Camminavo da sola, come sempre, tra le opere di un museo troppo grande.
Camminavo da sola, eppure in ottima compagnia, la mia. E la mia compagnia era fatta di tante altre compagnie che insieme componevano la mia persona: c’era la Curiosità, l’Indipendenza, il Coraggio; c’era la compagnia della Forza e anche di una leggera presenza, chiamata Insicurezza. Ad accompagnare i miei passi e gli occhi, dopo di loro, si sentiva anche un poco di quella compagnia tipica della signora Solitudine, che con un pizzico al braccio ha riportato la mia attenzione proprio su quel quadro.
Signora Solitudine, tra le mie compagnie, era in disparte e più distanziata: divisa in due, lei sorrideva e piangeva allo stesso tempo, nel vedere gli amanti ancora abbracciati.
Sorrideva insieme alla sua compagna Speranza, nel vederli così uniti, stretti, avvolti, avvinghiati in una massa unica, e piangeva insieme alla sua più fidata amica Malinconia, nel sentire il dolore di un amore folle, che fa bruciare le carni dall’interno e ti consuma l’anima.
Stavo davanti al quadro da sola, senza essere da sola. Stavo davanti al quadro e ragionavo sul quadro con me stessa e di me stessa.
Gli amanti stanno per staccarsi, stanno per allontanarsi, stanno per mancarsi, bruciarsi, appassirsi e lo presagivo da un abbraccio.
Eppure stavano lì, cristallizzati: i capelli di lei mescolati nelle carni di lui, ancora uniti, ancora inseparabili.
Mi fermai a riflettere sul loro futuro: lo vedevo pieno di treni e aerei che li avrebbero portati ai lati opposti dei loro mondi. Lo vedevo malinconico, dolente eppure intriso di una profonda conoscenza delle pene dell’animo umano.
Mi figuravo le due sagome, ben vestite e con qualche ruga in più, a camminare sicure di sé per qualche strada di una qualche città dal nome sfocato, con ognuno la propria routine che suonava come un ritornello avvilente nella testa.
Li vedevo avanzare distratti e un poco spenti su due marciapiedi diversi e terribilmente lunghi, che, se fossero stati accostati, sembrava quasi portassero a un unico punto di arrivo; allo stesso modo di due rette parallele che in quel famoso punto lontano all’infinito, trovavano la loro convergenza.
Quante corazze formavano quei vestiti; quanto erano spenti i loro sorrisi scambiati con i passanti. Se avessi potuto scrutare dentro le loro maglie, aldilà dei loro petti, i loro cuori, li avrei, per caso, trovati di ghiaccio?
Il loro cammino seguiva all’unisono, come al ritmo di un unico passo. Finché il destino pose davanti a loro uno delle infinite scelte millesimali, tanto banali da poter cambiare l’intera esistenza: entrambi i marciapiedi stavano esaurendo i pochi metri ancora da calpestare; dunque la scelta ricadeva solo sull’attraversare la strada o continuare a seguire la scia dei san pietrini, girando l’angolo.
Eppure nella vita di tutti i giorni, quando andiamo a lavoro o torniamo a casa, giriamo moltissimi angoli, pur non sapendo chi e cosa ci sarà dietro. Se decidiamo di attraversare la strada, nulla compare all’improvviso; il mondo si mette sempre più a fuoco davanti a noi. Eppure se giriamo l’angolo è tutta un’incognita nelle mani del destino.
E allora l’uomo e la donna continuano a camminare nei due marciapiedi diversi di chissà quale città, fino al punto in cui bisogna scegliere se fare parte di un destino che ti lega instintivamente a qualcosa da quando sei nato oppure se fare parte di un destino che, apparentemente, ti sembra di aggirare e governare, scegliendo di cambiare strada.
L’uomo decise per primo e il suo atto di volontà lo portò ad attraversare la strada, arrivando a un angolo della città con un fioraio ricolmo di vasi con tanti steli lunghi e piccoli fiori gialli. La donna, invece, lasciatasi trascinare dal moto delle sue gambe, girò l’angolo senza attraversare la strada, e nel farlo venne colta da un improvviso e delizioso profumo di mimose.
Stavo davanti al quadro di un museo troppo grande, ma pieno di vicende da narrare ed ero in compagnia di Solitudine che smise di piangere, con Speranza e Malinconia che si tenevano per mano.
Ed eccomi tornata nel mio piccolo albergo viennese, seduta a scrivere le impressioni sulla poltroncina in velluto grigio accanto alla finestra che da sul parco innevato. Come fosse davvero andata tra gli amanti avvolti nel “L’abbraccio” di Schiele, non lo sapevo né mai lo saprò, ma di certo la mia amica Immaginazione, in mezzo a tante compagnie vaganti, mi fece sognare a lungo, raccontandomi proprio una bella storia.