Pensiero e sentimento

Una marea

Avevo bisogno di una finestra sul mare, di due ante che si aprissero verso i miei desideri.
Non si scrive soltanto quando si è tristi, ma lo si fa anche quando si ha tanto da dire. E questo “tanto da dire” è una marea che mi sconquassa dalla testa, al petto, allo stomaco. Non posso rimanere impassibile alle sue onde.
Dall’interno del mio microcosmo, allora ho bisogno di guardare fuori. Non è il caos della città a richiamare la mia attenzione, nè la quiete di una distesa di montagna. È il mare, è solo il mare che mentre sembra dormiente, in realtà si muove. Che mentre sembra annoiato, in realtà intrattiene infiniti discorsi con il cielo, con la terra e con tutti gli occhi che lo guardano.
Allora il mare è la mia cura, il mio riflesso, da sempre la mia casa. E quando lo guardo non ho più bisogno di dovermi perdere in parole e discorsi, perché lui assorbe tutto il fumo di questi tempi. E quando scrivo e ogni volta lo nomino, è perché anche il sol pensarci, mi calma.
Dopotutto è così che si fa con gli esseri che si amano, quando sono lontani. Ci lega solo il pensiero. Ed io negli anni mi sono allenata con il mare; e così, tutto quel non detto, è stato detto, e tutto quel fumo man mano si diradava.
Ed anche io, seppur distante, in un angolo dei miei pensieri, ho pur sempre continuato a sentirmi a casa.

Pensieri della sera che magari non parlano sempre di amore, Pensiero e sentimento

Ritorno a Itaca

Ogni volta che ritorno a casa dopo un lungo periodo da inquilina in terra straniera, è una sensazione strana.

Non lo capisco. Non ci credo che le mie valigie non toccheranno, almeno per un po’, quelle terre appena scoperte, ma che solcheranno strade che conosco persino ad occhi chiusi.
Non ci credo nemmeno io, anche quando mi incammino verso l’aeroporto; quando supero i controlli. E mi chiedo: chissà dove sto andando, e chissà ancora per quanto.
Non ci credo neanche quando sto per salire sull’aereo, quando ripongo la valigia dentro la cappelliera e mi allaccio le cinture.
Non so nemmeno se aspettarmi un messaggio del capitano in francese o in chissà quale altra lingua. Eppure lui finalmente parla quell’idioma che per me è il più comprensibile tra tutti: il mio.

E dunque l’aereo si muove, comincia a correre e tutto vibra, dentro e fuori di me. Si alza in volo, plana e io vedo quella terra che ha finto di essere stata casa mia, rimpicciolirsi sempre più.
“Chissà dove sto andando” continua a chiedere il mio cervello vagabondo. Sto andando incontro al futuro, risponde quel lato filosofico che risiede da qualche parte tra il cuore e il cervello.

Finché dopo quasi due ore di pensieri, misti a foto, musica e sogni, guardo fuori e vedo che le nuvole e il cielo hanno lasciato il posto alla terra.
E poi la vedo, la mia isola; mia per tante e tante ragioni. E allora lo capisco, allora davvero mi risveglio: sono tornata a casa.

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E Margherita?

La vita è un po’ come il libro Il Maestro e Margherita di Bulgakov. Sei curioso di capire finalmente chi è questa Margherita, ma devi aspettare e aspettare.

E così vale anche per i momenti di gioia: parti dal giorno uno, quando esprimi un desiderio, e dunque cominci ad attendere che esso si avveri. Ciononostante, quella gioia, un po’ come la nostra Margherita, sembra sfuggirci: riusciamo a intravederla sì, proprio a qualche giorno dall’inizio dell’attesa, ma giusto per un attimo fugace. Difatti, ella subito sparisce e così ritorna il silenzio più assoluto.

Finché, quando ormai ti sei pure quasi dimenticato dell’esistenza di quel sogno, o della stessa Margherita, la vita, proprio come Bulgakov, comincia ex abrupto il “Libro II”, il cui primo capitolo è intitolato per l’appunto “Margherita“. E tu, lettore, non te l’aspettavi mica che il narratore che lo guida e ci guida potesse essere così biricchino.
E allora sì che capisci che la copertina del libro che avevi tenuto in mano fino a quel momento non mentiva; che non era stata scambiata e messa sopra un altro libro. Adesso hai le conferme che inconsciamente cercavi e la tranquillità di non aver perso tempo sul libro sbagliato.

E come per il Maestro e Margherita, così anche, lo ripeto, la vita: che per un lasso di tempo lento e noioso ti è sembrata sbagliata, di colpo comincia ad avere senso.
Insomma, grazie Bulgakov per confondermi e farmi redimere, insieme.

Messaggio per i miei lettori:
scusate la mia lunga assenza, ma sto lavorando per il mio futuro. E in questo futuro vedo certamente ancora la scrittura, quindi a presto!
V.R.

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Ri-Cominciare

Fruscio di venti lontani vengono a farmi visita, in questa sera di inizio ottobre. Mi mandano saluti provenienti da mondi remoti, al ritmo di finestre distanti che sbattono freneticamente.
Pareti spoglie, inabitate da anni. Una luce fioca e tremolante padroneggia sul tavolo vuoto nella stanza, mentre scrivo queste parole intrise di malinconia.
La valigia è ancora chiusa accanto a me; al suo interno, i vestiti sono custoditi insieme al calore della mia casa, di colpo, fin troppo distante.

Sono in Francia.
Già, l’ho rifatto un’altra volta.
Ho impacchettato i ricordi di anni; li ho presi con cura, uno a uno, sistemandoli stretti stretti in scatole troppo piccole, e che ho sballottato di città in città.
Fino ad arrivare qui.

Abbasso gli occhi sulla valigia azzurra, mia compagna fidata di mille viaggi. Soltanto per oggi, il suo nome è Pandora; chissà quali ricordi dolceamari possono scivolarvi via e colpirmi bruscamente, se solo la aprissi.

E dunque prendo un respiro profondo, mentre i lampioni nella strada davanti alla mia finestra tornano ad accendersi. L’aria di Marsiglia è frizzantina in questo periodo dell’anno, e questa è la mia prima scoperta.

E quindi, forza! Che si ritorna a essere viaggiatrice del mondo.
E così, coloro che non riescono a tollerare il distacco, imparano a richiudere gli occhi per poter vedere nitidi gli sguardi di chi li ama, anche da lontano. Allo stesso modo faccio io, che nel cuore trattengo con forza ogni istante, ogni sorriso e ogni gesto d’amore; tre alberelli rigogliosi che ho coltivato sin dall’ultimo mio arrivo in una terra che col tempo ha smesso d’essere straniera.

Allora, si ricomincia; e il ricominciare porta con sé nuove strade da imparare, nuovi nomi da memorizzare, nuove facce che forse un giorno saranno amiche, e un nuovo letto su cui dormire.
In questo modo, si riparte col vivere una vita che non mi apparteneva, ma che da domani lo farà.
Si riprende a distendere le labbra in un sorriso automatico, mentre la mente è rivolta ad altre terre. Ma il gioco sta proprio in questo: tenerla impegnata e aggrappata al presente. E per fare ciò, tenterò d’imparare questa lingua ancora sconosciuta proprio per non rischiare di cadere nel silenzio dei ricordi; ché soltanto così, uno dopo l’altro, passeranno i miei giorni.

E da qui riparte l’avventura, dopo anni di apatia.
E con ciò, rinascerà quella forza che sembrava essersi nascosta.
Perché da oggi ricomincia la mia vita, con un capitolo nuovo e inaspettato.
E io concludo questo scritto, sebbene un piede sia tuttora ancorato alla vecchia casa, mentre l’altro è già ben piantato sul domani.

Pensiero e sentimento

Sei un Marinaio o Capitano?

Scritto in piena pandemia

È un po’ un incubo, se ci pensi: non poter andare dove vuoi, non essere libero di fare ciò che senti, non poter amare chi desideri.
Viviamo sottostando a regole invisibili, mentre siamo convinti di essere noi al timone.
E intanto siamo così piccoli, talmente piccoli che bastano degli eventi un poco più grandi di noi a farci barcollare. Allora, ci sentiamo in gabbia, ci comportiamo come se avessimo perso un equilibrio che, in realtà, non avevamo nemmeno prima.

Ah, sì, mi rivolgo a te: ti ricordi anche tu quel via vai di gente, treni in corsa, appuntamenti in ritardo che ti facevano ritornare a casa a un orario decisamente sbagliato per la cena?
Ricordi quando viaggiare era ormai così tanto scontato, che quasi non ti andava più?
Ci ripensi mai alla sensazione di vivere nel lato giusto del mondo e di essere fortunato per le cose -scontate- che avevi? Gli amici, le solite uscite, i soliti discorsi. Quanto avresti dato per rimanere a casa il sabato sera?

Eccolo, mio caro marinaio, il sogno è stato esaudito; la risposta inattesa, la pausa, la sosta ti aspettano nel tuo salotto di casa.
Ecco che sebbene non sia padrone del tuo destino, almeno puoi fingere di esserlo all’interno del tuo appartamento.
Ecco che quella libertà normale, scontata, superflua, adesso l’hai persa, non ce l’hai più.
Ecco che il “quando potevi farlo, non l’hai fatto” ti bussa alla porta.
E adesso, quasi quasi, ti manca il mare.

Ti sei fermato, marinaio, in questa vita che sembra tutt’un tratto fluttuare?
Ti sei perso? O sai perfettamente che quella è casa tua, che quello è il tuo posto?
Mentre la giostra si è bloccata, tu eri nel luogo giusto oppure no?
Quando la corsa si è arrestata, chi avevi accanto?

Eppure niente è definitivo, vecchio lupo di mare.
Come quell’amore che avevi per l’andare a cavalcioni sulle onde di velluto, di punto in bianco, ti è sparito.
Guarda questo periodo tanto strano e inatteso; figlio del tempo, non temere, anche ciò ha una scandenza.
La Fortuna corre ancora con i capelli al vento e la nuca scoperta; e quando lo farà nuovamente, tu, marinaio, avrai imparato come acciuffarla al suo passare?

Hai visto tanti tramonti e innumerevoli albe che non ti serviva più altro; volevi morire perché stanco dell’apatia, senza accorgerti che attorno ad essa, quella era vita.
Muoversi,
correre, navigare,
sempre andare.
E tu, in che porto ti sei fermato, marinaio? Dove ti ha condotto la nave su cui viaggiavi? Chi la guidava? Chi ha deciso di farti allontanare?
Tanto lo sai che a decidere in quale porto straniero gettare l’ancora, è sempre il conducente.
Dunque, ti sei chiesto chi è il capitano della tua nave? Chi è più il forte, tra di voi? Sei tu che comandi o è lui che decide per te, e tu obbedisci?

Eppure, sai: da dentro la tua casa, fin dentro il tuo ufficio, tu sei libero di volare con l’anima e ad occhi chiusi, planando ad ali spiegate su ogni aspetto della tua vita.
È questo il punto di svolta: adesso hai il tempo di fermarti; ora è tempo di avere il lusso di rivalutare e di rivalutarti.
Allora prendi carta e penna, e comincia a scegliere per te stesso.
Dove vuoi andare, marinaio, alla fine di questo blocco generale?
Dove vuoi che ti spinga il vento?
Vuoi essere marinaio o vuoi essere capitano?
Come non capisci che è proprio questo il momento per trasformarti in capitano.
E quindi, capitano: che piani hai per il tuo futuro?

Devi sempre avere una valigia pronta con te; devi essere tu quella valigia, pronto a ripartire quando la vita riprenderà il suo normale corso stravagante.
Perciò disegna una mappa, armati di pazienza e di conoscenza.
Tieni gli occhi bene aperti, sii lesto ad acchiappare la Fortuna.
Porta la Prudenza e l’Astuzia, che servono entrambe per cavalcare le onde.
Perché quelle onde ritorneranno, stanne certo, e allora tu sarai nuovamente pronto ad affrontarle.

Eh, Marinaio?
Eh, Capitano?

Adesso, chiudi gli occhi e dormi;
dormi e sogna benevoli mari in tempesta, che movimento non significa presagio di eventi malevoli; ma moto che ti spinge altrove, dove tu non sei ancora stato.
Che domani o forse il giorno dopo ancora,
sarà un altro anno
e, giusto in quel momento propizio, ricomincerà al tua vita.

Pensiero e sentimento

Pensiero ondivago che continua a parlare d’amore

Desideravo solo ricordare che essere single non vuol dire essere soli.
E lo dico perché, per tanti anni, io stessa ho confuso le due cose. Tuttavia, in caso di necessità, non mi serve molto per spazzare via il dubbio: basta che ripenso a tutte quelle voci belle e familiari, di tutte le persone più care che, nonostante la distanza che ci divide da anni a periodi alterni, sono davvero sempre accanto a me.
Sfatiamo il mito che chi è single è infelice, perché non è vero. Certo, ci sono giorni in cui la malinconia è normale, siamo pur sempre umani. Personalmente, questo periodo mi ha spinto a conoscermi meglio e a dedicare quel tempo “libero”, e in più, a inseguire i miei desideri, a scoprire nuove passioni, a viaggiare, a perdermi, a ritrovarmi e sopratutto a coltivare le relazioni. Soltanto così, infatti, mi sono potuta avvicinare a certe persone, potendole ritenere parti fondamentali della mia vita, senza le quali io non sarei quella che sono. E senza le quali, allora probabilmente sì che mi sentirei un po’ più sola.
Sarei una persona diversa se ad oggi fossi sempre stata in una relazione sana, vero. Migliore o peggiore non posso dirlo, ma sarei semplicemente stata un’altra versione di me stessa. Ad ogni modo, finché non trovo qualcuno che apporti qualcosa in più, invece di togliere. Finché non trovo la persona che mi dia la sensazione di essere a “casa”, pur a chilometri di distanza dalla mia. Finché non trovo quel quid, quella ciliegina sulla torta che arricchisca e rassereni, senza invece complicarla, una vita che sto costruendo sperando di essere felice, allora preferisco, voglio e continuamente scelgo di essere single.
Chissà, probabilmente quando distribuivano l’amore e l’altezza, io ero in coda per l’essere tappa e per avere l’amicizia. Ma va bene così.Perché ad oggi, una cosa l’ho capita: l’amore e l’amicizia sono entrambe rare da trovare. Eppure, spesso, anche se l’amore viene e va, ci sono certe amicizie tanto speciali che, una volta trovate, quelle sí che restano tutta una vita.

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L’interrogatorio: racconto di una tesi provocatoria tra la performance e la solennità di una sessione di laurea

“Chi siamo? Da dove veniamo? Ma, soprattutto: dentro la Merda d’artista c’è davvero la merda dell’artista?
Ecco, signori miei, i tre quesiti cardine della storia dell’uomo e del mio lavoro che oggi vi presento. Voglio proprio mettervi davanti ai dubbi dell’arte, quelle questioni di cui non potremo mai conoscere la risposta, allo stesso modo di come non possiamo sapere cosa ci sarà dopo la morte.
Duchamp ha realmente riempito con il suo fiato quel palloncino oggi sgonfio?
E de Domincis che ha sigillato un forziere misterioso completamente vuoto, ha ideato una performance che è durata anni, fino alla sua apertura? O la sua apertura era qualcosa che non sarebbe mai dovuta avvenire, ammazzando l’opera?
E se anche tutto ciò ci ricollega al senso del tempo che come una freccia, scatta solo in avanti e mai indietro; oppure se vogliamo proprio tornare indietro con il pensiero e riprendere fatti biblici come la curiosità di San Tommaso, San Tommaso ci avrebbe creduto anche senza vedere e toccare la ferita, che Cristo era risorto?
Ironia? Provocazione? Non c’entra niente di tutto questo, sebbene il titolo della mia tesi vada a braccetto proprio con la prima. Vi rispondo io, miei cari, è pura genialità.
Questa genialità, così credo io, è figlia di padre coraggio e di madre follia: sennò non si spiegherebbe com’è che Salvador Dalí abbia disegnato un pene gigante nel quadro legandolo alla figura di suo padre e lo abbia fatto a regola d’arte -permettetemi questi giochi di parole-.
E la follia, a sua volta, è anche sorella della conoscenza: quel pene gigante, non era una cosa infondata, dopotutto, ma aveva origini lontane, addirittura alla mitologia, avrebbe detto Freud.
Divago? Oh, no signori, è tutto collegato: la psicologia che porta alla follia, che porta all’ironia, che porta alla provocazione altrui e che porta al medesimo dubbio: ma questa scatoletta di latta, conteneva merda?
Rimane soltanto un elemento certo: che il tutto è parte dalla mente umana.”

L’incipit della mia discussione di laurea stava andando “bene”; o meglio “bene” nei termini previsti e studiati a priori dalla candidata -me medesima- e dalla sua professoressa, nonché relatrice, nonché partner in crime e che per l’occasione chiameremo Kant -come Eva Kant-.
La commissione era in silenzio: alcuni ascoltavano davvero, altri cercavano oggetti non identificati all’interno delle loro borse.
Anche nella platea, composta da: due genitori -appunto i miei-, tre amici -di Palermo- e quattro altri colleghi di questa Unibo che sto per salutare, mi ascoltavano in un silenzio poco assenso, riflettendo solo su un fatto: io non pronuncio mai la parola “merda” né “pene”, specie in pubblico.
In quel clima un poco scomodo, di imbarazzo, in quel clima, diciamocelo teso -sebbene previsto- io continuavo a parlare, appoggiata dallo sguardo sorridente e complice della prof. Kant.
Ripresi:
“Avrei voluto basarmi su tanti artisti, in questo mio sproloquio sulla risatina e sull’ironia: avrei scelto Salvador Dalí, ma con lui ho già dato anni fa. Avrei scelto Duchamp, ma altri, che non sono me, hanno già dato anni fa -mentre io ero impegnata con Dalí-. Avrei scelto Pascali, e de Dominicis, ma, sapete che c’è? Sono morti.
E allora ecco perché ho scelto Cattelan, che è ancora vivo.”
E cominciai a parlare, con tono serio e professionale,  di Cattelan, insigne e irreprensibile artista contemporaneo che, nel corso della sua vita, ha fatto arrabbiare una lunga lista di persone che se la sono presi a ridere, tutti di nascosto.
Forse.
“Cattelan nacque a Padova nel… e morì nel… No, e appunto non morì – e quella era stata l’ansia-.  La sua provocazione è un modo per parlare e farsi sentire dalla società, su temi per niente banali, a sfondo sociale e bla bla bla.
Ma direi di passare ad analizzare proprio Cattelan.”

E lì cominciai a sudare. Generalmente ogni evento importante è organizzato al 100%, ma non il mio, e questo lo sapevo bene. Diciamo che il mio aveva una percentuale di inaspettato che né io, né la Kant potevamo controllare.
Allora guardai la professoressa, lei guardò me, io mi girai ad esaminare rapidamente tutta la platea alle mie spalle; una platea che non stava capendo se io fossi in preda ad un’amnesia dovuta all’ansia -con tanto di commenti sommessi come “poverina, è agitata” che mi arrivavano alle orecchie- dunque, mi rigirai a guardare la prof.
Sí, ero agitata.
E dopo un secondo o forse due ore -ora bene non so-, ecco che la prof. fece segno a una persona in prima fila di alzarsi, quella prima fila dal lato sinistro dove all’ultimo posto c’era seduta una persona che speravo di vedere e che non avevo visto, perché convinta che al momento della mia laurea avrei anche magicamente smesso di essere miope, non indossando gli occhiali.
Si alzò un uomo, o forse un ragazzo, e si mise ai lati della commissione, in modo da farsi vedere anche dalla platea. Era vestito di jeans, maglia blu, scarpe da tennis e con al collo un cartello con scritto a lettere cubitali: “Tesi della candidata”.
Sentii tutti cominciare a sorridere e sghignazzare, poiché si accorsero che sul viso aveva un maschera con sopra stampata la faccia di Maurizio Cattelan. Per questo, dalla platea mi giunsero voci del tipo: “ah ma che simpatica, ha chiamato “Cattelan”.
Dopo qualche momento di ilarità generale che richiamò l’attenzione di tutti i prof., compresi quelli alias esploratori-di-borsette, io mi alzai, mi avvicinai al mio Cattelan e proseguii il mio intervento con il tono più serio possibile, proprio come se stessi per descrivere la solennità del Lacoonte:
“Bene, signori, cominciamo ad esaminare Cattelan.
Cattelan è alto più o meno così” E alzai il braccio fino ad arrivare più o meno ai suoi capelli, mettendomi un poco in punta di piedi e aggiungendo un:”be’, sicuramente è più alto di me”. Risate generali.
“Ha due occhi” continuai io “due occhi e, permettetemi di dirlo, un naso simpatico nel mezzo della faccia, né troppo in alto, né troppo in basso rispetto alla bocca”. Mi girai un attimo alle mie spalle e mi accorsi che intanto entrarono delle persone nell’Aula Magna.
“Ma andiamo ad esaminare la maglia appositamente semi coperta da un cartello per scopi divulgativi e del tutto personali “Tesi della candidata”: è chiaramente una provocazione.” Ci tengo a specificare che quella era una maglia normalissima, senza niente di provocatorio, motivo per cui tutti ridevano.
“Eh no signori, è una provocazione, vi dico io. Perchè questa maglia non è solo una maglia: è il risultato del lavoro disonesto di queste multinazionali di vestiti che sfruttano davvero tantissimi operai nei paesi non europei.” Il clima ritornò serio per un attimo.
“E questi jeans? C’è un sistema dietro che ha reso famosi i jeans, perchè la gente cominciasse a volere e comprare i jeans. Allora i jeans furono pubblicizzati da qualsiasi mass-media, come da qualsiasi rotocalco. “Non sei figo se non hai il jeans, non sei voluto dalle donne se non hai il jeans” questi i messaggi manipolatori. Ed ecco che adesso tutti vogliono il jeans, compresi coloro a cui nemmeno i jeans piacevano. Dunque, signori miei, questo è il motivo per cui la mia Tesi indossa il jeans: per dire che siete pazzi a indossarlo. Non indossatelo!”
In quell’aula, la maggior parte aveva i jeans. A quel punto c’era chi aveva ripreso a ridere e chi rimaneva serio.

“Per concludere e per lasciare andare il nostro Cattelan che non ho potuto impagliare, come lui ha fatto con i suoi cavalli , guardategli le mani.” Mi misi ad indicare le sue mani che erano inerti lungo i fianchi. “Io le chiamerei: “le mani di artista”. Dico, quanta arte hanno prodotto queste mani? Quanta arte, reputata tale, giudicata tale, tanto da rientrare in musei come il Solomon Guggenheim, hanno realizzato? Era pazzo il curatore a fare una personale su di lui? A chiamare dei piccioni, arte? Queste mani hanno generato arte o hanno manipolato la concezione dell’arte? Queste mani hanno creato qualcosa che riesca a spiccare per bellezza o, unite alla sua testa, hanno creato un non-so-ché , il quale rimane più impresso della bellezza stessa? E infine, ce la siamo bevuti tutti?”
Tutti erano in silenzio: la platea, la commissione, il Cattelan che sorrideva sornione attraverso la stampa della sua maschera e a poco anche io, che li avevo inondati di domande il giorno della mia laurea.

Allora la prof. Kant, Eva Kant, approfittò di quell’atmosfera avvolta da un silenzio sospeso e riflessivo per fare una domanda.
Eravamo giunti dunque al momento delle domande.
“Signorina, lei quindi ci sta dicendo che la provocazione dell’artista è un modo per arrivare ovunque. Possiamo definirla una strategia?”
Stavo giusto per rispondere, quando “Cattelan” attirò la mia attenzione ed io mi fermai di colpo. Mi dovevo attenere al piano.
Di conseguenza, rivolta alla commissione, dissi: “Gentili professori, sono qui oggi a presentare la mia tesi, dunque credo e reputo giusto che sia proprio la mia Tesi a dover parlare di sé stessa. Prego Cattelan, ci dica”.
La professoressa, complice ricordiamolo, si rivolse garbatamente a Cattelan e, tra il serio e il faceto, gli porse la stessa domanda: “Signor Cattelan, la sua provocazione è per caso una strategia?”
Dopo un silenzio, come se la maschera ci mettesse del tempo a far arrivare alla testa di chi la indossava quella domanda, ecco la risposta: “Si”. Laconica, rapida, veloce, concisa, completa.
“La ringrazio”, concluse la prof., sorridendo divertita e sicura di quella reazione.
Allora, ecco che un altro professore decise di prendere la parola: “Dunque, sulla base di quello che ha detto, l’artista non parla mai in prima persona, piuttosto è la sua assenza a parlare di lui tramite le sue opere, è corretto?”. Ancora una volta, la risposta era un “sì”, così sicuro, così fermo, così maschile, perché a rispondere fu nuovamente lui. Intanto da dietro si sentivano delle risate e dei commenti allegri su quei sì perentori e beffeggiatori, come a voler dire che quei professori – i miei- con le loro domande da copione per via di un momento solenne, lo stavano quasi disturbando, importunando, toccando nel privato. Un privato che in quel momento stava rendendo volutamente pubblico a modo suo, quel “Cattelan”.
“Grazie, Cattelan”, il professore che se la rideva, anche lui. Era soddisfatto.
Ci furono altre domande che i professori fecero, un pò divertiti, un pò seri, tutte rivolte alla mia Tesi, tanto per sapere come questa -o questi- avrebbe risposto e se mai avesse detto qualche no.
Era diventato un interrogatorio, dunque, ma anche questo io e Kant, l’avevamo previsto insieme a quel Cattelan che dopotutto era a suo agio, in quell’atteggiamento alla De Domincis.
“Passiamo all’ultima domanda”, disse un’altra professoressa “e questa volta è rivolta esclusivamente alla candidata. ” E intanto mi rivolgeva un sorriso del tipo “guarda che non scampi alle domande della commissione”. “Vorrei sapere, secondo lei, a proposito di Manzoni, perchè allora la sua opera si definisce arte, nonostante il suo contenuto può non essere quel che dice di essere. Nonostante, cioè, la scatoletta non sia mai stata aperta  e quindi non sappiamo ciò che si trova al suo interno.”
Ci pensai un attimo, era una domanda serissima e io, strano a dirsi, fin dall’inizio di quella laurea ero più seria che mai. Perciò riordinai le idee e risposi.
“Se consideriamo l’arte come qualcosa legata solamente alla bellezza estetica, allora, dal mio punto di vista, sicuramente né la scatoletta di Manzoni e neppure il suo contenuto (qualunque esso sia) si potrebbero definire arte. Eppure, se noi ci troviamo davanti a quella scatoletta da lui firmata tantissimi anni fa; una scatoletta che ha fatto parlare di sé negli anni, tanto da continuare a parlarne oggi, in questa stanza di questa illustre università, durante una sessione di laurea, qualcosa di fuori dagli schemi, questa scatoletta ce l’ha.
Mi spiego meglio: quanto è stato lungimirante Charles Saatchi a creare la mostra con gli artisti della YBAs e a chiamarla Sensation? Dopotutto, molte di quelle opere hanno lasciato sconvolta non solo la Gran Bretagna, ma anche l’America, tanto da voler togliere i fondi al Brooklyn Museum che l’aveva ospitata.
Dunque, cosa traiamo da tutto questo? Non è forse l’arte a farci vedere il mondo filtrato attraverso occhi diversi? Non è forse l’arte quel velo di Maya che, se scostato, mostra la realtà nuda e cruda -o meno cruda, dipende dallo stile degli artisti- di come la creazione artistica ce la presenta? Non è forse arte, un semplice gabinetto capovolto e defunzionalizzato, che peraltro è stato definito pure tale da menti con più fosforo della mia? E non è forse arte, proprio quell’arte di percepire quelle sensazioni: piacevoli, non piacevoli, di ironia, di rabbia, e sentire come ci pervadono, ci meravigliano tanto da farci dimenticare per un attimo il luogo e il momento in cui ci troviamo?
Per concludere citerò una frase trovata in quel luogo, centro della divulgazione mondiale di idee geniali e minchiate – quale internet-“. E subito mi rivolsi al Cattelan: “mi perdoni, signor Cattelan, per il mio francesismo” e fortunatamente tutti risero. Dopo di ciò proseguii: “E la frase recitava: “Lei non era bellissima, era come arte. E l’arte non deve essere bellissima, deve farti provare qualcosa.”. Io e tutti coloro che hanno tramandato fino a noi quella “scatoletta di merda”, abbiamo provato qualcosa, seguendo la poiesis dell’artista. E se questa idea “creata” da Manzoni, era di fare tante scatolette chiuse, firmarle e lasciare con esse una legge non scritta che sanciva di non aprirle, questo in sé, racchiude i caratteri della creazione artistica.
Come questo Cattelan dal volto coperto proprio da Cattelan. ” Dissi, rivolgendomi al mio prigioniero, ormai dopo quattro ore di discorsi e indicando la sua maschera.
“Perchè voi non potete sapere se qui dietro c’è il vero Cattelan oppure no, e saperlo smorzerebbe in voi quello che sentite adesso: dubbio, curiosità, magia. E renderebbe quello che è stata tutta la mia performance, una banalissima discussione di tesi magistrale.”
A queste mie parole, la sessione di laurea si era finalmente conclusa, tra due risatine, uno mezzo applauso -di mia madre- e sul retro uno sbadiglio camuffato. I professori andarono sul retro a deliberare e tornarono con il mio voto -un dato che qui non ci interessa divulgare per non peccare di tracotanza-.
Dopo essere stata nominata -per i loro poteri conferiti- nuovamente dottoressa, durante gli applausi di una stanza che si era andata riempiendo man mano che io facevo una delle sessione di laurea più strambe che avessi mai pensato di fare, “Cattelan” si alzò, ritornò nuovamente al centro della stanza, sollevò la maschera per mostrare il suo vero volto e…

Ed era lui o non era lui? Non lo sapremo mai, ma, almeno per oggi, concentriamoci su questo racconto aperto e fingiamo giusto per un attimo
che sia arte.

Pensieri della sera che magari non parlano sempre di amore

Scorrere

Come ogni mattina:
ho salutato chi ero ieri, mi sono avvicinata alla persona che sono oggi e mi incuriosisco su chi sarò domani.
Sono in costante evoluzione, vivendo immersa nel flusso del mondo: un panta rei di pensieri, persone ed eventi che scorrono veloci davanti a me.
Dal finestrino di questo treno invisibile, supero stazioni, campi, case popolate da gente che si muove come tanti atomi confusi. Magari mi fermo momentaneamente in qualche luogo a me sconosciuto, e vedo gente anonima in attesa del treno giusto, mentre il mio intanto riprende a correre.

Chissà quante volte, agli occhi altrui, sono stata io una di quelle facce anonime, incerte sul salire o meno. Chissà cosa mi direi, se mi vedessi lì, in piedi e titubante davanti alle porte aperte di un treno soggiogato da un conto alla rovescia tanto rapido che, in men che non si dica, lo avrà già fatto andare via per sempre.
Se ci penso, un treno è un po’ come Paganini: non ripete; non si ripete.
Chissà cosa avrebbe fatto un mio possibile alterego, in quell’occasione: sarebbe salita o avrebbe aspettato ancora, in eterno, la chimera del momento “giusto” che tale, non sarà mai?Forse il momento diventa propizio, proprio quando lo si coglie. E finché nessuno prende in mano la valigia del coraggio, tutti gli attimi non colti sono soltanto momenti neutri, in potenza, che assumono il loro colore solo quando vengono sfruttati.
Ma in fin dei conti, ad oggi la penso così: io che sono salita sul treno e da qui, vedo scorrere il panorama dal finestrino, rimango comunque contenta della decisione che ho preso. Ogni scelta comporta una perdita, e sebbene questo treno non mi abbia portato dove speravo, rimane l’incognita e la speranza sul dove mi porterà.
Che non posso prevedere ogni cosa nella vita, sennò quello sarebbe un romanzo già scritto da qualcun altro, e che a volte devo solo lasciarmi trasportare da un treno in corsa, che -ironia- magari prima avevo pure scambiato per qualche altro. Dunque, oggi, in questo giorno del presente, sono convinta che la parte più importante e titanica del viaggio è il salire: salire quei gradini, superare le porte scorrevoli, andare al proprio posto e sedersi. Poiché fatto questo, non sono già più chi ero e così mi apro davvero a tutte le possibilità di chi potrei essere e di chi sarò. Certo, non so a quale stazione scenderò ancora, ma so che se non si tratterà del posto adatto a me, potrò pur sempre ripartire.
Quel che è sicuro, tuttavia, è soltanto ciò che ho lasciato alle mie spalle: la stazione che mi ha vista andare via era alla pari di un porto sicuro che, suo malgrado, non mi avrebbe mai dato la possibilità di evolvermi, specie quando il vento, nuovamente, mi spingeva ad andare.
Magari domani non la penserò così, o chissà che non rimanga invariata e uguale a me stessa, eppure non importa: che ad oggi, in questo lucido presente, voglio osannare un verbo che, con il senno di poi, aggiusta sempre ogni cosa: “scorrere”. “Rei“.

“Scorre-rei”, lo faccio, lo faccio: e allora “scorro” come il treno su cui fortunatamente sono salita.

Pensieri della sera che magari non parlano sempre di amore

Per ogni giorno

Esci?
Con chi esci?
Scrivimi mentre sei fuori, scrivimi spesso sennò vuol dire che non mi pensi.
Ci sono amici maschi? Non lo sai?
Mi raccomando, non ti mostrare troppo espansiva perchè sennò pensano che ci provi.
Sì, mi va bene che esci, e non dire che non ci tengo alla tua felicità. Basta solo che ti cambi quella maglietta scollata. Una sciarpa, mettitela anche nel locale perché sennò ti guardano.
Che discorsi fate con le tue amiche? Raccontameli, perché lo sai che tra noi non ci devono essere segreti.
Vogliono che vada in palestra con loro? Ma a te non serve la palestra, sei bella così e poi si sa, i personal trainer ci provano sempre.
Perché ti sei truccata? Che ti trucchi a fare se sei con le tue amiche? Da chi vuoi farti guardare?
Come? Perché prima non mi hai detto che ci sarà pure l’amico della tua amica? Che significa che forse viene? Non lo sai? Cosa mi nascondi? Come non era importante specificarlo? Ripeto, cosa mi nascondi?
E poi a chi stai guardando? Ti ho vista che inseguivi quel ragazzo con lo sguardo, chi ti ricorda?
Torni tardi? Perché devi tornare tardi? È la seconda sera di fila che esci e devi tornare pure tardi?
Non ha importanza che io sarò a calcetto per quando tornerai, torna ad un orario decente perché poi domani sei stanca, poi domani ti lamenti, poi domani…
Sì, ti do il permesso di uscire, ma ricordati che io conosco praticamente tutti e al primo passo falso, lo vengo a sapere.
Ora vai, stai zitta e non ti lamentare, che ingrata: non solo ti dico di andare! Lo vedi quanto ti amo?

Anche questa è violenza e lascia ferite indelebili.

Pensiero e sentimento

Manifesto egoriferito

Mi piace vestirmi di bianco, con abiti lunghi, in ricordo di stili lontani. Agghindo il mio corpo con anelli, bracciali e orecchini, mentre la mente si impreziosisce di riflessioni e tanti libri, proprio come le donne hanno sempre fatto nel corso della storia. E con i capelli sciolti, spesso in balia del vento, continuo a richiamare in cuor mio quelle donne greche o egiziane, nell’attimo in cui si fermavano ad ammirare anch’esse il mare al tramonto.
Sono figlia di tante generazioni, di donne e di uomini di lingue diverse e passioni potenti.
Sono il frutto delle ere, delle età, dei pensieri, delle letture, delle melodie e delle terre che hanno calpestato.
Sono un granello di sabbia nella storia, al centro di altri granelli di sabbia che continueranno questa stirpe che perde le sue origini nel tempo.
Sono una Gradiva che avanza tra le rovine di Pompei; la fotografia in bianco e nero di una donna senza nome e con una storia dimenticata che ha bruciato le sue carni, toccando inconsapevolmente la psiche di chi l’ha succeduta.
E con queste riflessioni, mentre la gonna e la chioma continuano a ondeggiare al vento, fisso il mare dal terrazzo della mia casa.
Sono la figlia lontana di quella donna dal nome ormai perduto che si affacciava dal suo castello in attesa che il sole tramontasse dietro l’isolotto in balia dei flutti.
Sono il risultato delle scelte e dei destini di tutti coloro che mi hanno preceduta in un conto alla rovescia, in un viaggio a ritroso, tra le maree infinite del tempo.