Pensiero e sentimento

Una marea

Avevo bisogno di una finestra sul mare, di due ante che si aprissero verso i miei desideri.
Non si scrive soltanto quando si è tristi, ma lo si fa anche quando si ha tanto da dire. E questo “tanto da dire” è una marea che mi sconquassa dalla testa, al petto, allo stomaco. Non posso rimanere impassibile alle sue onde.
Dall’interno del mio microcosmo, allora ho bisogno di guardare fuori. Non è il caos della città a richiamare la mia attenzione, nè la quiete di una distesa di montagna. È il mare, è solo il mare che mentre sembra dormiente, in realtà si muove. Che mentre sembra annoiato, in realtà intrattiene infiniti discorsi con il cielo, con la terra e con tutti gli occhi che lo guardano.
Allora il mare è la mia cura, il mio riflesso, da sempre la mia casa. E quando lo guardo non ho più bisogno di dovermi perdere in parole e discorsi, perché lui assorbe tutto il fumo di questi tempi. E quando scrivo e ogni volta lo nomino, è perché anche il sol pensarci, mi calma.
Dopotutto è così che si fa con gli esseri che si amano, quando sono lontani. Ci lega solo il pensiero. Ed io negli anni mi sono allenata con il mare; e così, tutto quel non detto, è stato detto, e tutto quel fumo man mano si diradava.
Ed anche io, seppur distante, in un angolo dei miei pensieri, ho pur sempre continuato a sentirmi a casa.

Racconti, Racconti & Poesie

Davanti al mare

Profumo di gelsomini in un giorno di maggio.
Rumore di tacchi e dei primi ventagli che sventolano.
Voci di bambini al di fuori del silenzio della grande chiesa e una moltitudine di persone dai volti conosciuti, in attesa.
E allora arrivi tu, che saluti tutti quanti, tremando e sorridendo insieme e ti dirigi subito verso il prato, superando lateralmente le file di sedie bianche immerse tra i fiori.
Il prato è umido, eppure il sole delle cinque lo riscalda delicatamente mentre viene pettinato da un venticello leggero.
Sei nervoso, ma vuoi dissimulare: dopotutto fai cose ben più “difficili” nella vita, tu che usi il sorriso per dare forza agli altri, questa volta ti servirà per darla a te stesso.
Eppure l’odore della salsedine lì vicino ti calma; anzi, quando senti che la tachicardia ti annebbia i sensi, spingi tutto il tuo corpo ad abbracciare la presenza del mare. Arrivi perfino a sentire il debole rumore delle onde che si infrangono sullo scoglio al di sotto del prato, ed è lì che pensi a me.
Continui a salutare gli altri ospiti: vedi tua madre e tuo padre prendere posto, guardi il tuo migliore amico che ti abbraccia e ne rimani ancor più confortato. Il suo sguardo, come quello di tua madre seduta davanti a te, sono sempre stati il metro di giudizio per capire la validità di una tua scelta e, vista la loro espressione serena, quella doveva essere proprio la scelta giusta.
L’orchestra accorda i violini e vedi come l’arpista sistema accanto a sé il suo strumento degli angeli. Allora ridi tra te e te: “immagina se ci fosse un ukulele”, ed ecco che ancora una volta ripensi a me, sentendoti meglio.
Ed io intanto sono lontana. Immagino ad occhi chiusi i preparativi attorno a quell’archetto fiorito sul prato della chiesa che si affaccia sul mare, mentre vestita di bianco, sono attorniata dalle mie amiche di una vita e da mia madre, che ancora hanno la stessa espressione incredula di quel lontano giorno in cui dissi loro che avevo finalmente incontrato qualcuno.
Entro in macchina e, per una volta, accorciare le distanze non è stato mai così facile. Come una calamita venivo attratta dal mare, dallo stesso mare che ogni volta mi riportava da te.
Mille pensieri, le chiacchiere felici di mia madre, il velo ovunque, tutti dettagli che resero fin troppo breve quel tragitto che ci riuniva. Eppure io non ero tranquilla, tanto che per calmarmi, provavo a pensarti, ripercorrendo i lineamenti del tuo viso e ripensando a quel modo dolce con cui i tuoi occhi mi hanno detto che avrebbero sposato i miei. E questo accadde ancora prima di conoscerci, ancora prima di innamorarci: accadde che i tuoi occhi mi parlarono per caso in una sera qualsiasi di dicembre, quando ti incontrai nel mezzo di facce conosciute, in un grattacielo di Manhattan.
L’autista si ferma davanti alla chiesa, ed io, che per distrarmi, cerco di paragonare il valzer che sentivo nello stomaco, a quello provato altre volte nella mia vita: per la mia laurea, ad esempio, o per qualche altro evento nel quale io avrei dovuto parlare in pubblico e da quel momento sarebbe cambiata la mia vita.
Mia madre aveva già l’occhio lucido, come le mie amiche – che però lo dissimulavano meglio-.
Comincio a salire la scalinata della chiesa e proprio tra il primo e il secondo gradino dell’entrata, il pensiero del nostro primo litigio mi sferzò un colpo allo stomaco talmente forte da confondermi e da farmi allentare il passo. Quei problemi gonfiati a dismisura da parole e paranoie,  riuscirono a rovinare i nostri giorni di pace. E subito ecco il secondo colpo sulla milza, il litigio del 13 marzo: noi trentenni a litigare per incomprensioni nemmeno degne dei diciottenni; io che volevo farti capire le mie ragioni e tu che andavi somigliando sempre più a un sordo muro.
Un altro colpo: la tua improvvisa gelosia in quella sera di luglio ed io che ridevo, per quanto te la stessi prendendo ingiustamente per una cosa mai esistita.
La mia amica nota qualcosa dal mio viso e mi prende a braccetto: “Se hai una guerra in corso nella tua testa, vedi di scoprire chi è il vincitore prima della fine di questa scalinata”.
Un vincitore? Un vincitore significava andare avanti o scappare per sempre; significava dare peso ai momenti negativi, ai difetti, alle situazioni scomode come se non ci fosse una soluzione dettata dagli anni, dalla maturità e dall’amore. Oppure significava far prevalere la speranza che quei momenti negativi sarebbero arrivati e se ne sarebbero andati subito: significava terminare la scalinata, sorridere a tutti, sorridere a lui, e fare un passo a cui non avrei più potuto porre rimedio e solo per fiducia nell’amore.
Allora la mia amica continua con quello che risulta essere uno dei discorsi più profondi e anche più brevi della sua vita probabilmente, peraltro sussurrati piano al mio orecchio nascosto dal velo: ” qualunque sia il vincitore della tua battaglia interiore, non avere paura di declamarlo. Non è ancora troppo tardi”.

A quelle parole mi venne in mente uno degli ultimi litigi che abbiamo avuto proprio pochi giorni prima che mi chiedesse di sposarlo. Quella sera mi disse che era ovvio che gli andasse bene che io progredissi nella vita e sopratutto nel lavoro; accettava anche che avessi molti amici uomini e che molte delle persone con cui avevo a che fare nell’ambito lavorativo erano di sesso maschile. Accettava la mia apertura verso il mondo e il mio voler aiutare anche gli sconosciuti. Nonostante ciò, vi era un punto che gli veniva difficile dominare: le partenze. Quando in lui si è sviluppato un amore maturo nei miei confronti, io ero una giovane curatrice in erba che viaggiava non solo per amore dell’arte, ma anche per crescita professionale e personale. Nel mio ambito, conoscere luoghi, culture, persone è fondamentale come leggere libri e giornali. I viaggi, le partenze, gli aerei che ci hanno divisi tante volte, avrebbero continuato ad esistere, seppure con un anello al dito che ci avrebbe legato ancora più fortemente, insieme a quell’amore con cui abbiamo combattuto il tempo e i chilometri.
Così io gli ho spiegato che la mia personalità, la mia voglia di fare e la buona riuscita della mia carriera, si basavano su quei viaggi e sulla libertà di affrontarli a mente serena e sentendomi supportata. Io sarei stata una farfalla dalle ali tarpate senza di essi e lo sarei stata anche senza la mia spontaneità, e sicuramente non sarei stata la ragazza che lui diceva di volere accanto a sé per tutta la vita.
Dormimmo separati quella notte: non ci dividevano paesi, né città, ma due case. Infatti lui tornò a dormire dai suoi genitori dopo aver digerito il mio discorso del “o così o in nessun modo” davanti a una birra e una giuria di amici.
Quella notte dormii malissimo e non perché non ero più abituata a non sentire il suo profumo nel letto accanto a me, ma perché quel silenzio e quella stanza più vuota del solito mi diedero modo di pensare a tutte le ombre che io avrei dovuto accettare di lui, in una nostra vita insieme.
Nonostante tutto, la decisione maturata proprio prima di addormentarmi fu la seguente: sentivo che avrei potuto anche accettare le sue parti negative, purché fossero superate in numero dalle sue parti positive, purché fossimo disposti entrambi a venirci incontro e ancora purché entrambe le sue parti negative e positive portassero lui -in anima e corpo- di nuovo accanto a me. Dunque vi erano ben tre e massicci purché in questa scelta, ma dopotutto stare insieme non si è mai trattato di una passeggiata.
Catastrofica come sono, presi sonno poche ore prima per svegliarmi alle 8 e organizzare subito il successivo viaggio di lavoro per Vienna: consideravo già che mi sarei fatta forza partendo e andandomene, nel caso in cui lui mi avesse lasciata. Dopotutto è così che facevo ogni volta a vent’anni.
E in quel momento il telefono squillò: era lui.
“Prima che tu dica qualcosa” dissi io senza dargli modo di parlare “vorrei dirti che…”
Ma lui mi raggelò con un glaciale “Dobbiamo parlare”. E siccome i discorsi seri arrivano sempre nei giorni più complicati, a condire il tutto c’era il fatto che quella sera saremmo dovuti andare a un concerto: un concerto che si trovava pure in un’altra città, una città che a sua volta era da qualche parte fuori dall’Italia, in un punto che tutti chiamano Inghilterra.
Quindi con il mal di pancia che di botto prese a strozzare le parole, riuscii solo a chiedere in modo confuso: “E il concerto? E il volo per Londra?”. “Vediamoci dopo pranzo in aeroporto, stacco da lavoro e vengo direttamente lì”, la sua sintetica risposta inversamente proporzionale alla mia ansia in fermento.
Mi vuole lasciare durante il viaggio per Londra. No, mi vuole lasciare durante il concerto dei Coldplay a Londra. No, meglio! Vuole lasciarmi dopo il concerto, al ritorno da Londra, sempre su uno dei miei dannati aerei per rimarcare e sottolineare il fatto che non può tollerare la mia vita. Va bene, io non mi tiro indietro, che me le dica in faccia queste cose, ed io sarò impassibile. Riderò mentre sorseggerò la Coca-Cola che vendono a ben 5 euro sui voli che chiamano low-cost e sarò tranquilla. Dentro sappiamo tutti che morirò, ma cascasse il mondo, non gli darò mai questo sazio.
E questo fu un assaggio di quel flusso di coscienza che ebbi dopo il suo semplice “dobbiamo parlare” delle 8 e 15 e due secondi di un mattino “ansiogeno”.
Ed eccomi all’aeroporto, mentre lui era già seduto davanti al gate per London- Stansted. Immaginavo di vederlo con quella faccia livida, tipica delle migliori litigate in termini di serietà. Mi avvicino, poso la valigia per terra, lo guardo e lui si alza e mi stringe fortissimo tra le braccia. Io tremavo, perché non capivo il significato di quella reazione: “forse, da signore, vuole lasciarmi in quel modo prima di partire. Forse così la decisione sarà solo mia: se salire sull’aereo insieme a lui, oppure no”, di nuovo il mio flusso di coscienza che continuava a perdere incontrollato dalla mia testa come un lavandino che gocciola.
“Sei pronta per il viaggio?”, mi disse con un sorriso e un bacio in testa.
Ed io non sapevo più se stavo parlando con dottor Jekyll o con mister Hyde in quel momento; sapevo soltanto che decisi di non aprire bocca sul fatto di lasciarsi, visto che la decisione in quel caso sarebbe stata solo sua.
Il volo andò stranamente benissimo: anche la Coca-Cola venne abbassata di prezzo alla quasi-modica cifra di 3 euro e 50. Lui mi parlava della sua giornata, di quanto non si ricordasse che il letto a casa dei suoi genitori fosse piccolo e di come Filippo, il suo migliore amico, si fosse invaghito della sua personal trainer. Io ridevo come sempre alle sue parole e per come raccontava ogni cosa con quell’ironia sagace e dolce allo stesso tempo, ma frenavo le grandi risate scaturite anche dal mio cuore, proprio perché non avevo dimenticato che di colpo sarebbe scoppiata la bomba.
Ma intanto il concerto si avvicinava e lui non mi lasciava. A quel punto, mentre eravamo in fila per entrare, fui io a prendere l’argomento stanca di quella tensione: “Senti, a proposito della discussione che abbiamo avuto…”. Lui mi zittì, “non è il momento” mi disse.
Ed ecco che cominciai ad andare internamente in escandescenze, pensando che mi avrebbe davvero lasciata durante il concerto e che io avrei odiato i Coldplay per tutta la mia vita. Cercai di insistere, e vedendomi triste, lui mi serrò in un abbraccio che durò fino all’entrata di Chris Martin sul palco.
Io decisi di acquietarmi e godermi quel momento… come se fosse stato il mio ultimo momento di puro amore con lui.
E allora fu che, a quasi fine concerto, cominciò Fix you, e tutta la platea era diventata un firmamento di stelle luminose, per via degli accendini e dei cellulari accesi in aria.
Lui mi si avvicinò, prendendomi da dietro e cominciando a cantare la canzone sussurrandomela dolcemente all’orecchio, mentre Chris Martin la cantava a entrambi. E al secondo ritornello, sentii che aveva cambiato le parole, anzi, che non stava più seguendo il concerto, che mi stava parlando. “Vuoi sposarmi?” disse piano, talmente piano che io davvero non lo capii. “Eh?”, dissi mentre mi girai verso di lui. E intanto lui si staccò, e indietreggiando, prese una scatoletta dalla tasca dei jeans. “Vuoi sposarmi?”, mi chiese ancora, adesso con un tono più forte ed in viso visibilmente emozionato. Avrei avuto bisogno che qualcuno mi avesse dato un pizzicotto, ero come bloccata dall’emozione di una scena che non mi sarei mai aspettata, specialmente in quel modo. Allora lo vidi inginocchiarsi davanti a me, tra la folla che a quel punto istintivamente gli fece spazio: in mano la scatoletta aperta, dentro c’era il mio anello.
Io piansi: Chris Martin cantava, lui si rialzò subito per avvicinarsi a me ed io vedevo tutto annebbiato tra le lacrime e i sorrisi. Mi strinse nuovamente, mi baciò e fece silenzio. Dopo poco: “Ma se non vuoi, non c’è bisogno di reagire così, basta dire no…”, disse con quell’ironia che di lui amavo. Lo guardai,  i suoi occhi parlavano più di lui, rimisi in sesto il mio viso assumendo una vaga aria da furbetta -poco convincente-, infilai l’anello al dito, gli gettai le braccia al collo e all’ultimo “fix you” cantato dai Coldplay, dissi sì.
“Questa sei tu e voglio che non cambi per nessuno né tantomeno per me. Proprio perché la nostra storia non è facile, vuol dire che è qualcosa di speciale da coltivare, è una sfida che accettiamo insieme che siamo così diversi, ma anche così testardamente uguali. E se anche il lavoro ci porterà ad allontanarci a periodi alterni, non siamo novellini in questo: voglio che tu ti realizzi come persona, come donna e come professionista. Voglio che tu sia felice e soddisfatta, senza che sia io a frenarti in qualcosa. Voglio che tu sia mia moglie e voglio che come moglie, donna e professionista tu sia intraprendente, spontanea, buona e ingenuamente bella come sei. Voglio che rimanga la mia migliore amica e la mia complice, perché se mai dovessimo lasciarci e io dovessi trovare qualcun’altra con queste caratteristiche, non sarebbe lo stesso: perché io non voglio una come te, io voglio te.
Ho più desiderio di starti accanto, nonostante i nostri momenti no, che vederci dividere ancora e per sempre da aerei e altri finti amori. E dunque, mia cara, questo è il mio verdetto”. Il suo verdetto, detto tutto di un fiato con il cuore in mano sulle rive del Tamigi alla fine del concerto di una delle mie band preferite, nella mia amata Londra.

Strano da dirsi, ma tutto il film che è passato davanti ai miei occhi è durato il tempo di salire tutte le 32 scale della chiesa.
Mi fermo davanti la grande porta della navata centrale, la supero e mi dirigo verso il passaggio per arrivare al giardino. Ecco che a quel punto mia madre lascia il posto a mio padre che mi prende a braccetto.
Le mie amiche, ancora ignare su chi avesse vinto la guerra dentro di me, si erano indirizzate già verso l’arco fiorito, con il prete che guardava nella mia direzione.
Entro nel giardino e cominciano a suonare i violini.
Inconsciamente avevo scelto il vincitore di quella ennesima guerra che non era nemmeno stata la prima, solo che io ancora non lo sapevo. Raggiungo il centro delle sedie, sentendo il cuore che impazziva in gola: forse volevo scappare o forse volevo continuare, ma ecco quello che successe.
Lo vidi, vidi lui che spuntava da dietro le sedie, accanto al suo testimone. Lo vidi con quel fiore nel taschino e vidi i suoi occhi che si illuminarono, come se non mi vedesse da una vita, come se non volesse vedere altro nella sua vita. Cominciò a suonare l’arpa ed io mossi il primo passo a ritmo della marcia nuziale, con mio padre accanto che sorrideva anche lui, per frenare la commozione.
Ed eccomi lì: che con lo sguardo fisso su di lui, con il nostro mare che gli faceva da sfondo, io lo stavo sposando con tutto il mio cuore.
Percorsi tutta quella bucolica navata centrale direzione onde, scorgendo rapidamente i sorrisi dei miei cari, felici e che ci hanno sempre considerato come gli eterni innamorati ondivaghi di una storia d’amore lunga molti viaggi.
Arrivo all’altare, posto davanti al mare per noi e lui mi alza il velo, sorridendomi finalmente sicuro e fiducioso.

E fu in quel modo che il filo rosso che ci ha legati fino ad allora si trasformò in due anelli; e su di essi la nostra unione, lungamente voluta dal destino, venne incisa in un giorno di maggio, nel mezzo del giardino profumato della ormai nostra chiesa davanti al mare.

Pensiero e sentimento, Poesia, Racconti & Poesie

Questo luogo

Sono io, questo luogo.
È assurdo da spiegare,
ma ci sono dovuta nascere per coincidervi così tanto.

Io non sarei io,
senza la sua presenza costante
che fin da sempre penetrava dalla finestra della mia camera.
Giorno e notte
Estati e inverni
In mia presenza e durante le lunghe assenze.
Lui continuava ad esserci.

Io sono questo luogo,
Io mi ricordo -me stessa mi ricorda- questo luogo.
Come un profumo, e questo luogo è il mio profumo.

Tanto che se fossi una terza persona e ci andassi,
nel guardare l’isolotto beato in mezzo alle onde del mare,
spontaneamente penserei:
“Valeria…”.

Pensiero e sentimento, Poesia, Racconti & Poesie

Se…

Se fossi giù, a casa mia,
distesa sul letto della mia stanza,
mi alzerei e aprirei le persiane.
Allora uscirei in terrazza e guarderei l’isola che dorme,
ignara di tutto e lontana da noi.

Fossi in Sicilia, a casa mia,
prenderei le chiavi e scenderei in garage.
Avessi il mio motore blu, unico compagno da tantissimi anni,
ci salirei, riportandolo in vita.

Se non ci fosse la quarantena e fossi giù,
a casa mia,
sentirei la solita necessità di evadere
che mi accompagna da quando avevo poco più di quindici anni.
Potessi ancora sentire il vento mischiato alla musica,
mentre mi dirigo verso il mare.

Ma con i se, non si alimentano i sorrisi.
Ed io non sono giù, a casa mia.
Sono in una casa prestata,
di una città qualunque,
in un punto del mondo.

Eppure i sogni e l’immaginazione,
su quelli non si impone nessuna quarantena.
Ne scrivo a miliardi in questo periodo, preparandomi alla vita,
per quando, chissà,
forse smetterò di essere una mera spettatrice di questo teatro di luci vanescenti
e comincerò finalmente a scegliere quali fili tirare.

E anche questo viaggio è terminato,
e io ritorno alla realtà di questa stanza.

Pensiero e sentimento, Racconti & Poesie

Poiesis

Io non credo in una vita senza amore ed è per questo che ho cominciato a scrivere.
Un anno fa, due anni fa, tre anni fa, quindici anni fa, non è vero che non ero innamorata: lo ero!
Lo ero dei personaggi che ho inventato, delle storie che ho immaginato, delle stanze che vi ho descritto.
Vedevo chiaramente ogni cosa, ogni abbraccio, ogni sguardo. Sentivo ogni parola, anche quella non detta, perfino quella che si nasconde tra i sospiri di chi guarda il cielo. 
Ho percepito la presenza nell’assenza, e l’ho concretizzata in occhi scuri e riccioli, tra i fogli bianchi di vecchi diari.
Ho sempre amato, in ogni racconto, un personaggio diverso. Quel personaggio che proveniva da qualche punto remoto dei miei sogni.
Ti ho amato che eri un uomo, ti ho abbracciato che eri tornato ragazzino. Ti ho consolato che eri impaurito, e ho rispettato i tuoi tempi quando eri stanco.
Poi mi sono innamorata anche di me, di tutti i personaggi che andavo personificando. Ho amato ogni me, protagonista, che via via, andava acquisendo una fisionomia sempre diversa, sperimentando la vita e fortificandosi nel carattere.
Ma c’erano dei punti fermi ogni volta. Perché tu eri sempre tu, ed io ero sempre io, sebbene in ruoli diversi. Un giorno insieme, un giorno distanti, un giorno orgogliosi e l’altro di nuovo e ancora una volta amanti.
E in ogni pagina scritta, in ogni scena immaginata e in ogni discorso trascritto con nomi diversi, con il mare come sfondo, io non ho mai smesso neppure un giorno di amare, né di sentirmi amata.
Sono sempre stata innamorata dell’amore, e ho avuto bisogno di portarlo nella mia vita. Allora ho fatto un patto con la mia immaginazione: lei dettava, io scrivevo.
E quell’amore mi riscalda ancora e illumina i giorni più uggiosi, lui che è una fonte sempre gaia di piaceri, che ho creato e alimentato fin da quando ero una bambina, con tutta la potente dolcezza di cui è capace il mio cuore.

Pensiero e sentimento

How I met the Covid19

Nel futuro, i miei nipoti studieranno questo giorno: 11 marzo 2020, l’Oms annuncia la pandemia globale del Covid19.
Poi verranno da me e mi chiederanno: ”Nonna, ma tu c’eri?”
E io risponderò: ”Sì tesori, la nonna, da una stanza di Bologna, ha visto tutto: prima la situazione in Cina e l’Italia che si faceva gli aperitivi. Poi in Italia quando c’era la divisione tra i “tanto è un’influenza” e i “moriremo tutti”. Da quel mio MacBook ho visto anche la fuga impanicata delle 23:39 dal nord al sud al seguito di una bozza pubblicata dai giornali, e ho seguito quotidianamente l’evoluzione del decreto per cui ogni giorno, in Italia, sorgevano zone rosse come fossero margherite.
Ricordo quei video che giravano con le persone che stavano in fila ai supermercati di notte, carcerati che tentarono di evadere dalle prigioni e messaggi vocali in un siciliano ostrogoto che non capivo nemmeno io. Uno di questi testimoniava uno dei fattori di stress maggiori del momento: ad esempio per quelle madri che non capivano perché le scuole fossero chiuse e minacciavano di lanciarsi dal balcone pur di non passare un altro giorno chiuse in casa con i figli.
Ormai tutta l’Italia era zona rossa, e noi Italiani eravamo gli stranieri infetti per gli altri paesi, ancora convinti di essere sani e solo con qualche influenzato in più.
La nostra vita era cambiata radicalmente nel giro di qualche giorno ed era tutto paradossale. Niente più voli, niente più feste, negozi chiusi; le lauree erano online, insieme alle collezioni dei musei, lezioni, smartworking, allenamenti, dirette: praticamente ci veniva garantito uno pseudo-ritorno alla normalità grazie al 4 e il 5G. Ecco forse la vera differenza rispetto alle varie epidemie di peste del passato. E intanto, le uniche facce che vedevo, erano quelle di Conte e Burioni che andavano diventando sempre più i miei migliori amici.
Eppure, ho provato un grande orgoglio nel vedere l’operato di tutto il personale sanitario lavorare duramente giorno e notte, proprio per cercare di arginare uno di quei mostri di cui si parla solo nei film e si conoscono nei peggiori incubi.
Ho assistito alla raccolta fondi di tre milioni di euro ottenuti in 24 ore, da almeno una novantina di paesi, e lanciata da due influencer che hanno usato benissimo la loro fama, le loro conoscenze e i social. Ma sopratutto, non posso dimenticare quella foto scattata all’aeroporto di Roma, la sera in cui arrivarono i nostri veri alleati, venuti direttamente dalla Cina, per aiutarci a evitare la catastrofe.
E intanto, mentre ci avvicinavamo alla fase 2 che era -cito- : “una fase 1, ma a maniche corte”, io ho imparato che “questo governo non lavora con il favore delle tenebre”, che anche per Mattarella i barbieri erano chiusi e che mezza Italia ha cercato su Google il termine “congiunti”.
Nonostante ciò, ricordo ancora il drastico isolamento fisico. Non potevamo abbracciarci per via di una distanza obbligata e dettata dall’amore, ma la gente cantava dai balconi ed eravamo tutti un grande coro.
Ad ogni modo, io non potevo tornare a casa in Sicilia per non rischiare di contagiare nessuno, sopratutto i vostri bisnonni.
Rispetto ai vostri trisnonni, noi la nostra guerra l’abbiamo combatutta rimanendo sul divano a guardarci film e se ci dovevamo lamentare del fatto che ci fossimo pure messi d’impegno a festeggiare il capodanno di quel 2020, lo facevamo, ma pur sempre stando a casa.
Tuttavia, anche se lontani, eravamo uniti grazie a internet, e ricordo che io controllavo costantemente la salute di tutti i miei cari, bisnonni e vostri zii e zie varie, grazie a Whatsapp e Facebook.”
“Cosa sono Whatsapp e Facebook, nonna?”
“Niente tesori, questo ve lo spiegherò quando arriverete al capitolo di storia in cui cadde il meteorite vicino alla terra nell’aprile dello stesso anno di merda”.

mo pure messi d’impegno a festeggiare il capodanno di quel 2020, lo facevamo, ma pur sempre stando a casa.
Tuttavia, anche se lontani, eravamo uniti grazie a internet, e ricordo che io controllavo costantemente la salute di tutti i miei cari, bisnonni e vostri zii e zie varie, grazie a Whatsapp e Facebook.”
“Cosa sono Whatsapp e Facebook, nonna?”
“Niente tesori, questo ve lo spiegherò quando arriverete al capitolo di storia in cui cadde il meteorite vicino alla terra nell’aprile dello stesso anno di merda”.

Pensiero e sentimento

Pensieri della sera che parlano d’Amore

No, non è vero che per me l’amore non esiste, anche se rispetto al passato, lo considero diversamente.
L’amore sì che esiste, eppure nel mondo, nel secolo e nel contesto in cui sono nata è talmente raro, da rischiare di non incontrarlo mai.
Un tempo c’era la guerra, più povertà, meno distrazioni. Le persone puntavano alla praticità, coglievano l’attimo, imparavano ad alimentare sentimenti puri e duraturi, basando la loro vita su cose semplicissime, ma non per questo meno vere e reali.
Non era con i telefoni che combattevano la lontananza, ma imprimevano talmente nel loro cuore una passione, che nemmeno il freddo di una nuovo inverno distante da casa, la poteva cancellare.
Lo stesso andare al fronte per un giovane, gli faceva capire già a soli diciott’anni che la vita può essere breve, che si può fare qualcosa per cambiare le cose, e che l’amore vero supera anche la trincea e ti aspetta a braccia aperte, una volta sentita suonare la campanella della vittoria.
Non c’erano messaggi da mandare facilmente, ma lettere scritte di pugno e cuore. E poi c’era il vedersi appena la vita lo concedeva, che senza quello, non si poteva costruire niente.
Uscito di prigione, mio nonno ritornó da mia nonna e stettero insieme, fino alla fine, anche quando, questa volta, toccó al lavoro il compito di dividerli ancora.
Ecco, io discendo davvero da questa generazione che ha saputo scegliere, aspettare, tenersi. Che ha scelto i sentimenti reali e non qualche momento di pseudo amore dettato dalla solitudine o dalla moda.
Ho imparato a danzare con la mia solitudine, senza precludermi di aprirmi alle novità e valutarle ogni volta. Ognuno può cadere nella trappola che ogni nuovo incontro possa essere amore, ma dalla nostra parte, a guidarci ci sono le esperienze, l’età e un obiettivo chiaro. Perché ciò che si è andato apprendendo negli anni, ci ha insegnato a riconoscere subito chi abbiamo davanti e, finiti i lunghi vent’anni, lo sappiamo più di prima chi non è Amore.
Sono ancora quella che ama le lettere scritte a mano e direbbe a parole e di faccia tutto quello che ha nel cuore.
E quando un giorno, se mai avrò questa fortuna, troverò una persona tanto speciale a cui dedicare la parte migliore di me, allora anche io, figlia della mia generazione, userò il telefono, soltanto per due motivi: cercare il suo indirizzo su google maps e scrivergli un semplice messaggio: “sto arrivando”.
E se mentre esco di casa, magari me lo ritrovo assurdamente davanti al mio portone ad aspettarmi: che dirvi, è questo ciò che riassumerebbe tutto quello che per me è ancora Amore.

Pensiero e sentimento, Poesia

La guerra mondiale

Magari oggi non sorriderò e parlerò poco.
O chissà, magari domani farò battute e sembrerò goffa.
Ma tu che mi guardi da fuori, prendimi la mano sia oggi che domani.
Nella testa ho una guerra mondiale che concentra tutte le energie per ricaricare i cannoni di paura e paranoia.
Eppure
, tu che sei fuori, stai sicuro che questo non lo vedrai;
al massimo noterai del vapore fuoriuscire dagli occhi o forse ti sembrerò stanca, ma non sentirai urla, né pianti.
Perché non ne farò.

Quindi fa’ piano, tu che mi vedi sorridere sull’orlo di una battuta tra le luci della notte.
Che mentre mi cibo della tua compagnia, tu, caro amico mio,
stai curando un po’ della mia malinconia.

Racconti, Racconti & Poesie

Dormirci addosso

Con te farei una delle cose che preferisco al mondo: dormirei.
Banale, dici?
Ti sembra banale accoccolarci sotto le coperte calde, dopo la corsa per aver spento la luce?
Accendere il pc, scegliere il film su Netflix e sistemare la mia testa sul tuo petto?
Poi tu mi avvolgeresti con il tuo braccio, io intreccerei le mie gambe con le tue e mi daresti un bacio in testa, che io ricambierei sulle labbra.
E da quella posizione, mi muoverei solo un attimo per prendere velocemente quel pacco di Pop-corn che deciderei di farti trovare quella sera.
Tireremmo fuori le mani dal piumone solo per mangiare ed io, probabilmente, per lanciarti qualche pop-corn addosso; magari, uno o due, giusto per inquietarti e non farti addormentare davanti al film.
Ma si sa come andrebbe a finire: che dopo poco più di mezz’ora e a cibo finito, mi ritroveresti tutta rannicchiata verso di te a dormire, mentre tu mi stringi e ti finisci di guardare il film, in pace.
Dopo, una volta terminato, abbasseresti lo schermo del pc e, senza svegliarmi, mi sposteresti con delicatezza dal tuo petto, per poggiare il mio Mac sul comodino.
Io a questo punto mi girerei nel sonno, e allora tu, invece di tornare nella posizione di prima, mi abbracceresti da dietro, diciamo a cucchiaino. Finché, coccolato dal profumo dei miei capelli, ti addormenteresti anche tu.
E infine, l’indomani mattina, dopo altre coreografie cambiate nella notte, nell’aprire gli occhi, vedrei come prima cosa le tue braccia a proteggermi, da quella nuova posizione; il tuo braccio sui miei fianchi che termina con le dita intrecciate alle mie, e la tua testa addormentata sul mio petto.
E ti posso assicurare che quello sarebbe l’amore più bello che avremmo fatto da quando finalmente ci amiamo.

Pensiero e sentimento

Terapia

Tappo le mie ferite con i colori, o almeno ci provo.
Allora, nel cuore uso il cerotto della poesia e nella testa, la bambagia della musica.
Invento, scrivo, suono, canticchio e poi quando posso viaggio.
Non sbaglio, con me stessa, intendo, perché una parola scritta e venuta fuori dalle mie ferite, è come un pianto che si trasforma in nota; è soltanto uno dei modi che uso per trasformare l’energia che tanto mi faceva male, in motore che mi fa ricominciare a vivere.
L’arte è una terapia, il processo artistico è la mia cura: non sono la migliore, anzi, non devo appartenere a nessuna categoria di artisti. Quella che io chiamo “arte” e che reputo mia, è un uragano di sensazioni che diventano colori anche uditivi. Genero delle sinestesie che mi hanno fatto costruire dei ponti su cui continuare a camminare, non per ottenere qualche premio o per essere chiamata artista, ma per vincere con la mia vita e per essere chiamata con il mio nome.
Quindi, continuate a chiamarmi con il mio nome, qualunque esso sia, e continuate a cercarmi dietro le mie parole, come si cerca un’amica, un’amica che vi comprende, perché da quel dolore, ci è passata.
E anche per questo secondo anno, è questo che ho fatto con il dolore: l’ho completamente trasformato in onde del mare che si infrangono sugli scogli della vita, fino a levigarli.
Perché è questo il potere dell’arte; riesce a modellare le rocce fino a trasformarle in piccole opere che all’interno portano parte del mio cuore.