
Risposi io: “Dammi un secondo, poso tutto e ti raggiungo”.
-“Ragazze”, d’un tratto, un’altra nostra amica arrivò da qualche altra parte della piscina, bagnata e con un sorriso sgargiante: “ma lo avete visto il bagnino?”
Rispose la lettrice, ancora distesa nella sua brandina: “hai detto panino?”
Ancora, fui io a rispondere: “Se! Panino! Hai di nuovo fame con tutto quello che ti sei finita a colazione?”
-“Ah, a proposito, per che ore abbiamo prenotato quel massaggio con il nome strano? Era alle 2 o alle 4?”, chiese l’amica che ancora mi stava aspettando per farsi il bagno.
-“Alle 3! Mi raccomando, continua a stare sotto al sole tutto questo tempo e senza neanche un cappello, e vedrai come tra poco ti dimenticherai pure come ti chiami!” e così dicendo, ritornò al suo libro.
-“Beh, è quello l’obiettivo. Insomma, Vale, ti sbrighi che voglio buttarmi in acqua?”
E nel mentre, io pensavo a quanto fosse bello poterle sentire battibeccare giocosamente sul nulla, di nuovo dal vivo e non più su una chat di whatsapp.
Infine, ci raggiunse l’ultima componente del gruppo: “Per caso, lo volete uno Spritz?”
-“Ma sono solo le 11 del mattino…”, dissi con una decisamente scarsa convinzione e con quel poco senso di responsabilità rimastomi da quando misi piede in quel posto a sud di Fuerteventura.
-“E allora? Sai che sono una dottoressa e quindi ti prescrivo tre Spritz prima del pranzo al buffet”.
Ed ero finalmente lì: in quel famoso posto giusto, al momento giusto e con le persone giuste. Una combinazione che cominciavo a dubitare potesse esistere ancora nella vita, in una vita considerata “normale” e che prima davo per scontata. Ero di nuovo pronta; pronta per poter assaporare nuovamente quell’acqua azzurrina dopo tanti mesi di sete, e mi sentivo già quasi tra l’essere guarita e rigenerata da tutto questo contesto -molto alla S&C- e che ho provato a rievocare in questo scritto.
Al che, nascosta dal mio cappello di paglia, mio amico ritrovato nel fondo dell’armadio e che mai seppi apprezzare come in quei giorni così leggeri, continuai a sorridere silenziosamente, quasi in preda ad un lieve solletico al cuore. E così, dopo una lunga pausa di finta e ponderata riflessione, conclusi:
– “E che Spritz sia.”
Alle mie amiche.
Questo luogo
Sono io, questo luogo.
È assurdo da spiegare,
ma ci sono dovuta nascere per coincidervi così tanto.
Io non sarei io,
senza la sua presenza costante
che fin da sempre penetrava dalla finestra della mia camera.
Giorno e notte
Estati e inverni
In mia presenza e durante le lunghe assenze.
Lui continuava ad esserci.
Io sono questo luogo,
Io mi ricordo -me stessa mi ricorda- questo luogo.
Come un profumo, e questo luogo è il mio profumo.
Tanto che se fossi una terza persona e ci andassi,
nel guardare l’isolotto beato in mezzo alle onde del mare,
spontaneamente penserei:
“Valeria…”.