About R.O.

Il tempo di un sogno: dal virtuale al concreto

Prendere un libro nuovo tra le mani, mentre sei circondato da tanti tomi colorati, riposti ordinatamente negli scaffali di una libreria.

Ad attirarti può essere il colore della copertina, un’immagine, il titolo o tutte e tre le cose insieme. Incuriosito ti avvicini, lo scegli, lo sfogli, lo studi. Guardi la biografia dell’autore, ne leggi qualche brano. Finché qualcosa di quelle righe ti chiama, e risuonano in te, da qualche parte della tua anima, parole scritte da qualcun altro. Allora lo prendi, ti dirigi alla cassa, lo compri e torni a casa.

Possono passare giorni, mesi o puoi dedicartici la sera stessa. Che sia a letto o appollaiato sul divano, cominci la lettura finché tutto il mondo che conosci, svanisce, sostituito da un altro possibile, così come l’ha descritto l’immaginazione dell’autore a cui ti sei affidato.

Eppure, in questo caso, per la prima volta in vita mia, tra i libri di una libreria della mia città, io sfoglio le pagine di qualcosa che porta il mio nome e la mia anima. E leggo, con occhi vergini, racconti che chissà da quale parte di me sono fuoriusciti.

Ed è con questo lungo poema che sono lieta di annunciarvi che Racconti Ondivaghi è una realtà concreta che, voi palermitani, potrete sfogliare da Spazio Cultura Libreria Macaione (via marchese di Villabianca).
Mentre ecco il link per comprarlo online: Racconti Ondivaghi – Vj Edizioni

E lascio inoltre un piccolo spoiler sempre per i miei compatrioti palermitani: non prendete impegni per domenica 15 gennaio, che farò la presentazione. La mia prima in assoluto e ne vedrete/ vedremo delle belle 💕

Grazie dunque a Spazio Cultura e ovviamente un ringraziamento sempre a VJ Edizioni Milano di Edoardo Ferrario

E a tutti, un Buon Natale!🎄

V.

Pensiero e sentimento

Una marea

Avevo bisogno di una finestra sul mare, di due ante che si aprissero verso i miei desideri.
Non si scrive soltanto quando si è tristi, ma lo si fa anche quando si ha tanto da dire. E questo “tanto da dire” è una marea che mi sconquassa dalla testa, al petto, allo stomaco. Non posso rimanere impassibile alle sue onde.
Dall’interno del mio microcosmo, allora ho bisogno di guardare fuori. Non è il caos della città a richiamare la mia attenzione, nè la quiete di una distesa di montagna. È il mare, è solo il mare che mentre sembra dormiente, in realtà si muove. Che mentre sembra annoiato, in realtà intrattiene infiniti discorsi con il cielo, con la terra e con tutti gli occhi che lo guardano.
Allora il mare è la mia cura, il mio riflesso, da sempre la mia casa. E quando lo guardo non ho più bisogno di dovermi perdere in parole e discorsi, perché lui assorbe tutto il fumo di questi tempi. E quando scrivo e ogni volta lo nomino, è perché anche il sol pensarci, mi calma.
Dopotutto è così che si fa con gli esseri che si amano, quando sono lontani. Ci lega solo il pensiero. Ed io negli anni mi sono allenata con il mare; e così, tutto quel non detto, è stato detto, e tutto quel fumo man mano si diradava.
Ed anche io, seppur distante, in un angolo dei miei pensieri, ho pur sempre continuato a sentirmi a casa.

Racconti, Racconti & Poesie

Foglie gialle e neve

Una giornata intera a camminare per la città. A vagare tra vicoli e vicoletti, sperando che i tanti volti, rumori confusi e musiche passeggere riuscissero a spegnere i pensieri.
Richard è sempre stato così – pensai- sempre pronto a farmi ricredere. Quando le cose andavano bene, non ero mai tranquilla: sapevo che ben presto sarebbe arrivata la tempesta. E poi in quei tanto temuti giorni di bufera, la pioggia torrenziale, di colpo, si trasformava in soffice neve che, paradossalmente, irrazionalmente e follemente ci riscaldava i cuori.
Anche quella mattina successe qualcosa di simile. L’alba era dorata tra le sue braccia, il venticello faceva muovere le persiane di legno e si sentivano i bambini ridere dal parco accanto al nostro palazzo. New York e le sue strade, New York e tutti gli scenari che il mattino andava a risvegliare. E tra questi c’eravamo noi, distesi sotto le coperte nel letto caldo, mentre ognuno si ridestava dai propri sogni.
Mi disse buongiorno a bassa voce, mi baciò sulla fronte, mi sistemò meglio le coperte e si alzò per andarsi a preparare. Io come ogni mattina lo sentii ad occhi chiusi e dentro di me sorrisi; tentai pure di afferrare il suo braccio per trattenere l’alba ancora un poco insieme a me, ma lui, delicatamente si liberò.
Quella delicatezza, quanto la temevo a volte: perché era con la delicatezza che, quelle volte, riusciva a farmi ingoiare le pillole peggiori.
Mentre mi svegliavo, sentivo l’acqua scendere nella doccia. Pensai a quanto potesse cambiare la percezione di un oggetto, se a utilizzarlo è chi ti sta più a cuore. Quando era lui a usarla, per le mie orecchie quella doccia suonava, mentre se a usarla era qualcun altro, non si trattava nient’altro che di acqua pesante che, a forma di gocce, cadeva e sbatteva ovunque come proiettili.
E questo era lui per me: un uomo che, ai miei occhi, trasformava in oro tutto quello che toccava: e purtroppo anche ciò che era più lontano dall’oro.
Allora mi alzai, andai a preparare il caffè per entrambi, aspettando pazientemente che lui mi raggiungesse. Il venticello si alzava, faceva freddo e io trovai una sua felpa per coprirmi, mentre già cominciavo a sentire l’odore del caffè provenire dalla caffettiera.
Richard entrò in cucina e senza nemmeno guardarmi prese la sua tazzina già riempita, vi versò un cucchiaino di zucchero di canna, lo bevve, si fermò, non mi guardò nemmeno. Allora si girò verso di me -non mi guardò-, trovò intuitivamente la mia testa per darmi un bacio senza ancora guardarmi, disse “ciao” o “a più tardi”- non ricordo- e , senza guardarmi neanche mezza volta, raggiunse la porta, l’aprì, la richiuse, poi andò via.
New York in autunno sa riempirti il cuore con il suo essere molto pittoresca e colorata, eppure certe mattine sa come farti sentire vuota, sola, una straniera in mezzo a tanti solitari.
Guardavo dalla finestra della cucina, superavo con lo sguardo le scale antincendio e vedevo Richard andare via in sella alla sua moto.
Sapevo che si stava avvicinando l’inverno, ma non ero mai pronta all’idea che il tempo potesse cambiare così repentinamente, minacciando di nevicare quando ancora le foglie gialle andavano scoprendo via via tutti gli alberi della città.
Quello che feci, fu ricoprire il vuoto generato da quella porta di casa chiusa tanto velocemente,  con la musica mista ad acqua della mia doccia. Mi vestii, cercai di ripassare mentalmente la routine, sintonizzando la mente solo con i miei impegni. Allora cercai le chiavi e, infreddolita al pensiero di dover uscire, mi misi il suo cardigan marrone; quello che rimpicciolii per sbaglio in uno dei primi lavaggi -in uno di quelli che in realtà volevo fare con il cuore e che finivano in teneri e per me imbarazzanti disastri-.
Almeno in quel modo, lui mi poteva abbracciare per tutta la giornata, pensai indossandolo.
“Stavo elemosinando l’affetto”- mi dissi mentre abbottonavo il cappotto e mi richiudevo la porta alle spalle, proprio come lui aveva fatto poco – o già molto- tempo prima.
Stavo elemosinando silenziosamente qualcosa che non avevo, o meglio, qualcosa che non era stabile. Non dovevo lottare per un posto, non dovevo andare a letto la sera pregando di ritrovarlo ancora lì la mattina. Non dovevo sentirmi fortunata di passare un altro giorno con lui o di vedere che lui mi dedicava un momento in più della sua giornata. Al contrario ero io che dovevo scegliere ogni giorno se volevo passarlo con lui ed era lui che doveva ritenersi fortunato della mia presenza e della compagnia della mia testa.
Arrivata a lavoro, cercai di distaccare i miei pensieri dal  cuore per collegarli al mio senso del dovere. Le ore passarono veloci, tranne per quei momenti in cui guardavo l’orologio e automaticamente il mio pensiero volava da lui.
Nessun sorriso, nessuno sguardo, non una parola. L’alba dorata aveva lasciato il posto a una mattinata dal cielo grigio e ventoso, ed io avevo solo un cardigan rovinato a riscaldarmi.
Così, dopo il lavoro che da un lato pregavo che non finisse, decisi di passeggiare fino a una meta indefinita.
Una giornata intera a camminare per la città. A vagare tra vicoli e vicoletti, sperando che mille volti, rumori confusi e musiche passeggere riuscissero a spegnere i pensieri.
Sarà tornato a casa? Questa volta tornerà? Devo ancora dipendere dalle sue scelte giornaliere o “finalmente sceglierò”?
Forse fu all’uscita della metro che, per la prima volta arrivò un pensiero che, tra i tanti, riuscì a rincuorarmi. E allora mi ci aggrappai, mi ci aggrappai potentemente con tutte le forze che avevo. Il ragionamento era questo: lui avrebbe anche potuto scegliere di non volermi più, ma nel dubbio, in quell’insicurezza che avrebbe segnato le mie giornate future più prossime di un’assenza marcata, proprio lì, io avrei trovato la mia libertà. La libertà da una presenza chiaroscurale con molti tratti ombrosi; una libertà da dei fili che, muovendosi, cambiavano le espressioni del mio viso ogni giorno e anche più volte al giorno. Una libertà che ritrovavo nel decidere io stessa dei miei stati d’animo, di pilotarli verso l’alto, senza che nessuno me li buttasse violentemente e rapidamente giù con l’arrivo di qualche nuvola. La libertà di non sentire piccoli pugni nello stomaco ogni volta in cui un piccolo gesto mancato o uno sguardo non percepito mi facessero sentire la ruota di scorta, utile per un mondo che teme la solitudine.
Abbracciare la mia solitudine tra le strade autunnali newyorkesi mi stava sembrando naturale come abbracciare la pienezza d’animo in un campo di grano rischiarato dai primi raggi del sole.
Grazie a questo, quella giornata grigia vide spuntare un nuovo e leggero calore nel mio stomaco e che poi si propagò al cuore. E questa volta, lui non c’entrava niente.
Rientrando a casa, lo vidi che stava in piedi davanti alla finestra a sorseggiare un scotch con ghiaccio.  Ah, Richard, Richard e la sua rivoluzione francese nella testa. “Qualche sparo ogni tanto” a volte mi diceva, e in quel giorno potevo leggere dai suoi occhi che c’erano stati molti spari e qualche tregua.
Per quella sera o da quella sera, ancora non so, smisi di sentirmi l’inviata di pace delle sue lotte intestine. Cessai di essere la crocerossina venuta al mondo con il compito di soffiare sulle sue ferite. Capii con il tempo che questa forzatura spesso non serviva e che più pretendevo di esercitare il mio “lavoro”,  e più quello stesso impiego non era considerato se non con i pochissimi riguardi di cui poteva disporre l’indifferenza. Perché arrivare a rendere il mio aiuto scontato? Perché arrivare a far considerare il tempo che io dedico a qualcuno come un bene che viene sempre più sottovalutato?
Allora gli ricambiai il bacio in testa di quella mattina, entrai in salotto e mi misi a leggere “Casa di bambola” di Ibsen davanti alla finestra chiusa, per non permettere più al freddo di irrigidire la mia vita- o almeno per quella sera- .
Dopo qualche ora fu lui a venire. Semplicemente si sedette accanto a me, con il suo taccuino in mano. In quel silenzio che si generò, stavamo bene. Niente di obbligato da dire, da esprimere, da esigere.  Nessuno stava elemosinando niente, nessuno stava dando più del dovuto.
Dopo cena, ci cambiammo per andare a dormire. Nel mettermi a letto, io avevo in testa la musica di una milonga: passione, rabbia, erotismo, dolcezza, amore, sospetto, odio, amore, amore, passione, odio, amore. Erano tutte le emozioni che trapelavano da quel ritmo al mio animo, oppure che provenivano dal mio animo e si attaccavano a quel ritmo come fanno due amanti che, ballando, impregnano gli occhi degli spettatori della loro essenza.
Richard spense la luce dall’interruttore accanto alla porta della nostra camera e scostò le coperte per mettersi nel nostro grande letto accanto a me.
Io ero girata dall’altro lato, e dandogli le spalle, stavo lì a guardare in silenzio la neve che cominciò a cadere da quella strana New York autunnale.
Un calore avvolgente, una presa sicura, una morsa rassicurante mi avvolse le spalle da dietro e avvicinò la bocca al mio orecchio.
“Buonanotte amore mio”, la voce chiara di Richard.
Quella notte la neve fu la più calda e la più silenziosa che avessi mai potuto vivere, eppure io l’indomani non avrei più temuto l’inizio dell’inverno.

Racconti, Racconti & Poesie

Le 20 sigarette

Da quando lui ha finito il suo pacchetto di sigarette, a me è venuta fame.
Sembra strano come le due cose possano essere collegate; eppure quella sera, dopo aver terminato la nostra ennesima cena a base di silenzio e un comune soprappensiero, dopo esserci stesi sul divano, aver acceso, lui, la tv ed io aver aperto il libro, non lo avevo mica capito che le due cose erano collegate.
É andata più o meno così: lui con fare annoiato che aveva finito l’ultima sigaretta del pacchetto da 20 -comprato proprio quel giorno- ed io che, di colpo, avevo voglia di dolci.
Allora ha bofonchiato qualcosa, si sei alzato, è andato a cercare le chiavi, ha preso e messo il giubbotto tanto per non soffrire il freschetto delle sere di maggio e, dimenticando felicemente il telefono in carica, ecco che è partito alla ricerca delle sue 20 sigarette.
Intanto io avevo chiuso il libro ed, entrando in cucina, aprii quella scatola di biscotti che nascondevo a me stessa da almeno un mese.
Un biscotto, piccolo e leggero senso di colpa.
Lui ancora non era tornato e allora io misi l’acqua sul fuoco per prepararmi una tisana. Un biscotto e una tisana, magari questa strana sensazione passerà.
Decisi di cambiare postazione e dare al mio libro un nuovo sfondo. Ero appoggiata sul tavolo della cucina, con una gamba a penzoloni sull’angolo e l’altra rannicchiata sotto di me, che stavo scomposta sulla sedia. “Un maschiaccio” avrebbe detto mia nonna. Eppure lei, vissuta in un’epoca di galanteria e merletti, non sapeva – o forse sperava che fossi io a non scoprirlo mai- che a volte l’essere “maschiaccio” può servire. Che fosse per trovare lavoro o per fingere soltanto di tener testa agli uomini, quell’attitudine indubbiamente ha contribuito ad agevolare le donne in un mondo, purtroppo, ancora medievalmente maschilista.
Così, mentre sfogliavo le pagine del mio libro blu e andavo avanti con la sua storia, sorridevo tra me e me, ripensando a quante cose avrà imparato dalla vita mia nonna, sperando che nel futuro -e cioè nel mio presente- sarebbero cambiate.
Un altro biscotto, un’altra pagina, l’acqua che bolliva. Mi alzai per scappare dalla scatola tentatrice e portatrice di cioccolato misto a tanto zucchero. Versai l’acqua nella tazza con su scritto “No olvides sonreir“, e questa cominciò a fumare e a profumare l’aria di cannella.
Ritornai in postazione, aspettai che il calore diminuisse, lessi due righe, mi fermai: un altro biscotto. Allora mi rialzai, raggiunsi il piano cottura su cui avevo strategicamente lasciato i biscotti prima di risedermi, puntando sulla mia pigrizia – ma ecco che in questi casi è l’istinto a batterla-. Dunque un altro biscotto, anzi due, anzi tre. Dovevo sentire a pieno il sapore, dovevo godere a fondo di quella “felicità”. Che nome poteva avere quella sensazione di piacere dopo giorni, mesi o forse anni di pioggia, puzza di sigarette e vuoto? Come potevo ripudiare quella carezza rivolta alle mie papille gustative in mezzo a un deserto di carezze da molto non pervenute su qualche altra zona del mio corpo?
“A che numero sarò arrivata?”, pensai. Forse era il decimo o il quindicesimo biscotto, fatto sta che quel conto mi fece ricordare che era già passato un bel poco di tempo, ma ancora di un nuovo pacchetto da 20 sigarette a varcare la porta, non vi era traccia.
Decisi di tornare in salotto, con in mano la tazza e il libro. I biscotti in cucina, le sigarette chissà dove. Entrando nella stanza, vidi che la tv trasmetteva ancora il film d’azione che il quasi-ormai-famoso-cercatore di 20 sigarette stava guardando.
-“Rambo, piacere di sentirti vivo. Dacci la tua posizione che veniamo a prenderti.”
-“Murdok sarò io che verrò a prenderti.”
Ironia della sorte, era quello che stavo pensando anche io.
Che si sia perso? Che stia andando a cercare, una per una, le 20 sigarette in giro per il mondo? Che stia contrattando con spacciatori e narcotrafficanti per averne ognuna di una tipologia diversa? Che il distributore automatico situato alla destra del mio portone sia entrato in una dimensione parallela e che per arrivarci servano riti di sangue e raccomandazioni speciali?
“Murdok sarò io che verrò a prenderti”, mi ripetei in testa, gli altri lo cercano, lo aspettano, ma sarà lui ad andare o a tornare da loro. Perché agitarsi quando tutto dipende dalla sua testa e non da quella degli altri? Che ruolo potevano avere gli altri, se non marginale in confronto all’eroe?
In quel momento stavo ancora soffiando sulla mia tisana, aspettando, ormai quasi impazientemente, che, gentilmente, mi permettesse di berla. Ed è così che succede con le relazioni, pensai: fai di tutto per andarci con tutte le precauzioni, per far sí di non rischiare di bruciarti. Ti metti in testa che devi aspettare, andarci piano, che le cose che si guadagnano con il tempo sono le migliori, le più stabili e le più durature e poi…
A quel punto me ne fregai e avvicinai le mie labbra alla tazza come si fa con il proprio ragazzo dopo un pesante litigio: incerta, stanca, vogliosa.
“Ahia!”… e poi ti bruci.
Dopo aver ricevuto quel morso dal duo tazza-tisana, ecco che decisi di spegnere la tv, alzarmi dal divano, lasciare il libro che per quella sera non avrebbe più trovato nessuno che ascoltasse quanto aveva da dire e andai dritta fino al ripiano della cucina.
Presi due delle cose che avevo nascosto in quella stanza, proprio perché la mia casa era troppo piccola e senza validi nascondigli per farlo altrove. Dopo di ciò andai in bagno.
Passarono sì e no due ore, due ore eterne, ma, uscendo dal bagno, eccomi a sorridere tra me e me, mentre guardavo il suo telefono in carica sul suo comodino. Alla ricerca di 20 sigarette, senza nessun mezzo per ricercare lui. Poteva generarsi un loop incredibile, e dopotutto, tristemente – ma nello stesso tempo con ironia- sapevo che non era il caso di scomodare la polizia con la storia del ricercatore scomparso delle 20 sigarette, in quanto probabilmente le 20 sigarette si trovavano tutte a casa di una persona dal nome femminile e dal cognome a me ignoto.
No olvides sonreir” neanche in quel caso; neanche quando, in compagnia del mio pacco di biscotti, mi infilai sotto le coperte con la lucina accesa.
Un biscotto e poi un altro, una piccola lacrima e poi un’altra; il cioccolato, la tisana ormai fredda e inutile. Avrò superato di certo i 20 biscotti mentre rintoccava la mezzanotte e al mondo erano finite le sigarette.
Ricordo che quella notte mi addormentai con la luce accesa, stanca di tutto: del cioccolato, degli zuccheri raffinati, della mia tazza con su scritto “non dimenticarti di sorridere” in spagnolo, dei film d’azione alla tv, della tv stessa lasciata accesa da qualcuno, dei distributori di sigarette finiti in un altro universo, delle tisane troppo calde, dei morsi dei ragazzi incazzati, delle labbra ferite, delle piccole lacrime in solitaria, dei telefoni dimenticati sotto carica, delle cose nascoste nei ripiani della cucina e delle 20 sigarette disperse tra i meandri di un amore inesistente.
Ma la notte, nonostante tutto, passò e con lei finirono i biscotti, mentre i distributori lasciavano la scena all’apertura dei tabaccai. A non finire, però, fu la mia voglia di dolci, quella voglia di dolci nata giusto nel momento in cui lui aveva fumato la sua ultima sigaretta, senza mai ripromettersi che fosse davvero l’ultima.
Eppure si ricominciava, la mia tazza suggeriva imperterrita di farlo con un sorriso ad ogni ora del giorno, in ogni istante dolce-amaro della vita. Entrai in bagno, il test di gravidanza ancora sul bordo della vasca dalla sera prima: due lineette.
Soltanto ad una cosa pensai: “ti prometto, tesoro mio, che non fumerò mai e poi mai nemmeno una sigaretta”.

About R.O.

Un sogno che si realizza

Carissimi Lettori,
il mio silenzio è durato quasi un anno.
E no, vi rispondo subito: il mio vecchio credere ciecamente nell’Amore, con la A maiuscola, non mi ha abbandonata e, con lui, nemmeno la solita voglia di scrivere.
Eppure, la vita ha trascinato a lungo i miei pensieri in luoghi remoti, dove non c’era spazio per fermarmi a creare racconti.
Purtroppo.

Tuttavia, come in ogni bella storia, anche qui arriva il colpo di scena. Infatti, in questo silenzio, qualcosa comunque è successa: si è andata concretizzando un’idea, che da piccolo semino, grazie a un buon giardiniere che ha creduto in me, sta ormai diventando una piantina dai colori azzurro-mare.

Pertanto, con infinito piacere, vi annuncio l’uscita del mio primo libro, dedicato proprio a quella che per me è stata una palestra di scrittura, conforto personale e tantissimo altro, nonché questo mio blog.

Grazie a @Vj Edizioni ed @Edoardo Ferrario a Natale uscirà Racconti Ondivaghi, e questo lo devo anche a Voi che mi avete incoraggiata e sempre sostenuta, in mezzo a quella sinusoide di emozioni e sentimenti che, negli anni, ho racchiuso tra gli angoli multiformi disegnati dalle mie parole.

Per adesso mi fermo qui, lasciandovi solamente un link, insieme a tutta la mia riconoscenza: il resto lo vedremo insieme, per come ce lo riserverà il futuro.

A voi tutti, fatene buon uso: Racconti Ondivaghi – Vj Edizioni


P.S.: Scherzetto, aggiungo un secondo – e ultimo- link, per mettere like alla pagina Facebook: Racconti Ondivaghi

A presto,
Valeria

Racconti, Racconti & Poesie

Il ballo

Sylvie correva a perdifiato per quelle stradine strette e solitarie, ormai sul far dell’imbrunire.
Il suo abito parigino di tulle con decorazioni in organza si gonfiava al passaggio dell’aria frizzantina di novembre.
Doveva essere rientrata già da un pezzo nel suo convento, adiacente alla cattedrale di Narbonne. E invece i balli, i profumi e i vestiti dai colori sgargianti insieme ai loro ventagli variopinti, l’avevano come rapita in quelle stanze che decantavano ad alta voce tutti i loro sfarzi.
Quella sua fuga nella vicina Perpignan avrebbe sicuramente fatto infuriare le suore, ma come avrebbe potuto rinunciarvi, dopotutto?
Dal momento in cui ricevette il suo biglietto, quel ballo divenne l’unico scopo di vita, l’unica ragione per cui stare in silenzio a contare i giorni e le ore, durante le lunghe e noiose letture con la madre superiora.
D’altronde, quel collegio, il suo convento, stava diventando peggio di una prigione per una giovane come lei, e dunque per evadere non poteva fare altro che fare affidamento sulla sua immaginazione.
Eppure, la testa, oltre che teatro di rappresentazioni fantastiche, è anche fonte di nuove strategie per evadere dalla realtà; le quali, dopotutto, non sono così illecite se alla fine dei giochi non vengono mai scoperte.

Cara Sylvie, vediamoci al ballo il 12 Novembre. Eternamente tuo, E
31 Ottobre 1856

Ripeteva a memoria quelle parole come una preghiera, e questo bastava per sentirsi parte della schiera di tutte le eroine dei tanti libri che teneva nascosti sotto il letto e che arraffava, sfogliandone le pagine ingiallite, non appena le sorveglianti avessero spento le luci.
Édouard, il suo sogno di una vita. Finalmente non la vedeva più semplicemente come la piccola figlia dei Lambrouse; un anonimo anatroccolo medio-borghese, ancora lontano dalla sua trasformazione in cigno. Gliel’aveva detto durante l’incontro tra genitori e figli di fine estate; in un soleggiato pomeriggio di settembre, dolcemente in segreto e lontani dalle voci e dagli abbracci di addio che riempivano l’atrio del convento. “Siete una donna, Sylvie. Sono affascinato da voi”, le confessò timidamente, mentre stava seduto in ginocchio davanti a lei; infatti man mano che il tempo passava e gli alberi cambiavano colori alle loro foglie, ormai la fanciullezza aveva lasciato il posto alle rotondità di una vita florida e primaverile, tanto che niente più poteva frenare la loro passione. O quasi.
Da quelle parole, ogni distacco sanciva l’inizio di una lunga attesa di sospiri al vento che terminavano, fortunatamente, sebbene soltanto durante gli incontri della domenica, in cui venivano invitati i parenti in modo da poter stare con la loro giovane prole. In quelle occasioni, il semplice rivedersi era motivo di una felicità intensa, seppur molto fugace, nonché proibita; la quale, una volta terminata, reiterava lo stesso gioco altalenante di una lunga malinconia che si alternava a un brevissimo apice di gioia. E proprio durante l’ultimo ricevimento di ottobre, organizzato nel chiostro del convento antistante agli appartamenti, il fratello della sua cara amica Chloé, non riusciva più a camuffare quanto avesse occhi solamente per Sylvie. Tuttavia, quel giorno non ci fu verso perché i due potessero ritrovarsi da soli a parlare del tutto e del niente, di nascosto dai presenti, come detta l’amore a quell’età. Nei brevi momenti in cui poté sedersi a bere un té accanto alla famiglia al completo, l’unico argomento che toccarono fu quello del ballo di sabato 12 Novembre. “Quanto vorrei che tu venissi, Sylvie!” le rivolse uno sguardo supplicante Chloè. Ma la madre superiora, che passava di lì in quel momento, non poté fare a meno che commentare quell’invito e chiudere la questione definitivamente con: “Signorina Chloé, come ben sa, mademoiselle Sylvie non può allontanarsi dal convento senza il consenso dei suoi genitori che saranno irreperibili fino al loro ritorno dalle Fiandre. Inoltre, mademoiselle sa perfettamente che deve recuperare gran parte del programma, a causa delle sue ultime assenze, fatte per stare, giustamente, un poco insieme alla sua famiglia. Dunque il ballo è fuori questione”. Non ci fu molto da aggiungere, se non uno sguardo furbo da parte di Chloé che accese un barlume di speranza nel cuore dell’amica.
E fu questa l’ultima conversazione che pose fine all’incontro di quella domenica: di fatti, per quel giorno, il tempo era scaduto. Finché, nel momento dei saluti, con mossa azzardata, Édouard le lasciò rapidamente un biglietto che le richiuse tra le mani, e dopo un ultimo sguardo, risalì sulla sua carrozza alla volta di Perpignan, insieme a sua sorella.
Riaperti gli occhi, una volta terminato di ripassare nella mente quel fuggevole ricordo, Sylvie era decisa: “Ecco cosa farò: il sabato del ballo, mi basterà solo aspettare la passeggiata mattutina insieme a suor Clarisse e, con la scusa di una terribile emicrania, invece di ritornare nella mia stanza, dove il “non disturbare” sarà già appeso alla porta, correrò a prendere la corriera delle dieci. Poi, una volta a Perpignan, andrò a casa di Chloé e sarà lei stessa a prestarmi un vestito per quel pomeriggio. Sono sicura che una volta tolti questi vestiti da provinciale che mi ritrovo, sarò pronta per mostrarmi a Édouard, dimostrandogli che anche io sono degna di far parte della sua cerchia”. 
Ad interrompere i suoi pensieri strategici, vi erano le sorelle intente a distribuire i rosari a lei e alle sue compagne, riunite per raccogliersi insieme, come di consuetudine, a recitare la preghiera delle sette. “Purtroppo però” lei continuava imperterrita nelle sue pianificazioni “dovrò andarmene a metà del ballo, giusto per non perdere La Rondine delle sei, in modo da ritornare qui, giusto in tempo per la preghiera della sera. Sì” si disse “così dovrebbe funzionare”.

Giorno dopo giorno, Sylvie strappava via con foga le pagine del calendario che la separavano dal tanto agognato evento. Tanto che la notte dell’11 novembre non chiuse occhio, ripassando ogni dettaglio del suo piano, come se temesse di dimenticare quell’unico particolare che avrebbe mandato a monte tutto il suo lavoro. Finché alle prime luci del fatidico giorno 12, lei era già alzata, seduta alla scrivania davanti alla finestra, intenta a scrivere una lettera per il suo Édouard.
Finalmente sabato. Alle nove del mattino di una giornata tiepida e soleggiata, come previsto, lei e le altre collegiali si radunarono attorno a suor Clarisse per la passeggiata in riva al fiume. Così il suo progetto ebbe inizio e Sylvie ne seguì pedissequamente ogni fase, proprio come un cuoco attento fa con le sue ricette, al fine di riuscire nell’impresa.
Non appena messo piede a Perpignan, tutto le sembrava entusiasmante. Il sole mite e allegro illuminava le strade, riscaldando perfino alcune delle panchine del parco, su cui sedevano gli amanti a scambiarsi dolci promesse. Sylvie assaporava ogni passo, ogni angolo e ogni nuova visione con immenso piacere, accompagnata dal cinguettio spensierato degli uccelli che alloggiavano pigramente sulle fronde degli alberi. Quel senso di libertà rendeva la sua promenade un toccasana per l’anima. 
Ricordava ancora la strada per giungere alla maison dell’amica da quell’ultima volta che l’aveva percorsa nel Luglio precedente; una volta uscita dal parco, avrebbe dovuto girare a destra, camminare fino all’incrocio, ed ecco che proprio lì si ergeva l’immensa proprietà dei Troussard. 
Bussò ripetutamente al grande cancello di quercia, e poco dopo un servitore venne a riceverla: “Mademoiselle Chloé la sta già attendendo nella biblioteca. La prego, mi segua”.
Appena le grandi porte del cancello furono spalancate, un seducente mondo fatto di amenità e ricchezze l’assorbì tutta intera. Un lungo viale conduceva alla dimora in stile inglese, con un grande colonnato che dava sull’ingresso principale. Quindici furono le statue marmoree di cherubini che riuscì a contare lungo il tragitto e tre le fontanelle che riempivano zone altrimenti vuote di un prato verde, ricolmo di erba e fogliame autunnale.
Una volta entrata nell’androne, una grande scalinata s’imponeva davanti a lei, mentre numerose stanze dalle porte chiuse circondavano l’entrata, sia a destra che a sinistra. Arrivata al primo piano, la terza porta era quella della biblioteca; una stanza ellittica e con scaffali in legno intarsiato, ricolma di volumi, alcuni antichi perfino di trecento anni; tutti trofei del gusto collezionistico del nonno di Chloé, nonché il vecchio Marchese Troussard.
“Eccoti, Sylvie! Ce l’hai fatta a venire”, l’amica nel vederla le si gettò al collo. “Come sono felice! La madre superiora e suor Clarisse non hanno capito che saresti andata via, giusto?”, le chiese preoccupata. “Spero di no, Chloé. Oh, come sei bella!” le disse, indagando con lo sguardo ogni dettaglio del suo vestito. Allora, la giovane la prese dalle mani e subito cominciò a trascinarla per tutta la stanza, descrivendone ogni particolare, senza smettere di parlare. “Vedrai, il ballo ti piacerà! Inoltre, ho deciso che indosserai il vestito che i miei mi hanno portato da Parigi, il Natale scorso” “Che dici, quello della maison di Madame Bertin?” “Oui, proprio quello! Sembra fatto aposta per il tuo corpicino dal vitino stretto”, e così Chloé le misurò i lati della vita con le mani. “Ma non potrei mai metterlo, non voglio che si rovini!”, tentò di ribattere Sylvie. “Ah, sciocchezze! Dici sempre che vorresti sentirti come una principessa durante un ballo. Ebbene, ecco il ballo e pure il vestito”. E mentre l’amica, finito di passare in rassegna ogni angolo della biblioteca, passò a elencare tutto ciò che avrebbero fatto da lì al pranzo, Sylvie intanto continuava a spostare lo sguardo da un punto all’altro di quella casa, muovendo i suoi occhi grandi come durante una partita di ping pong, affascinata da ogni forma, oggetto o colore.
“Ah, piuttosto…”, Chloé rallentò il ritmo delle sue parole, fino quasi ad arrestarlo del tutto, per poi poggiare uno sguardo curioso e indagatore sulla sua ospite: “Mio fratello Édouard mi ha chiesto più volte della tua presenza, questo pomeriggio”. Sylvie si arrestò di colpo, dopotutto anche la sua amica era all’oscuro dei fatti; piuttosto, non voleva che una situazione indefinita come quella, avesse potuto destare speranze che si sarebbero rivelate inattese, nel caso in cui la vita li avesse separati. “Sul serio?” domandò cercando di rimanere vaga: “Eppure, l’ultima volta che ci siamo visti, siamo riusciti a scambiarci appena un saluto d’addio”. E cercando di coprire il suo rossore, tentò anche di cambiare discorso: “Ad ogni modo, che ne dici di mostrarmi il vestito?”. A quelle parole, l’energia di Chloé ritornò quella di prima, consapevole di mettere da parte quell’argomento, almeno per il momento. E prendendola ancora una volta per le mani, l’accompagnò al piano superiore, diretta all’armadio di mogano, posto accanto allo scrittoio di ebano, appoggiato a un muro tappezzato da una quantità indefinita di tulipani dipinti.
Sylvie si sentiva catapultata in un altro mondo; nemmeno la sua casa era tanto elegante. Eppure sua madre aveva sempre avuto un gusto alto-borghese, penalizzato dalle finanze della famiglia. Una condizione che quel viaggio nelle Fiandre, come tanti altri in passato, in quanto antiquari, avrebbe cercato di arginare. Fortuna che Chloè era la chiave di un altro universo, quello che pensava esistesse solo nei libri; uno scrigno singolare che conteneva oggetti, luoghi, volti e perfino misteri da celare.
“Eccolo, questo sarà il vestito. Vedi i ricami in filo argentato? Ho chiesto personalmente di aggiungerli alle maniche. E che corsetto! Potresti non respirare per tutta la giornata, ma credimi, ne varrà la pena.” Direttamente dalle migliori boutique parigine, quel vestito di tulle degno della figlia di un re, poteva davvero essere suo per tutte quelle ore. “Presto, sbrighiamoci!” le intimò Chloé, distogliendola così dalla sua estasi: “Gli ospiti arriveranno verso le quattro, ma noi scenderemo soltanto alle quattro e mezzo. Sai com’è, meglio farsi attendere. O almeno, è così che fanno a Parigi.” E con un’alzata di spalle, richiuse l’armadio alla volta del salone del pranzo.
 Sembrava che, da un lato, le ore volassero, mentre dall’altro andavano realmente a passo lento. Dopo il déjeuner passato nella grande sala bianca, con il tetto affrescato di Sibille e Geni, seduta a un enorme tavolo circondato dalla servitù, Sylvie cominciò a chiedersi dove fosse Édouard e come mai non lo avesse già incontrato. Dopotutto, quella doveva pur essere casa sua. “Che sia ancora in viaggio, di ritorno da Parigi?”, si chiedeva.
 La madre di Chloé, un’aristocratica dai modi affettuosi, le concesse il lusso di prendersi un caffè dopo pranzo. La sua grande apertura mentale, la rese complice insieme alla figlia di non rivelare nulla alle suore, purché fosse ritornata in tempo per il coprifuoco. 
“Ho sentito che, voi ragazze, non vedete l’ora di raggiungere la maggiore età per lasciare il convento ed occuparvi delle faccende domestiche. Dopotutto, una giovane donna ha l’onore e onere di controllare l’andamento degli affari di casa, come l’uomo quello degli affari esterni o esteri, per così dire”. Era il notaio Troussard, padre di Chloé e ricco ereditiere, di recente entrato in politica; al contrario della moglie, un uomo all’antica, legato a un’idea patriarcale non solo della famiglia, ma proprio dell’esistenza in generale. Sylvie, con tutta la sua pacatezza, pur non approvando il pensiero di quel tipico aristocratico bigotto, cercò di rispondere in tono maturo: “È vero, ormai a dividerci dal traguardo ci mancano pochi mesi e ben presto saremo fuori da questa vita fatta di preghiere e studi. Eppure, personalmente, il mio sogno sarebbe quello di continuare a istruirmi”. “Beh, certo! La sapienza è potere, come dico sempre ai miei figli. E ne avrà di tempo, mademoiselle Sylvie, durante la sua vita. Ricordo benissimo la mia amata Sophie, quando in attesa della nostra secondogenita, passava giornate intere a leggere romanzi”. A quelle parole, la menzionata abbassò il capo. Ma da quel momento, la giovane non osò proseguire oltre con i suoi pensieri; sapeva che quanto balenava nel suo animo, non era ancora accettato né dagli adulti, né dall’intera società. Ancora nel 1800, a secoli di distanza dal Medioevo, lo studio per le donne veniva identificato semplicemente con l’ozio della lettura romanzesca, uno svago per l’appunto da “femmine”, mentre per gli uomini diveniva lo strumento per raggiungere una carica di tutto rispetto. Eppure, questo lo notava già quando aveva quattordici anni; mentre lei stava in convento, suo cugino Ermes era libero di seguire il padre, lo zio Reginald, proprio per imparare il suo mestiere.
Eppure, se avesse avuto la libertà di scegliere, lei, Sylvie, quale mestiere avrebbe scelto? Ad appena un soffio dalla maggiore età, sebbene il corpo fosse già quello di una donna, il cuore faticava ancora a trovare una definizione per se stessa.
“Sylvie. Sylvie”, Chloé la richiamò dall’altro lato del tavolo, attirando la sua attenzione con la mano. “Andiamo a prepararci, tra due ore arriveranno gli ospiti.” Detto ciò, chiese il permesso ai suoi genitori di congedarsi, e una volta ottenutolo, le due fanciulle corsero nuovamente su per le scale, buttandosi sul letto con la gaiezza dei loro diciassette anni.
 “Sai Sylvie, oggi rivedrò Timothée”. Chloé si era messa le braccia dietro la testa, fissando il soffitto, sognante: “Probabilmente, questo pomeriggio, mio padre annuncerà il nostro fidanzamento.” Si girò a guardare l’amica, mettendosi su un fianco: “Ci sposeremo in Giugno, alla fine degli studi. E tu sarai accanto a me, quel giorno.” le rivolse un grande sorriso. Sylvie, che accolse in modo sorpreso la notizia, la guardava con aria contenta e insieme malinconica: “Sono davvero felice per te. E quando l’hai saputo?” “Ieri sera. Beh, in realtà lo so in via del tutto ufficiosa. Infatti, mentre stavo andando in biblioteca per prendere un nuovo libro da leggere per farmi conciliare il sonno, nel sentire i miei genitori parlare da lì dentro, mi sono fermata vicino alla porta. E mentre origliavo, ho sentito chiaramente la voce di mio padre che diceva che l’indomani avrebbe reso pubblico il fidanzamento”, poi ci pensò un attimo e con sguardo assorto aggiunse: “In fin dei conti, io sono pronta.”. “Sai, tu sei fortunata Chloé”, le rispose d’un tratto Sylvie con aria profonda. “In che senso?” le chiese l’amica. “Ma sì, dico che sei fortunata perché il tuo promesso coincide con la tua anima gemella. Con l’unica persona che rispecchia l’immagine dei tuoi sogni. Dopotutto, sono anni che parli di Timothée come l’unico ragazzo degno di attenzioni da parte di una giovane donna, in un mondo di giovani immaturi e piatti di spirito”. In quel momento Chloé si fece seria, come per ripescare la punta di una matassa che non sapeva da dove sgarbugliare: “Diciamo che me lo sono dovuta far piacere. Non ho altre scelte, o almeno non come te Sylvie, specie con un padre come il mio che controlla ogni respiro, sia mio che anche di mio fratello. E poi Timothée ormai si è fatto un bel ragazzo. Anzi, ha pure vinto qualche medaglia durante le battute di caccia ed è uno dei migliori tra i futuri neolaureati alla Sorbonne.” Poi fece una pausa e ripeté più a se stessa: “Sì, sono stata fortunata.”, e in tono più deciso si rivolse alla sua ospite: “Tuttavia vedrai che anche tu troverai l’uomo dei tuoi sogni. Appena varcata la soglia del convento, una volta e per tutte, lo sai quanti uomini ti cadranno ai piedi? Primo tra tutti…”. Sylvie che si contemplava allo specchio con il vestito appoggiato addosso a sé, si fermò per posare lo sguardo sulla sua compagna di collegio: “Prima di tutti mio fratello Édouard”. Questa volta, il suo rossore era palese. “Credi che non mi sia accorta di tutte quelle volte in cui voi due sgattaiolavate lontano, nel giardino del priore? Anzi, ammetto di aver intrattenuto i miei genitori più tempo del solito per permettere a voi, piccioncini…”. Dopotutto Sylvie sentiva in cuor suo che c’era sempre stata la mano di aiuto di Chloé a mandare avanti quel sogno; compreso quel ballo. Al di là dell’amicizia, la dolce Troussard l’aveva capito che sarebbe stato un bel pretesto per farli stare insieme, con maggiore tranquillità.
Eppure, i pensieri di Sylvie tornarono nuovamente sul tema del matrimonio: la sua amica stava seguendo quella scaletta non scritta che la società ha imposto silenziosamente, ma vigorosamente, a tutte le giovani donne di buona famiglia, appartenenti a quello che chiamano il Vecchio Mondo, e non solo. Prima gli studi e poi un buon matrimonio che favorisca entrambe le famiglie, unite nel sacro nome del prestigio. Eppure, chissà per lei come sarebbe stato sposare Édouard; diventare una Troussard e, in questo modo, anche mezza sorella di Chloé. Fare parte di quella famiglia avrebbe sicuramente significato cambiare davvero pianeta; ma che quello non si rivelasse fin troppo diverso dal suo? Avrebbe saputo come navigare in quel mare che insieme l’attraeva e la spaventava? E inoltre, avrebbe avuto modo, una volta entrata in quel sistema, di mandare avanti le sue passioni con la stessa libertà che le aveva inculcato la sua, di famiglia?

Al rintocco delle tre del pomeriggio, la musica degli archi che venivano accordati nella grande sala da ricevimenti, giunse fino a loro, infiltrandosi da sotto la porta chiusa della stanza. Mentre Chloé, ormai vestita di tutto punto con il suo abito di pizzo e raso blu, era intenta a impreziosirsi il corpo con gioielli e profumi, Sylvie guardava fuori dalla finestra, sperando di scorgere il profilo di Édouard. Intanto, con la mano tastava la lettera, che adesso era tenuta ben nascosta nella tasca del suo abito.
 “Guardati, sembri una nobildonna degna di Versailles. Tieni, indossa questi orecchini”, e Chloé corse a cercarle degli orecchini di perla, alla cui vista Sylvie mise subito le mani avanti: “Davvero, è troppo!”, “Ma come troppo? Hai ormai il vestito, le scarpe, insomma: ti manca un gioiello come si deve”. “E va bene, ma prima di partire per Narbonne, risalirò in camera tua per ridarti tutto, sappilo.”, aggiunse la fanciulla, in tono risoluto. “E sia! Ma adesso andiamo, è il momento”. A quelle parole, Sylvie cominciò ad avvertire il cuore che le pulsava fin da dentro lo stomaco. E mentre scendeva la grande scalinata che portava al salone delle feste del primo piano, cominciò a guardarsi attorno, rimanendo estasiata dal profumo che emanava l’alta classe, come di rose rosse miste a una fragranza di fiori d’arancio. Intanto, taffettà, lustrini, sete damascate, pepite d’oro e orecchini di perle, facevano la loro sfilata al centro della sala, formando un bouquet variegato di ricchezze che si radunavano tutte davanti ai suoi occhi. Poi, giunta in mezzo alla stanza illuminata dalle luci dei grandi lampadari di cristallo, nonostante il sole splendesse alto al di fuori delle finestre, non poté fare a meno di rimanere rapita dalle danze a cui prese subito parte la stessa Chloé. 
 Tuttavia, dopo una mezzoretta di saluti cortesi e discorsi consueti, scambiati con le persone che man mano l’amica le andava presentando, il non vedere ancora Édouard, la spinse a cercarlo tra la folla con ansia sempre più febbrile. Di tanto in tanto, convinta di averlo intravisto tra un ventaglio sventolante e una parrucca fin troppo imponente, il suo cuore accelerava bruscamente all’idea che fosse lui; ma purtroppo del suo amato non vi era ancora traccia. “Potrei chiedere di lui a Chloè, dopotutto che male ci sarebbe?” pensava tra sé “Oh, no, mai! Già ha intuito la nostra relazione e sicuramente ha scoperto il mio punto debole. No, non oso arrivare a tanto”.
 Ma suonate le quattro, ecco entrare nella sala da ballo i suoi riccioli bruni e gli occhi azzurri come il cielo. Édouard, il suo Édouard era lì, che parlava affabilmente con il padre. Accanto a loro c’era una giovane donna, la quale si allontanò proprio nel momento in cui il marchese Troussard richiamò l’attenzione della figlia, dimodoché venisse a salutare il fratello. “Mia dolce Sylvie!” e la strinse in un tenero abbraccio. “Édouard, mio caro fratello. Finalmente di ritorno. Dimmi un po’ com’è Parigi? Ah, ma come sono sbadata! Ricordi la mia vecchia amica Sylvie?” e così dicendo, la spinse davanti a lui. “Ma certo che mi ricordo della piccola mademoiselle Sylvie. Bonsoir.” pronunciate quelle parole, i suoi occhi distolsero l’attenzione dal volto rosaceo della piccola Lambrouse, solo per richiudersi in occasione del baciamano, motore di un’accelerazione acuta nel petto della giovane.
“A Parigi tutto bene. Proprio ieri sono riuscito ad assistere alla presentazione di un nuovo libro dello scrittore Flaubert, Madame Bovary. E a proposito, tieni sorella, te ne ho portato una copia”. Alla visione del regalo, Chloè si spinse in un altro abbraccio, ricolmo di amore per quel fratello taciturno, ma quanto mai affettuoso. “Vado a portare il dono in camera mia, per tenerlo in salvo dagli altri nobili ingordi. In fin dei conti, è risaputa l’ingordigia dei nobili al giorno d’oggi”, disse senza farsi sentire dal resto della compagnia. E così facendo, mentre Chloé lasciava la sala e il padre prese a intrattenersi con gli altri invitati, Sylvie poté rimanere finalmente sola con Édouard. “Dunque, siete venuta, mademoiselle. Questo mi rende molto felice”. Lei si sentiva tremare come una foglia; il suo animo era in bilico tra l’estasi e la paura della realizzazione di un sogno; quello di poterlo vedere al di fuori delle quattro mura di un convento oramai fin troppo stretto. Eppure, esteriormente, ella non lasciò trapelare la benché minima angoscia: “Anche io ne sono felice. É davvero un bel ballo, vorrei potessero essercene di più di balli così, dalle mie parti”  ” E allora perché non venite più spesso?” le sussurrò lui all’orecchio più intimamente, in modo più confidenziale. “Certo, quando mi sarà possibile ne sarò felice”.
Avrebbe voluto essere più disinvolta e dismettere per sempre quei modi freddi, tipici di una conoscenza. Purtroppo però, la realtà glielo impediva; in mezzo a quella folla di nobildonne e gentiluomini, lei non rimaneva altro che una straniera, la quale probabilmente non aveva alcun diritto di parlare, quantomeno sognare di sposare, il giovane rampollo di quella casata. “Tuttavia” continuò il giovane “c’è qualcosa che mi preme dirvi…”.  “Édouard, è il momento, vieni.” Lo interruppe suo padre, prendendoselo per un braccio e allontanandolo così dalla fanciulla. Una volta che padre e figlio raggiunsero il centro della sala, il capofamiglia attirò l’attenzione degli invitati, iniziando il suo discorso: “Gentili ospiti, spero che la nostra umile festa sia di vostro gradimento. È stato un anno arduo per tutti noi: dalla siccità, alla scarsità delle provvigioni, fino al veder diminuire le nostre finanze per colpa di una terribile crisi che, grazie al volere di Dio, siamo riusciti ad arginare.” Intanto Chloé era ritornata alla festa, attenta al discorso del padre e pronta a prendere parte alla scena, appena lui avesse pronunciato il suo nome, insieme a quello di Thimothée. “Eppure” continuò Troussard senior: “siamo qui a festeggiare oltre alla nostra perseveranza e alla nostra rinascita, anche l’inizio di un inedito capitolo della nostra vita. In particolare, comincia una nuova pagina per la nostra famiglia, poiché sono lieto di annunciare il fidanzamento di” e Sylvie girò il suo sguardo verso destra, sorridendo in direzione della sua amica, attendendo che venisse nominata. “…mio figlio Edouard con la qui presente Judith Borgogne, figlia dei conti Borgogne di Marsiglia”. Di colpo, come al suono di un bicchiere che cade al suolo e si infrange in mille pezzi, così qualcosa si ruppe all’altezza del ciondolo che portava addosso la giovane Lambrouse, tanto che automaticamente la sua testa si voltò dal lato opposto, quello sinistro, dove Édouard stava in piedi, sorridendo a quella folla in giubilo. Le sue mani continuavano a battere per inerzia, mentre il suo animo si sentiva sprofondare sotto diecimila coltri di neve. Quel che era certo è che una delusione così grande non l’aveva mai provata nella sua breve vita ed era tanto dolorosa, da riuscire a bruciare qualcosa di immateriale come il suo stesso animo; lì, in qualche punto dello stomaco, sentiva la sofferenza come carne viva al fuoco. 
 Dopo pochi istanti, o forse qualche ere, Chloé si avvicinò di corsa, notando quel cambiamento di stagione nel volto della sua compagna. In verità, in quel momento provava un misto tra sollievo, perché non era stato il suo matrimonio ad essere annunciato, ed empatia, sentendosi invadere da un’enorme tristezza per aver, a sua insaputa, illuso le speranze di un’amica che voleva divenisse davvero una sorella. “Va tutto bene” la rassicurò Sylvie, fingendo un sorriso forzato e sventolandosi con il ventaglio veneziano con ricami a forma di cigni. “Ho soltanto bisogno di bere un sorso d’acqua”, “di acquavite, vorrai dire” controbatté l’amica. E le due si avviarono al vassoio del vino.
“Chloé, non guardarmi in quel modo. Io sto bene. Non era il mio fidanzato e soprattutto è tuo fratello!” “Sylvie, ti conosco da quando eravamo bambine e so da quanti anni hai un debole per Édouard. Ma non è te con cui me la posso prendere, semmai è con lui, perché so che può averti illusa. Ho visto quando ti ha lasciato quel bigliettino, all’ultimo incontro in collegio. Ti dichiarava il suo amore, non è vero?”. No, non le aveva dichiarato il suo amore. Quel bigliettino di carta straccia che aveva innalzato ad opera d’arte dal valore inestimabile, riportava solo la frase: “Eternamente tuo”; una sentenza di amicizia o di finto amore che, per quanto ne potesse sapere lei, chissà, era un modo di dire che magari andava di moda nei salotti parigini.  Ma allora, se non vi era alcun intento romantico e decisivo, perché sollecitare ancora il suo interesse, fino a spingerla a venire al ballo? E perché chiederlo più volte alla sorella, coinvolgendo anche lei?
 “E queste due graziose filles cosa bevono?”, Marcel, vecchio amico di Édouard, rosso di vino e allegro del suo alcol, venne a interrompere quel misto di rabbia e delusione che stava oscurando l’aria accanto alle due giovani. Infatti, incurante dell’atmosfera tesa che ruotava attorno alle loro teste, decise di importunarle ugualmente con conversazioni vane, adatte per coloro che in quel momento non stavano sanguinando di nascosto, a causa di ferite invisibili agli occhi felici: “Come va la vita in convento, piccola Chloé? Vedo che ti fai sempre più bella! E che onore conoscere anche la vostra amica”, “Sylvie”, rispose prontamente la diretta interessata, accompagnandosi con un inchino del capo. Ma mentre Chloé prese a saziare la scarsa sete di conoscenze di quel vecchio amico, iniziando così a rispondere alla sua domanda, di colpo, qualcuno afferrò da dietro il braccio di Sylvie. Alla vista di Édouard, lei si sentì barcollare: “Devo parlarvi. Allontaniamoci, per favore”. Senza dire una parola, la giovane si fece trascinare fuori, nel giardino della tenuta, da colui che l’aveva appena resa la più ignobile della terra.
 
In quella terrazza circondata da un colonnato ionico con architravi decorate con bassorilievi di altri cherubini, evidentemente stemmi di famiglia, con occhi seri, Édouard proruppe così: “É giusto che io vi dia una spiegazione. Non era mia intenzione…” ma Sylvie lo interruppe: “Una spiegazione riguardo quale argomento?” e scoppiò in una risata disinvolta e frivola: “Édouard, voi non dovete spiegarmi niente. Volevate che venissi alla festa, in quanto amica di vostra sorella, ed eccomi qui. È tutto chiarissimo e per questo, per l’invito, vi ringrazio. Come vi ho detto pochi istanti fa, è davvero una bella festa”. Ma lui si fece più serio: “No. Sylvie, parlo con il cuore in mano. Vi conosco da quando eravate in fasce e so quello che dico. Da qualche anno ormai, vi noto mentre crescete come un fiore che sboccia in primavera; e con voi portavate gioia, ogni qualvolta venivate, qui, a trovare mia sorella. E non solo notavo quanto diventavate bella, ma pur non avendo avuto modo di interloquire spesso con voi, tramite Chloé avevo capito che tipo di persona foste. E ne ho avuto prova io stesso della vostra sagacia; perché pensavate che venissi da Parigi, per non perdermi nessuno degli incontri della domenica in convento? Lo facevo soltanto per stare con voi e avere la possibilità di parlarvi. E qui vi confermo i miei più rosei presentimenti: la vostra testa è di acume di gran lunga superiore a quello di molte ragazze, anche più grandi di voi. Ma ciò che più mi affascina e mi spinge a cercarvi, è quel vostro candore che continuate a mantenere, e che vi rende diversa dal resto e speciale. Così speciale per me.” Lui le prese la mano, lei lo lasciò fare, giusto per gustare quel breve attimo, prima di essere interrotta dal peso di una realtà amara. “Ma che uomo siete, allora?” quella domanda gli arrivò come uno schiaffo in faccia, e lei si liberò dalla presa. Poi continuò: “E qual è il vostro onore, mentre mi prendete le mani, mi confessate i vostri pensieri e poi siete legato a un’altra donna?”, lei si voltò, ma lui la fermò, afferrandola per il braccio: “Statemi a sentire, il fidanzamento è combinato! Mio padre ha scelto pure per me, come se fossi mia sorella! La famiglia di Judith, i Borgogne, sono banchieri famosi in tutta la Francia, nonché grandi amici di famiglia, dai tempi di mio nonno. La decisione è stata presa da anni per volere degli stessi Borgogne, ma siccome nessuno ne aveva più parlato, avevo sperato che il caso fosse chiuso. Capite? Non volevo essere io a riaccendere l’interesse sull’argomento, ponendo alcuna domanda. Tuttavia, due giorni fa, Judith acconsentì al matrimonio. Dunque ieri sera, mentre mio padre decideva di comune accordo con mia madre di annunciarlo pubblicamente, io ero a Parigi quando ho ricevuto la lettera scritta di suo pugno, per informarmi sull’accaduto. E non ho nemmeno avuto il tempo di avvisare voi. Dunque, quello che ho fatto è stato correre qui e riferirvelo quanto prima, ma mio padre ha avuto fretta nel rivelare tutto pubblicamente. Io sono un burattino, proprio come mia sorella.” Pronunciate quelle parole, cercò di scuoterla, dato che lei non parlava. “Sylvie, il mio cuore è con voi. Vi segue da quando avete messo da parte i giochi dell’infanzia per farvi donna. Non chiudetemi la porta in faccia, troveremo la via”.
  Intanto, all’interno della sala, Chloé riuscì a divincolarsi da Marcel, salvata dall’intervento del suo Timothée. Ma una volta solo, l’amico dal bicchiere ormai vuoto in mano, si ritrovò ancora alla ricerca di una nuova preda da disturbare. Confuso dalla musica e dalle voci, decise di uscire fuori e una volta nel terrazzo, vide da lontano il suo amico Édouard. Non passò molto, prima che il ragazzo barcollante decise di raggiungerlo. “Amico carissimo! Ti ho cerciato – cersato – cercato, ecco! Ti ho cercato per tutta la festa! Congratulazioni, per il tuo matrimonio! Eh, buontempone! Mi ricordo ancora i tempi di quanto io e te, andavamo in giro per Rouen in cerca di…”. Nel tentativo di arrestare quel fiume in piena di parole al sapore di alcool, Édouard, portandogli un braccio attorno al collo, con aria fraterna, gli disse: “Marcel, aspettami nella biblioteca che ci fumiamo un sigaro. Arrivo tra un momento”. Recepito il messaggio, l’amico fece per girare i tacchi alla volta della biblioteca, ma si rigirò subito di colpo e sempre ondeggiando, gli comunicò con uno strano accento francese: “Ah, a proposito: ti cerca Judith”. Detto ciò, invece di andare verso la biblioteca, i suoi piedi lo ricondussero nuovamente al vassoio del vino.
 Ancora una volta, Édouard impiegò ogni fibra del suo essere per convincere Sylvie della sua buona fede. Eppure non poteva celarle la realtà dei fatti, quindi strinse i denti e preso un respiro profondo, riferì ad alta voce quanto entrambi già sapevano: “Mia cara, mi duole davvero dirlo, ma mio padre non avrebbe mai acconsentito al nostro matrimonio”. Quelle parole furono per lei come l’ennesimo schiaffo ricevuto in pieno volto: dunque lei non era degna di sposarlo perché le ricchezze dei suoi genitori non erano alla pari di quelle dei Troussard? “Vi prego, dite qualcosa”. É vero, della vita ne sapeva ancora poco, ma i suoi sentimenti, quelli erano sempre stati più maturi di qualunque giovane, presunto uomo, le si fosse mai trovato davanti. “Quindi, se non sono degna di sposarvi, il mio ruolo si ridurrebbe a quello di un’amante, per voi?” Lui non rispose, sapeva di trovarsi in una posizione sgradevole. “E dunque, invece di chiedere a voi, di fare uno sforzo e seguire i vostri sentimenti, dovrei essere io quella che passerebbe il tempo, no ma che dico il tempo, la vita a nascondersi? Eh, no, mio caro Édouard. Anche l’amore che ho per voi non basta a farmi accettare una condizione simile.” Lui non parlava, teneva lo sguardo basso, consapevole di quanto tutto fosse sbagliato. “Vedete, saprò ancora poco della vita, ma penso di conoscere già qualcosa sull’amore. E per me l’amore è tutto o niente. Romeo e Giulietta, Tristano e Isotta, sono amanti che hanno urlato a squarciagola: “o amore o morte” e così si sono uccisi, pur di non vivere l’uno senza l’altra. Shakespeare scriveva che l’amore è un faro sempre acceso che resiste alla tempesta, ed io che dovrei fare quando il faro non punta sul mio volto, ma su quello di un’altra?”
“Letture, letture. Tutte queste letture vi fanno giudicare la realtà sotto il punto di vista di una morale fin troppo ortodossa. E lo capisco anche. Dopotutto, siete sempre cresciuta in un convento. Eppure, perfino quegli amanti, Tristano e Isotta che voi mi nominate, prima di giungere al triste epilogo sono per l’appunto diventati amanti. E sbaglio o non è stata colpa di Isotta, come nemmeno di Ginevra, quella di finire promessa a un altro uomo? Eppure questo non ha impedito di far divampare il loro amore” “Certo, ma non in modo libero.” Lo interruppe lei: “Vedete, tutto, in questo mondo, in questa società, ci vieta di essere liberi. Io tra pochi mesi lascerò il convento, è vero, ma solo per trovare un marito e finire nuovamente rinchiusa, questa volta in una casa, a cui io stessa dovrò badare. Ma ci è stato mai chiesto se è davvero questo che vogliamo fare, noi giovani donne, nel fiore dei nostri anni?”. Lui alzò lo sguardo di colpo, come preso da una folgorazione: “Allora anche voi siete promessa!” “No, vi sbagliate. In questo mondo antico, sono fortunata di avere almeno un padre moderno che ha preferito la mia felicità alle questioni di prestigio economico”.
Rimasero in silenzio; in uno di quei silenzi pieni di tuoni, lampi, pensieri inespressi e parole che vengono ingurgitate, per poi essere sepolte in una memoria che rischia, un giorno, di farsi rimpianto.
“Édouard, ti ho cercato dappertutto”, Judith si avvicinava a passo svelto alla coppia, accompagnata da Chloè. “Judith, sì, perdonatemi. Ero qui a parlare con una vecchia amica, mademoiselle Sylvie”, e quest’ultima fece un inchino con il capo, ricambiato dalla sua interlocutrice. “Ah, la carissima amica di Chloé! Édouard mi ha tanto parlato di voi! So che state terminando il collegio. Che periodo meraviglioso! Oh, come vi invidio. Anche io quando avevo la vostra età avevo voglia di scappare alla vista dei libri, per dedicare maggiormente il mio tempo a viaggiare e a conoscere il mondo. Questo per me contribuiva alla crescita e alla maturità di una persona, molto più di quelle quattro lezioncine imparate a memoria da ripetere a un professore distratto. Ma sapete, vi svelo un segreto: di anni spensierati come quelli, non ne ritornano indietro tanto facilmente”. Voleva essere consolante, Judith, con i suoi calzari provenienti da Madrid e i gioielli italiani, eppure non fece altro che aumentare il divario tra lei e la piccola figlia dei Lambrouse. “Édouard, caro, vi cerca vostro padre” gli disse, poggiando delicatamente una mano guantata sulla sua spalla. Poi, si rivolse alle due giovani donne, che la osservavano in silenzio, l’una accanto all’altra: “È stato un piacere, mademoiselle Sylvie, spero di rivederla presto. Con permesso”.
Man mano che i futuri sposini, i promessi, si allontanavano con la mano di lei a braccetto con lui, Sylvie non poté fare a meno di chiedersi come tutti in quella parte di mondo, stessero recitando una parte; come chiunque lì dentro stesse indossando una maschera. Tutti, a cominciare da lei stessa, che fingeva indifferenza davanti al suo amato, mentre dentro si sentiva morire. E dall’altro lato, Édouard che, mentre un minuto prima decantava il suo amore per lei, un minuto dopo fingeva amicizia davanti alla sua futura moglie. E perché non inserire anche quest’ultima all’interno di questo quadretto, di questo triangolo; cosa avrà pensato Judith, avvicinandosi a loro, nel vederli così coinvolti all’interno di una conversazione fatta di sguardi gravi e lunghi silenzi?
Era questo il significato di crescere? Vivere di nascosto? Indossare una maschera diversa in base a chi ci si trova davanti e pretendere che tutto sia parte di una normalità, anch’essa costruita ad hoc? E che ruolo ha la normalità, nel momento in cui si vuole stare accanto al proprio amato, mentre costui è costretto a vivere una vita che non desidera?

“Sylvie, comincia a farsi l’ora. Tra poco dovrai andare. So che questa festa si è rivelata più intensa del previsto, ma vieni a fare almeno un ballo. Distraiti insieme a me, almeno così questa giornata non sarà stata poi un completo disastro.”Così la sua affettuosa amica tentava di attutire la caduta del suo spirito. Non avrebbe fatto menzione del suo attaccamento al fratello, ma sapeva perfettamente, seppure non l’avesse mai provato, che davanti a lei aveva una foglia tremolante dal cuore infranto. Tuttavia, su un punto Chloé aveva ragione: si trovava a un ballo degno dei grandi saloni regali di Parigi. Quel fascino provato qualche ora prima, la faceva ancora sentire come un’eletta a un’assemblea degli dèi. Dunque, decise di tornare nella sala per prendere parte ai balli, sebbene il suo animo fosse ben più predisposto all’ascolto assorto di malinconici violini, suonati nella cima di un’altissima scogliera, affacciata sugli abissi del mare.
Iniziate le danze, dove una fila di donne stava di fronte a una fila di uomini, Sylvie dovette fare uno sforzo di memoria per ricordare i passi di un ballo che non eseguiva da più di un anno. Si trattava di prendere la mano del ragazzo di fronte, fare un intero giro e poi passare al giovane successivo. In questo modo, uomini e donne si scambiavano i partner, potendo relazionarsi con tutti i partecipanti.
Dopo uno zio di Chloè e un cuginetto di otto anni, con cui si divertì a fare una giravolta in più del dovuto, fu il turno di un giovane dai riccioli biondi e gli occhi di un nero profondo e penetrante. Per tutta la durata del loro ballo, entrambi non parlarono. Semplicemente appoggiarono, come di consuetudine, i palmi l’uno sull’altro e danzando, non si tolsero gli occhi di dosso. In quel frangente, sembrava che il tempo si fosse fermato o avesse accelerato tanto rapidamente che non solo il ballo volse al suo termine, ma che ormai il tempo era definitivamente scaduto. Concluso l’inchino finale, Sylvie staccò gli occhi dal suo ballerino, poiché attirata da Chloé che la chiamava concitata: “Sbrigati, è tardi” e intanto indicava il grande orologio sopra al camino. Con un sobbalzo di preoccupazione, si accorse che le lancette segnavano quasi le sei di pomeriggio. E con un “addio” detto agli occhi abissali di quell’estraneo, piuttosto che alla sua persona, si diresse insieme all’amica in direzione della stanza di quest’ultima. Filarono via, fuori dalla grande sala, superando gli ospiti che parlottavano e ridevano tranquillamente. Giunsero alle scale e le risalirono due gradini alla volta, per quanto i loro vestiti potessero consentirglielo. Mancavano solo quindici minuti alla partenza de La Rondine per Narbonne, e questo le diede unicamente il tempo di sfilarsi gli orecchini, mettersi le sue scarpe: “No, il vestito tienilo! Me lo ridarai appena tornerò in convento, la settimana prossima.”. “Sei sicura? Oh, Chloé, davvero non so quanto sia una buona idea affrontare un viaggio con questo ve…” ma lo sguardo convinto di Chloè bastò per convincerla: “Preferisci perdere la corriera e sentire le voci della madre superiora? Piuttosto, prendi anche il libro che mi ha regalato Édouard, ti farà compagnia durante il tragitto.” “Come sei cara, Chloé! Non so come farei senza la tua amicizia.” E le due amiche si abbracciarono, prima che Sylvie sgattaiolasse fuori dalla casa, triste di non aver salutato nessuno. E con nessuno, significa nemmeno Édouard, per quanto non se lo meritasse. 
Quant’è strano l’amore: sicuramente in quel momento, la giovane stava sperimentando la classica illogicità che porta l’individuo a compiere azioni moralmente sbagliate, solo in nome di quel forte sentimento. Come diventare l’amante di una persona, che quindi non sarà mai completamente devota a lei. Oppure, come mordersi il labbro per non essere riuscita a salutarlo, o chissà, per non averlo voluto fare, nonostante appunto lui non meritasse più il benché minimo pensiero da parte sua. Tuttavia, durante quella corsa nelle strade illuminate dai lampioni, frenata da un abito inadatto a quella situazione, il semplice pensiero di aver assistito a un ballo vero e proprio, come non ne aveva mai visti prima, riusciva a consolarla dalle pene di quell’amore infelice. Eppure, per il tempo di quella corsa, quegli occhi neri, non riusciva a toglierseli dalla mente; erano come ricordo di un sogno passato.
Ed eccola, a pochi metri da lei, La Rondine ormai in partenza. Riuscì a salire giusto in tempo, prendendo posto in modo poco elegante, per via di quel fiatone che si ritrovò dopo aver corso a perdifiato. La carrozza si mise subito in movimento, gremita di gente che tornava dalla propria gita festiva. Una volta al suo posto, scostò leggermente la tendina per prendere aria e intanto cominciò a vedere il paesaggio cambiare, lasciando alle spalle la città per entrare in zone sempre più rurali. 
 Cessato finalmente il fiatone, si sedette meglio, mettendosi sempre più a suo agio, con Madame Bovary sulle cosce. Eppure c’era qualcosa che la disturbava all’altezza della natica. Fece per tastarsi il vestito, ed in quel momento si ricordò della lettera che aveva scritto per lui. Così, con aria malinconica e le lacrime agli occhi, prese a rileggerla:

 “Caro Édouard,
quando leggerai queste parole, saremo già lontani.
Eppure affido a questa lettera tutto il coraggio di cui non predispone la mia voce.
Che senso ha ancora vivere i nostri giorni miseramente, aspettando solo dei brevi momenti di gioia pura che, nostro malgrado, finiscono giusto il tempo di un fruscio di vento? Non si tratta, per caso, di forti emozioni, di un fuoco che ci accende e ci ravviva, quello che provano le nostre menti e le nostre carni, quando siamo finalmente soli, io e te?
Probabilmente i miei pensieri correranno più velocemente della mia età, ma ormai quasi più niente ci frena dal coronare un sogno: quello di vivere felici, insieme.
Come deserti aridi che separano due mondi che vogliono ricongiungersi, così sono i mesi che ci tengono divisi dal momento in cui relegherò al passato i giorni del convento. Eppure, se rimaniamo uniti, possiamo cambiare il destino! Congiungendo le nostre menti, otteniamo quasi la forza dello stesso Iddio, divenendo capaci di modificare la vita e le sue strade a nostro piacimento.
E se il tuo cuore canta all’unisono con il mio, sono persino disposta a scappare con te, ancor prima che sboccino i primi fiori primaverili.
Pertanto, ti chiedo di pesare a fondo i tuoi pensieri e il tuo sentimento per me, e nel caso in cui anche tu non riuscissi a immaginarti un futuro, separati, allora sappi che io sarò felice di divenire la tua sposa.
So che non conviene a una giovane pronunciare per prima queste parole, ma è ciò che sento nelle vene; è quello che il cuore mi sussurra da quando mi hai rivolto parola per la prima volta, in quel lontano dicembre a casa tua. Non riesco più a mentire a me stessa e ai miei sentimenti; non riesco più a nascondermi dietro maschere che non mi appartengono. Dunque, se le tue intenzioni sono serie, sappi che io sono già pronta a fare questo passo, in qualunque momento.

Eternamente tua, S.
12 Novembre 1856 “

 Tutti i sogni di una giovane fanciulla, inesperta riguardo ai colpi bassi dell’esistenza, erano lì, raccolti in un foglio, ormai pressoché carta straccia. Eppure, il suo sogno era talmente bene architettato e studiato nei minimi dettagli, che corrispondeva veramente alla sua idea di paradiso in terra. Infatti, sposare quell’uomo non l’avrebbe resa la classica padrona di casa, relegata a governare la proprietà e a zittire la propria voce in sua presenza. No, perché era sempre stata certa che con lui sarebbe stato diverso. Tanto per cominciare, si immaginava che avrebbe avuto modo di continuare a studiare, di arricchire la sua conoscenza al pari di lui. Inoltre, mentre era lì che pensava, certamente anche con il suo aiuto, alla gestione della casa e dei figli, era sicura che sarebbe stata la sua spalla in ogni avvenimento che la vita avrebbe messo davanti a loro. E allo stesso modo lui avrebbe fatto con lei.
Ma ormai, che importanza aveva tutto ciò? Quei sogni così vigorosi fino a quel mattino, si erano appassiti, nel giro di poco tempo, come le rose colte e senza essere innaffiate. E quel magnifico paradiso in terra, valeva infine quanto quella stessa lettera: e cioè più niente, ormai.
Di fatto, lei non aveva neanche avuto modo di consegnargliela, e da un lato, meglio così. Quel codardo, quel vigliacco, non avrebbe mai negato un favore al suo caro padre; e che importanza aveva se questo favore significava vendere la sua stessa vita, in cambio di tranquillità: di una tranquillità tutta sociale.
Lei, però, di un fatto era più che sicura: non si sarebbe mai abbassata a fare l’amante. Per quanto quella Judith non le avesse fatto una buona impressione, lei, una bambola strizzata in un vestito più costoso del suo intero guardaroba, comunque non si meritava di essere presa in giro da ben due complici. E d’altro canto, la stessa Sylvie, sapeva di non meritarsi di essere la luce degli occhi di un uomo, soltanto a giorni alterni.
Era, dopotutto, questo il tipo di amore di cui aveva sempre letto? Era questo il grande amore di cui parlavano Shakespeare, Molière, Hugo e tutti gli altri suoi scrittori preferiti? Certo che no! Sicuramente, tra una menzogna e la realtà, lei avrebbe sempre scelto la realtà, sebbene questa sarebbe stata più amara della menzogna. Pertanto il suo posto, a suo malincuore, non poteva più essere accanto a Édouard.
E questa stessa incapacità di quest’ultimo di non poter mollare una tradizione trita e ritrita per correre da lei, come d’altronde lui stesso avrebbe voluto, non lo rendeva più il cavaliere impavido pronto a salvarla, il quale era sempre stato ai suoi occhi; colui che rispecchiava quel sogno di uomo ideale che lei aveva in mente. Nossignore, in quanto finiva per ridursi, per sminuirsi, per rimpicciolirsi fino a raggiungere la misura di un omuncolo, di un giovane superfluo, più attento alla forma che non a quello che contava davvero: l’amore.
Tra un pensiero e l’altro, tra una lacrima nascosta agli altri passeggeri e una risata ironica e pazzoide per consolarsi, una volta riposta la lettera nella tasca, i suoi occhi ricaddero su quel nome: “Madame Bovary”. “Chissà se c’è qualcuno a questo mondo, capace di comprendermi. Chissà cosa avrà mai da insegnarmi la storia di questa donna. Chissà che lei non abbia le risposte. Chissà che lei non mi sappia guidare lungo questo labirinto, per trovare la via della libertà”.

 Quasi un’ora dopo, arrestato il turbinio di pensieri che le offuscavano la mente, ecco nuovamente Sylvie al punto iniziale di questa storia. Nuovamente a correre, questa volta per Narbonne, ormai a pochi metri dalla Cattedrale; le cui luci spuntavano tremolanti alla fine della via che si vestiva per notte. Eppure, quella corsa riuscì ad avere in lei un qualche effetto benefico e liberatorio; infatti, ad ogni metro raggiunto, ella riusciva a cacciare sempre più indietro tutti gli schiaffi all’animo ricevuti in quello stesso giorno, permettendo invece soltanto al ricordo del ballo e dei suoi echi, di tornare a galla per poterla consolare.
Sicura di trovare chiuso il cancello del convento, decise di entrare dalla porta principale della Cattedrale. Poi, da lì, passando dal chiostro interno, sarebbe salita nella sua camera a cambiarsi, raggiungendo così successivamente le altre compagne nella cappella al piano di sotto.
Tuttavia, senza accorgersene, il grande campanile rintoccò per sette volte. Era ormai troppo tardi per cambiarsi, e se fosse salita nella sua stanza, di sicuro l’avrebbero notata. Non le rimaneva altro da fare, che andare direttamente nella cappella.
Dunque, aspettando che il fiato tornasse quello di sempre, si avviò con nonchalance fino a quella chiesetta semplice, con alle pareti dell’unica navata, immagini devote dai toni notturnali, tipici del Seicento. Alcune compagne erano già sedute ai loro posti, già in raccoglimento e con le mani giunte, mentre le suore erano affaccendate a distribuire preghiere e pregare in ginocchio, davanti all’altare. “Chissà se non mi hanno scoperta, per davvero. Effettivamente, è strano, per una come me, rimanere chiusa tutto il giorno in camera. Posso soltanto sperare che Selene mi abbia davvero coperta, per come mi aveva promesso”, e con lo sguardo cercò la compagna, che aveva il capo chino, seduta tra le prime file. Non essendoci modo di avvicinarla, decise quindi di sedersi dietro alle sue compagne, senza fare rumore e cercando di non farsi notare.
Appena occupato il suo posto, poggiato accanto a lei il libro che aveva ancora con sè, e congiunte le mani in preghiera, il suo stesso animo ebbe giusto il tempo per tirare un sospiro di sollievo e dire: “è fatta, è finita”, subito dalla porta, tuonò la voce della madre superiora che invocava perentoria il suo nome: “Mademoiselle Sylvie”. La fanciulla si girò con gli occhi pietrificati dalla paura, certa di essere stata scoperta e dando la colpa a quel magnifico vestito che ancora portava addosso.
“C’è un giovane alla porta che chiede di lei”. 

Fine Prima Parte (Forse)

Aggiunta dell’Autore:

A voi, cari lettori, che siete arrivati fino alla fine di questo breve racconto, chiedo, qualora conosceste qualche giornale online o cartaceo disposto a pubblicare, di scrivermelo nei commenti o di inviarmi una mail all’indirizzo rossittovaleria@gmail.com .
Grazie di cuore del vostro affetto.

Valeria

Pensieri della sera che magari non parlano sempre di amore, Pensiero e sentimento

Ri-Cominciare

Fruscio di venti lontani vengono a farmi visita, in questa sera di inizio ottobre. Mi mandano saluti provenienti da mondi remoti, al ritmo di finestre distanti che sbattono freneticamente.
Pareti spoglie, inabitate da anni. Una luce fioca e tremolante padroneggia sul tavolo vuoto nella stanza, mentre scrivo queste parole intrise di malinconia.
La valigia è ancora chiusa accanto a me; al suo interno, i vestiti sono custoditi insieme al calore della mia casa, di colpo, fin troppo distante.

Sono in Francia.
Già, l’ho rifatto un’altra volta.
Ho impacchettato i ricordi di anni; li ho presi con cura, uno a uno, sistemandoli stretti stretti in scatole troppo piccole, e che ho sballottato di città in città.
Fino ad arrivare qui.

Abbasso gli occhi sulla valigia azzurra, mia compagna fidata di mille viaggi. Soltanto per oggi, il suo nome è Pandora; chissà quali ricordi dolceamari possono scivolarvi via e colpirmi bruscamente, se solo la aprissi.

E dunque prendo un respiro profondo, mentre i lampioni nella strada davanti alla mia finestra tornano ad accendersi. L’aria di Marsiglia è frizzantina in questo periodo dell’anno, e questa è la mia prima scoperta.

E quindi, forza! Che si ritorna a essere viaggiatrice del mondo.
E così, coloro che non riescono a tollerare il distacco, imparano a richiudere gli occhi per poter vedere nitidi gli sguardi di chi li ama, anche da lontano. Allo stesso modo faccio io, che nel cuore trattengo con forza ogni istante, ogni sorriso e ogni gesto d’amore; tre alberelli rigogliosi che ho coltivato sin dall’ultimo mio arrivo in una terra che col tempo ha smesso d’essere straniera.

Allora, si ricomincia; e il ricominciare porta con sé nuove strade da imparare, nuovi nomi da memorizzare, nuove facce che forse un giorno saranno amiche, e un nuovo letto su cui dormire.
In questo modo, si riparte col vivere una vita che non mi apparteneva, ma che da domani lo farà.
Si riprende a distendere le labbra in un sorriso automatico, mentre la mente è rivolta ad altre terre. Ma il gioco sta proprio in questo: tenerla impegnata e aggrappata al presente. E per fare ciò, tenterò d’imparare questa lingua ancora sconosciuta proprio per non rischiare di cadere nel silenzio dei ricordi; ché soltanto così, uno dopo l’altro, passeranno i miei giorni.

E da qui riparte l’avventura, dopo anni di apatia.
E con ciò, rinascerà quella forza che sembrava essersi nascosta.
Perché da oggi ricomincia la mia vita, con un capitolo nuovo e inaspettato.
E io concludo questo scritto, sebbene un piede sia tuttora ancorato alla vecchia casa, mentre l’altro è già ben piantato sul domani.

Racconti, Racconti & Poesie

Il vecchio diario

11/11/18

Vai sereno, cuore di pietra. Vai e sgambetta pure liberamente di fiore in fiore, proprio come ti piace fare. Dopotutto, che importanza hanno avuto tutti i nostri lunghi anni insieme? Il tempo passato l’uno accanto all’altra, uniti a tutti quei soldi che mi avresti fatto risparmiare. Che poi, era necessaria quella attrezzatura per risistemare la tua barca? E di tutti gli strumenti per andare a fare le tue cose spericolate con i tuoi amichetti poco furbi, non potevi farne a meno?
I tuoi giochi ti hanno portato così lontano che non ti sei neanche preso la briga di avvisare che te ne andavi; anzi, preso dalla tua vita com’eri, ti sei pure dimenticato di salutare. E mentre tu socchiudevi la porta di casa per quella che non sapevi fosse l’ultima volta, all’ennesima crepa del mio cuore, ho buttato finalmente la chiave e ti ho lasciato fuori. Tanto, ero certa che non avrei ricevuto neanche un messaggio del tipo: “Non so se tu sia viva o no, e ancora sto cercando di capire quanto la cosa mi interessi, ma spero solo che la botta che ti ho inflitto nuovamente non ti abbia fatto molto male questa volta”. Eh, no, mica l’hai fatto; sennò non saresti il famoso Mr Narcisista, quale tu sei.
Eppure sai che ti dico, mio caro? Un giorno io e te ci rincontreremo.
Oh, sì che ci rincontreremo e puoi giurarci. E ti assicuro che io non sarò più la tua fragile “pupetta” con gli occhi chiari e il cuore spezzato. Eh no, quella versione lascerà il posto a una me fatta di cicatrici e un cuore di pietra, proprio come il tuo.
E accadrà più o meno così: dopo tanti anni da quella porta chiusa alle tue spalle ormai lontane, noi ci rivedremo lì, in una triste sala comune di un ospizio per anziani. Tu sarai quello con la giacca blu e il tuo stupido solito fiore all’occhiello, manco fossimo nell’Ottocento. Io sarò quella ancora figa per i miei anni, che penserai non essere cambiata di una virgola. Allora ti avvicinerai a me, mentre io sarò girata a guardare un’altra anziana suonare una malinconica melodia al pianoforte. Finché mi busserai alla spalla, e dopo aver speso l’ennesimo secondo importante della mia vita per tornare a guardare indietro verso te, tu mi dirai: “Emma, dopotutto questo tempo… Il destino ci ha riuniti”. Dunque, soltanto in quel momento, io ti guarderò con i miei occhi grandi oceano-mare, poi accennerò un sorriso tenero che ti parrà di ricordare e infine ti risponderò delicatamente con: “E tu chi sei?”.
E allora sarà lì che ti verrà quel principio di infarto che porrà fine alla tua misera vita, e sarà lì che finalmente avrai capito: che una persona non la perdi anche quando ti chiude la porta alle spalle e butta la chiave, che non la perdi nemmeno quando sono gli anni a dividervi. Ma, attento! Che il tempo stringe e poi ci pensa la vita, in questo caso l’alzheimer, a farti perdere l’unico tesoro puro e di valore che ancora rimaneva.
“Signora Emma, è il momento di tornare alla sua camera. Saluti il signor Benito, lui sta tornando al suo ospizio dall’altro lato della città”. Ed io: “Arrivederci signor Benito, è stato un piacere conoscerla.”

“Mamma cosa stai leggendo?”, mi chiese Isabel, mentre faceva capolino nel salotto dove stavo seduta a ripassare tutti i ricordi racchiusi nei miei vecchi diari. “Nulla, tesoro” dissi, prendendola in braccio e facendola sedere sulle mie gambe. “Che cosa sono tutti questi libriccini?”, mi domandò, indicando le copertine variopinte dei tanti blocchetti. “Vedi, c’è stato un tempo in cui la mamma era molto arrabbiata e allora scriveva”, le spiegai, sistemandomi meglio sulla poltroncina gialla. La bambina non capiva, prima guardò le pagine scritte fitte fitte e a tratti scarabocchiate e poi si voltò a indagare il mio viso: “Arrabbiata con chi? Con me?”. “Oh, no amore, non con te!”.
Ma lei non si dava pace, il suo volto turbato era lo specchio del suo dubbio interiore: “E allora con papà, perché spesso fa le monellerie?”. Io la guardai; accidenti, come somigliava a suo padre. “È vero, papà fa le sue monellerie e la mamma lo sgrida, ma poi ci mettiamo sempre a ridere, non è così?”. La bambina ci pensò su un attimo e sorrise: “Sì, tu ridi e lui ti abbraccia e poi mi prende in braccio e mi fa fare l’aeroplano”. Io la strinsi, ma poi la mia piccola si fermò nuovamente: “E allora mamma, non eri arrabbiata con papà?”, tornò a fissarmi con occhi seri per un’ultima volta. “No tesoro, anzi, è stato proprio dal giorno in cui ho conosciuto il tuo papà che ho definitivamente smesso di essere arrabbiata”.
Dopo aver pronunciato quella frase, stetti in silenzio; era come se per la prima volta, il mio cuore si fosse quasi fermato a realizzare quelle parole, a mo’ di delicata e intima rivelazione. Semplicemente sorrisi, come un riflesso incondizionato o forse fin troppo condizionato da verità a lungo sotterrate nel mio inconscio. Di seguito, i miei occhi si poggiarono automaticamente nella foto di noi tre, posta sul tavolinetto di fianco a me. In un grande parco, c’ero io, in fondo, immortalata nel bel mezzo di una frase di ammonimento, tra il finto arrabbiato e il divertito, mentre davanti a me guardavo Isabel che faceva l’aeroplanino con suo padre.
Dunque, istintivamente chiusi il diario, e lanciai un’occhiata a tutte quelle pagine ingrigite dal tempo e ormai obsolete, sparpagliate sul tavolinetto. Allora feci un respiro profondo e mi alzai dalla poltrona, prendendo in braccio la piccola che guardava ancora incuriosita quella montagna di pensieri lontani in forma scritta: “Dai Isabel, aiuta la mamma a preparare la cena. Sai dov’è papà?”, le chiesi, intuendo già la risposta. Ma la bambina non disse nulla; semplicemente indicò con il suo ditino affusolato e roseo fuori dalla finestra. “Di nuovo tutto sporco di fango per giocare con Rudi! Ah, si salvi chi può!”.
E sorrisi nuovamente. E sorrisi davvero, finalmente.

Pensiero e sentimento

Pensiero ondivago che continua a parlare d’amore

Desideravo solo ricordare che essere single non vuol dire essere soli.
E lo dico perché, per tanti anni, io stessa ho confuso le due cose. Tuttavia, in caso di necessità, non mi serve molto per spazzare via il dubbio: basta che ripenso a tutte quelle voci belle e familiari, di tutte le persone più care che, nonostante la distanza che ci divide da anni a periodi alterni, sono davvero sempre accanto a me.
Sfatiamo il mito che chi è single è infelice, perché non è vero. Certo, ci sono giorni in cui la malinconia è normale, siamo pur sempre umani. Personalmente, questo periodo mi ha spinto a conoscermi meglio e a dedicare quel tempo “libero”, e in più, a inseguire i miei desideri, a scoprire nuove passioni, a viaggiare, a perdermi, a ritrovarmi e sopratutto a coltivare le relazioni. Soltanto così, infatti, mi sono potuta avvicinare a certe persone, potendole ritenere parti fondamentali della mia vita, senza le quali io non sarei quella che sono. E senza le quali, allora probabilmente sì che mi sentirei un po’ più sola.
Sarei una persona diversa se ad oggi fossi sempre stata in una relazione sana, vero. Migliore o peggiore non posso dirlo, ma sarei semplicemente stata un’altra versione di me stessa. Ad ogni modo, finché non trovo qualcuno che apporti qualcosa in più, invece di togliere. Finché non trovo la persona che mi dia la sensazione di essere a “casa”, pur a chilometri di distanza dalla mia. Finché non trovo quel quid, quella ciliegina sulla torta che arricchisca e rassereni, senza invece complicarla, una vita che sto costruendo sperando di essere felice, allora preferisco, voglio e continuamente scelgo di essere single.
Chissà, probabilmente quando distribuivano l’amore e l’altezza, io ero in coda per l’essere tappa e per avere l’amicizia. Ma va bene così.Perché ad oggi, una cosa l’ho capita: l’amore e l’amicizia sono entrambe rare da trovare. Eppure, spesso, anche se l’amore viene e va, ci sono certe amicizie tanto speciali che, una volta trovate, quelle sí che restano tutta una vita.

Racconti, Racconti & Poesie

Davanti al mare

Profumo di gelsomini in un giorno di maggio.
Rumore di tacchi e dei primi ventagli che sventolano.
Voci di bambini al di fuori del silenzio della grande chiesa e una moltitudine di persone dai volti conosciuti, in attesa.
E allora arrivi tu, che saluti tutti quanti, tremando e sorridendo insieme e ti dirigi subito verso il prato, superando lateralmente le file di sedie bianche immerse tra i fiori.
Il prato è umido, eppure il sole delle cinque lo riscalda delicatamente mentre viene pettinato da un venticello leggero.
Sei nervoso, ma vuoi dissimulare: dopotutto fai cose ben più “difficili” nella vita, tu che usi il sorriso per dare forza agli altri, questa volta ti servirà per darla a te stesso.
Eppure l’odore della salsedine lì vicino ti calma; anzi, quando senti che la tachicardia ti annebbia i sensi, spingi tutto il tuo corpo ad abbracciare la presenza del mare. Arrivi perfino a sentire il debole rumore delle onde che si infrangono sullo scoglio al di sotto del prato, ed è lì che pensi a me.
Continui a salutare gli altri ospiti: vedi tua madre e tuo padre prendere posto, guardi il tuo migliore amico che ti abbraccia e ne rimani ancor più confortato. Il suo sguardo, come quello di tua madre seduta davanti a te, sono sempre stati il metro di giudizio per capire la validità di una tua scelta e, vista la loro espressione serena, quella doveva essere proprio la scelta giusta.
L’orchestra accorda i violini e vedi come l’arpista sistema accanto a sé il suo strumento degli angeli. Allora ridi tra te e te: “immagina se ci fosse un ukulele”, ed ecco che ancora una volta ripensi a me, sentendoti meglio.
Ed io intanto sono lontana. Immagino ad occhi chiusi i preparativi attorno a quell’archetto fiorito sul prato della chiesa che si affaccia sul mare, mentre vestita di bianco, sono attorniata dalle mie amiche di una vita e da mia madre, che ancora hanno la stessa espressione incredula di quel lontano giorno in cui dissi loro che avevo finalmente incontrato qualcuno.
Entro in macchina e, per una volta, accorciare le distanze non è stato mai così facile. Come una calamita venivo attratta dal mare, dallo stesso mare che ogni volta mi riportava da te.
Mille pensieri, le chiacchiere felici di mia madre, il velo ovunque, tutti dettagli che resero fin troppo breve quel tragitto che ci riuniva. Eppure io non ero tranquilla, tanto che per calmarmi, provavo a pensarti, ripercorrendo i lineamenti del tuo viso e ripensando a quel modo dolce con cui i tuoi occhi mi hanno detto che avrebbero sposato i miei. E questo accadde ancora prima di conoscerci, ancora prima di innamorarci: accadde che i tuoi occhi mi parlarono per caso in una sera qualsiasi di dicembre, quando ti incontrai nel mezzo di facce conosciute, in un grattacielo di Manhattan.
L’autista si ferma davanti alla chiesa, ed io, che per distrarmi, cerco di paragonare il valzer che sentivo nello stomaco, a quello provato altre volte nella mia vita: per la mia laurea, ad esempio, o per qualche altro evento nel quale io avrei dovuto parlare in pubblico e da quel momento sarebbe cambiata la mia vita.
Mia madre aveva già l’occhio lucido, come le mie amiche – che però lo dissimulavano meglio-.
Comincio a salire la scalinata della chiesa e proprio tra il primo e il secondo gradino dell’entrata, il pensiero del nostro primo litigio mi sferzò un colpo allo stomaco talmente forte da confondermi e da farmi allentare il passo. Quei problemi gonfiati a dismisura da parole e paranoie,  riuscirono a rovinare i nostri giorni di pace. E subito ecco il secondo colpo sulla milza, il litigio del 13 marzo: noi trentenni a litigare per incomprensioni nemmeno degne dei diciottenni; io che volevo farti capire le mie ragioni e tu che andavi somigliando sempre più a un sordo muro.
Un altro colpo: la tua improvvisa gelosia in quella sera di luglio ed io che ridevo, per quanto te la stessi prendendo ingiustamente per una cosa mai esistita.
La mia amica nota qualcosa dal mio viso e mi prende a braccetto: “Se hai una guerra in corso nella tua testa, vedi di scoprire chi è il vincitore prima della fine di questa scalinata”.
Un vincitore? Un vincitore significava andare avanti o scappare per sempre; significava dare peso ai momenti negativi, ai difetti, alle situazioni scomode come se non ci fosse una soluzione dettata dagli anni, dalla maturità e dall’amore. Oppure significava far prevalere la speranza che quei momenti negativi sarebbero arrivati e se ne sarebbero andati subito: significava terminare la scalinata, sorridere a tutti, sorridere a lui, e fare un passo a cui non avrei più potuto porre rimedio e solo per fiducia nell’amore.
Allora la mia amica continua con quello che risulta essere uno dei discorsi più profondi e anche più brevi della sua vita probabilmente, peraltro sussurrati piano al mio orecchio nascosto dal velo: ” qualunque sia il vincitore della tua battaglia interiore, non avere paura di declamarlo. Non è ancora troppo tardi”.

A quelle parole mi venne in mente uno degli ultimi litigi che abbiamo avuto proprio pochi giorni prima che mi chiedesse di sposarlo. Quella sera mi disse che era ovvio che gli andasse bene che io progredissi nella vita e sopratutto nel lavoro; accettava anche che avessi molti amici uomini e che molte delle persone con cui avevo a che fare nell’ambito lavorativo erano di sesso maschile. Accettava la mia apertura verso il mondo e il mio voler aiutare anche gli sconosciuti. Nonostante ciò, vi era un punto che gli veniva difficile dominare: le partenze. Quando in lui si è sviluppato un amore maturo nei miei confronti, io ero una giovane curatrice in erba che viaggiava non solo per amore dell’arte, ma anche per crescita professionale e personale. Nel mio ambito, conoscere luoghi, culture, persone è fondamentale come leggere libri e giornali. I viaggi, le partenze, gli aerei che ci hanno divisi tante volte, avrebbero continuato ad esistere, seppure con un anello al dito che ci avrebbe legato ancora più fortemente, insieme a quell’amore con cui abbiamo combattuto il tempo e i chilometri.
Così io gli ho spiegato che la mia personalità, la mia voglia di fare e la buona riuscita della mia carriera, si basavano su quei viaggi e sulla libertà di affrontarli a mente serena e sentendomi supportata. Io sarei stata una farfalla dalle ali tarpate senza di essi e lo sarei stata anche senza la mia spontaneità, e sicuramente non sarei stata la ragazza che lui diceva di volere accanto a sé per tutta la vita.
Dormimmo separati quella notte: non ci dividevano paesi, né città, ma due case. Infatti lui tornò a dormire dai suoi genitori dopo aver digerito il mio discorso del “o così o in nessun modo” davanti a una birra e una giuria di amici.
Quella notte dormii malissimo e non perché non ero più abituata a non sentire il suo profumo nel letto accanto a me, ma perché quel silenzio e quella stanza più vuota del solito mi diedero modo di pensare a tutte le ombre che io avrei dovuto accettare di lui, in una nostra vita insieme.
Nonostante tutto, la decisione maturata proprio prima di addormentarmi fu la seguente: sentivo che avrei potuto anche accettare le sue parti negative, purché fossero superate in numero dalle sue parti positive, purché fossimo disposti entrambi a venirci incontro e ancora purché entrambe le sue parti negative e positive portassero lui -in anima e corpo- di nuovo accanto a me. Dunque vi erano ben tre e massicci purché in questa scelta, ma dopotutto stare insieme non si è mai trattato di una passeggiata.
Catastrofica come sono, presi sonno poche ore prima per svegliarmi alle 8 e organizzare subito il successivo viaggio di lavoro per Vienna: consideravo già che mi sarei fatta forza partendo e andandomene, nel caso in cui lui mi avesse lasciata. Dopotutto è così che facevo ogni volta a vent’anni.
E in quel momento il telefono squillò: era lui.
“Prima che tu dica qualcosa” dissi io senza dargli modo di parlare “vorrei dirti che…”
Ma lui mi raggelò con un glaciale “Dobbiamo parlare”. E siccome i discorsi seri arrivano sempre nei giorni più complicati, a condire il tutto c’era il fatto che quella sera saremmo dovuti andare a un concerto: un concerto che si trovava pure in un’altra città, una città che a sua volta era da qualche parte fuori dall’Italia, in un punto che tutti chiamano Inghilterra.
Quindi con il mal di pancia che di botto prese a strozzare le parole, riuscii solo a chiedere in modo confuso: “E il concerto? E il volo per Londra?”. “Vediamoci dopo pranzo in aeroporto, stacco da lavoro e vengo direttamente lì”, la sua sintetica risposta inversamente proporzionale alla mia ansia in fermento.
Mi vuole lasciare durante il viaggio per Londra. No, mi vuole lasciare durante il concerto dei Coldplay a Londra. No, meglio! Vuole lasciarmi dopo il concerto, al ritorno da Londra, sempre su uno dei miei dannati aerei per rimarcare e sottolineare il fatto che non può tollerare la mia vita. Va bene, io non mi tiro indietro, che me le dica in faccia queste cose, ed io sarò impassibile. Riderò mentre sorseggerò la Coca-Cola che vendono a ben 5 euro sui voli che chiamano low-cost e sarò tranquilla. Dentro sappiamo tutti che morirò, ma cascasse il mondo, non gli darò mai questo sazio.
E questo fu un assaggio di quel flusso di coscienza che ebbi dopo il suo semplice “dobbiamo parlare” delle 8 e 15 e due secondi di un mattino “ansiogeno”.
Ed eccomi all’aeroporto, mentre lui era già seduto davanti al gate per London- Stansted. Immaginavo di vederlo con quella faccia livida, tipica delle migliori litigate in termini di serietà. Mi avvicino, poso la valigia per terra, lo guardo e lui si alza e mi stringe fortissimo tra le braccia. Io tremavo, perché non capivo il significato di quella reazione: “forse, da signore, vuole lasciarmi in quel modo prima di partire. Forse così la decisione sarà solo mia: se salire sull’aereo insieme a lui, oppure no”, di nuovo il mio flusso di coscienza che continuava a perdere incontrollato dalla mia testa come un lavandino che gocciola.
“Sei pronta per il viaggio?”, mi disse con un sorriso e un bacio in testa.
Ed io non sapevo più se stavo parlando con dottor Jekyll o con mister Hyde in quel momento; sapevo soltanto che decisi di non aprire bocca sul fatto di lasciarsi, visto che la decisione in quel caso sarebbe stata solo sua.
Il volo andò stranamente benissimo: anche la Coca-Cola venne abbassata di prezzo alla quasi-modica cifra di 3 euro e 50. Lui mi parlava della sua giornata, di quanto non si ricordasse che il letto a casa dei suoi genitori fosse piccolo e di come Filippo, il suo migliore amico, si fosse invaghito della sua personal trainer. Io ridevo come sempre alle sue parole e per come raccontava ogni cosa con quell’ironia sagace e dolce allo stesso tempo, ma frenavo le grandi risate scaturite anche dal mio cuore, proprio perché non avevo dimenticato che di colpo sarebbe scoppiata la bomba.
Ma intanto il concerto si avvicinava e lui non mi lasciava. A quel punto, mentre eravamo in fila per entrare, fui io a prendere l’argomento stanca di quella tensione: “Senti, a proposito della discussione che abbiamo avuto…”. Lui mi zittì, “non è il momento” mi disse.
Ed ecco che cominciai ad andare internamente in escandescenze, pensando che mi avrebbe davvero lasciata durante il concerto e che io avrei odiato i Coldplay per tutta la mia vita. Cercai di insistere, e vedendomi triste, lui mi serrò in un abbraccio che durò fino all’entrata di Chris Martin sul palco.
Io decisi di acquietarmi e godermi quel momento… come se fosse stato il mio ultimo momento di puro amore con lui.
E allora fu che, a quasi fine concerto, cominciò Fix you, e tutta la platea era diventata un firmamento di stelle luminose, per via degli accendini e dei cellulari accesi in aria.
Lui mi si avvicinò, prendendomi da dietro e cominciando a cantare la canzone sussurrandomela dolcemente all’orecchio, mentre Chris Martin la cantava a entrambi. E al secondo ritornello, sentii che aveva cambiato le parole, anzi, che non stava più seguendo il concerto, che mi stava parlando. “Vuoi sposarmi?” disse piano, talmente piano che io davvero non lo capii. “Eh?”, dissi mentre mi girai verso di lui. E intanto lui si staccò, e indietreggiando, prese una scatoletta dalla tasca dei jeans. “Vuoi sposarmi?”, mi chiese ancora, adesso con un tono più forte ed in viso visibilmente emozionato. Avrei avuto bisogno che qualcuno mi avesse dato un pizzicotto, ero come bloccata dall’emozione di una scena che non mi sarei mai aspettata, specialmente in quel modo. Allora lo vidi inginocchiarsi davanti a me, tra la folla che a quel punto istintivamente gli fece spazio: in mano la scatoletta aperta, dentro c’era il mio anello.
Io piansi: Chris Martin cantava, lui si rialzò subito per avvicinarsi a me ed io vedevo tutto annebbiato tra le lacrime e i sorrisi. Mi strinse nuovamente, mi baciò e fece silenzio. Dopo poco: “Ma se non vuoi, non c’è bisogno di reagire così, basta dire no…”, disse con quell’ironia che di lui amavo. Lo guardai,  i suoi occhi parlavano più di lui, rimisi in sesto il mio viso assumendo una vaga aria da furbetta -poco convincente-, infilai l’anello al dito, gli gettai le braccia al collo e all’ultimo “fix you” cantato dai Coldplay, dissi sì.
“Questa sei tu e voglio che non cambi per nessuno né tantomeno per me. Proprio perché la nostra storia non è facile, vuol dire che è qualcosa di speciale da coltivare, è una sfida che accettiamo insieme che siamo così diversi, ma anche così testardamente uguali. E se anche il lavoro ci porterà ad allontanarci a periodi alterni, non siamo novellini in questo: voglio che tu ti realizzi come persona, come donna e come professionista. Voglio che tu sia felice e soddisfatta, senza che sia io a frenarti in qualcosa. Voglio che tu sia mia moglie e voglio che come moglie, donna e professionista tu sia intraprendente, spontanea, buona e ingenuamente bella come sei. Voglio che rimanga la mia migliore amica e la mia complice, perché se mai dovessimo lasciarci e io dovessi trovare qualcun’altra con queste caratteristiche, non sarebbe lo stesso: perché io non voglio una come te, io voglio te.
Ho più desiderio di starti accanto, nonostante i nostri momenti no, che vederci dividere ancora e per sempre da aerei e altri finti amori. E dunque, mia cara, questo è il mio verdetto”. Il suo verdetto, detto tutto di un fiato con il cuore in mano sulle rive del Tamigi alla fine del concerto di una delle mie band preferite, nella mia amata Londra.

Strano da dirsi, ma tutto il film che è passato davanti ai miei occhi è durato il tempo di salire tutte le 32 scale della chiesa.
Mi fermo davanti la grande porta della navata centrale, la supero e mi dirigo verso il passaggio per arrivare al giardino. Ecco che a quel punto mia madre lascia il posto a mio padre che mi prende a braccetto.
Le mie amiche, ancora ignare su chi avesse vinto la guerra dentro di me, si erano indirizzate già verso l’arco fiorito, con il prete che guardava nella mia direzione.
Entro nel giardino e cominciano a suonare i violini.
Inconsciamente avevo scelto il vincitore di quella ennesima guerra che non era nemmeno stata la prima, solo che io ancora non lo sapevo. Raggiungo il centro delle sedie, sentendo il cuore che impazziva in gola: forse volevo scappare o forse volevo continuare, ma ecco quello che successe.
Lo vidi, vidi lui che spuntava da dietro le sedie, accanto al suo testimone. Lo vidi con quel fiore nel taschino e vidi i suoi occhi che si illuminarono, come se non mi vedesse da una vita, come se non volesse vedere altro nella sua vita. Cominciò a suonare l’arpa ed io mossi il primo passo a ritmo della marcia nuziale, con mio padre accanto che sorrideva anche lui, per frenare la commozione.
Ed eccomi lì: che con lo sguardo fisso su di lui, con il nostro mare che gli faceva da sfondo, io lo stavo sposando con tutto il mio cuore.
Percorsi tutta quella bucolica navata centrale direzione onde, scorgendo rapidamente i sorrisi dei miei cari, felici e che ci hanno sempre considerato come gli eterni innamorati ondivaghi di una storia d’amore lunga molti viaggi.
Arrivo all’altare, posto davanti al mare per noi e lui mi alza il velo, sorridendomi finalmente sicuro e fiducioso.

E fu in quel modo che il filo rosso che ci ha legati fino ad allora si trasformò in due anelli; e su di essi la nostra unione, lungamente voluta dal destino, venne incisa in un giorno di maggio, nel mezzo del giardino profumato della ormai nostra chiesa davanti al mare.