Mi ritrovai a pensarlo.
Stavo a letto, leggendo un libro dalla copertina azzurra e, mentre i caratteri neri si alternavano agli spazi bianchi, ecco che io ripensavo a lui.
I giardini inglesi di Virginia diventavano pezzi di strade familiari e quelle conversazioni cambiavano voci, assumendo le nostre, solo più roche e stridenti.
Così io lo ripensai, mentre sfogliavo le pagine senza guardarle; mentre richiudevo il libro senza segnalibro, e vedevo i suoi capelli scuri da sopra quella copertina azzurra color cielo terso e lontano.
E allora forse il paradiso era quello; e dunque l’amore erano le sue braccia, e forse il vero calore poteva scaturire solamente dalla sua carne che toccava la mia.
E allora io, senza tutto questo, andavo perdendo significato?
Non lo sapevo: tenevo il libro in mano, accarezzando il cielo azzurro con la punta delle dita e quei pensieri cominciavano a gocciolare dalla mia testa fino a sfociare in una pioggia torrenziale che mi arrivava agli occhi.
Un’inondazione nel mio di cielo azzurro, mare mosso nei miei occhi. Avevo il terremoto nella testa e quest’apocalissi si era generata in un non-istante, per una parola nera tra due spazi bianchi che mi hanno portato indietro, indietro e basta.
Leggevo Virginia e leggevo me stessa, leggevo Virginia e intanto incominciavo a intravedere nei suoi discorsi quello che non volevo io, ma che volevano i pensieri irrisolti e le conversazioni mai concluse.
L’Inghilterra che ho sempre amato perdeva ormai fascino tra quei fogli; la mia mente volava in quel luogo che si stava concretizzando a partire dal ricordo. E poi la nostalgia, quella compagna sempre in agguato, mi fece chiudere il libro e aprire la porta di casa.
Una panchina nuova, solitaria, ingenua e ignara di tutte le vicende d’amore che avrebbe sostenuto negli anni, mi aspettava sotto l’ulivo e a una lunga camminata di distanza da casa mia.
Ai piedi dell’albero c’era ombra e anche pace: tutto quello che voleva la mia testa in piena guerra fredda con il passato.
Mi sedetti, con un uomo e una donna dai nomi conosciuti che mi urlavano, in un ping pong di parole lanciate tra un orecchio e l’altro, passando per la testa.
“Sono quella che tu non sei. Sei quello che io non sono. Siamo nomi, siamo foglie, siamo il vento che ci ha preso e spostato. Siamo il giallo e siamo il grigio. Siamo il rosso diventato marrone. Siamo il nero e nessun colore. Siamo nessun colore, amore”.
Scrivevo nel taccuino accanto l’ulivo, e scrivendo, parlavo di rabbia, di te, di odio, di amore e ancora di te. Contavo i mesi, poi le ore e più ti scrivevo e sfogavo la burrasca dei pensieri, più mi accorgevo che mi andavo scordando dei dettagli del tuo viso.
Avevo la tua voce che impazziva nella mia testa, quella sì: era quella che mi amava e che poi fingeva, quella che tornava e che dopo avermi confusa, mi abbandonava a me stessa.
Avevo le tue parole conservate nel cassetto del mio cuore; avevo ancora quel pezzo del tuo cuore che mi avevi regalato, qui sotto il braccio sinistro. Avevo conservato tutto.
E invece tu dov’eri?
Mi hai lasciato tante parti di te, pezzi di passato e di ricordo; mi hai lasciato i silenzi, mi hai lasciato le parole non dette insieme ai gesti non espressi. Mi hai lasciato tutte cose che io non posso toccare con le mie mani: non c’è niente da schiaffeggiare, niente da accarezzare.
Da qualche parte del mondo, ci sarai tu che cammini e fischietti allegramente nell’andare al lavoro, ignaro degli effetti di quelle piume e poi dei sassi e delle carezze e poi dei coltelli che mi hai lanciato.
In una parte del mondo, ci sei tu che entri serenamente in un bar a ordinarti un caffè: lo sorseggi, lo assapori, mentre c’è qualcun altro che si sta ancora curando tutte le ferite per quel caffè caldo che, senza nemmeno accorgertene, hai lanciato sui tagli che fingevi di curare.
Avevi dimenticato l’importanza delle parole, che sono lame e sono piume. Eppure io ancora non avevo dimenticato la tua voce, la tua bella voce travestita da musica, ma che fendeva la mia carne come vetri infranti.
E dunque, in questo taccuino scriverò un brano, qui, seduta all’ombra dell’ulivo. E parlerà di amore e di odio e di rabbia e di te.
Appena finito, prenderò una foglia dall’albero, la metterò in mezzo alle pagine e chiuderò il plico. L’ulivo cambierà il senso a tutto: le mie parole trasformeranno il loro discorso e con loro anche la mia testa avrà cessato di urlare.
Alla fine dei giochi, le mie parole nere miste a spazi bianchi parleranno di quattro cose: prima di odio, poi di amore, finchè si intrometterà il perdono e infine sempre di te;
e se il perdonare precede il ringraziare, allora quel che ho scritto lo intitolerò così:
“A Virginia”.
Tag: #lasciarsi #viaggio #rottura #valigia #panchina #coppia #addio
A Manhattan
Potremo affrontare insieme le luci e le ombre di un luogo sterminato e a noi sconosciuto.
Questa volta riusciremo a vivere
questa volta, lo prometto, riusciremo a viverci.
Ma il destino, si sa, ha dei piani che preferisce nascondere per mostrarci solo la meta;
Ma il destino, si sa, che ha regole non razionali,
e che per riavvicinarci ci ha fatto cambiare molti aerei,
allargare le distanze,
e dormire lontani nel tempo e nello spazio.
Eppure, arrivando così lontano, è proprio da qui che stiamo per riunirci:
guardi da fuori la vetrata il cielo azzurro e l’unica nuvola bianca ti richiama un pensiero, un profumo di donna che non sai definire e che prende forma nella tua testa come un déjà-vu.
Ti imbarchi,
mi imbarco.
Ti avvicini,
mi avvicino.
Incontriamoci sul grattacielo più alto di Manhattan,
e una volta riuniti in cima al mondo,
con nelle braccia le tue braccia sorprese che pulsano di felicità,
una volta che l’ironia del destino ha svelato le sue carte,
noi non lasciamoci andare più.
Messaggio
La vita sembra fermarsi quando si è seduti sulla stessa sedia, sopra i libri, giorno dopo giorno, esame dopo esame.
“Non finirà mai”, “non ce la faccio”, “non servirà a niente”, “non sarò nessuno”: ecco il ritornello con cui ti addormenti certe notti.
Eppure finita quella fase, ti si apre un mondo: il tuo.
Da quel momento, approfitta di questi anni per fare esperienze:
conosci gente, infatuati, ritorna alla realtà, viaggia, cresci, conosciti, scopriti.
E quando alla fine sarai soddisfatto dei tuoi giri, allora fermati.
E appena saprai quello che vuoi, prometto che io sarò lì,
ad aspettarti agli arrivi.
Ormai
Lui.
Colpiva il suo sacco da boxe, lui;
un pugno dopo l’altro
e con la testa era da lei.
Lei.
Chissà dov’era, lei;
con i suoi capelli lunghi,
si era portata via i suoi sorrisi.
Un pugno,
un altro,
più forte,
più violento.
Lui teneva gli occhi chiusi,
e in quell’umido garage si vedeva soltanto un corpo irrazionale
che tirava pugni ad un sacco logoro.
La sua mente si trovava in un posto indefinito,
a colpire disperatamente qualcuno senza volto.
Pugni e ancora calci,
con sudore e poche lacrime.
Fermarsi per cercarla con lo sguardo.
E lei, lí,
nell’angolo,
bella ed impaurita che con gli occhi lucidi lo supplicava:
“lascia andare… non sono più tua.
Non sono più tua.
Ormai.”
La valigia rossa
– E così vai via?
Silenzio, vento.
– A che servirebbe restare, ormai?
Si davano le spalle, schiena a schiena.
– Ci arrendiamo così? Era questo il nostro essere eterni?
– Il “per sempre” non esiste.
Muove un passo.
– Non andare.
La prende per il polso : – Questo è un momento che vale la pena di vivere. Siamo più vivi che mai, perché stiamo provando emozioni, finalmente. La tua testa vuole andare via, ma i tuoi piedi sono qui. Il tuo cuore è fermo, qui.
– E’ sbagliato. Noi siamo sbagliati.
– Eppure non ti muovi.
Entrambi guardano la loro ombra proiettata per terra: sono una cosa sola.
– Come può essere tanto sbagliata qualcosa, quando la si vuole così tanto? Come puoi uccidere qualcosa di tanto introvabile come l’amore, solo perché pensi che sia sbagliato colui che te lo suscita? Se è riuscito a farti amare e ad amarti, quello non può essere un errore.
Lei guarda in basso, cerca di tenere lontana la voce dal suo cuore che ha ripreso a battere.
– Io sono due persone: quella che ti strapperebbe via il polso dalla tua mano, dicendoti addio e quella che è incapace di muoversi per paura di non rivederti il giorno dopo. Ma questa agonia deve finire. Vivere con te è passione e dolore. Più dolore che passione. La passione tende a far dimenticare i momenti in cui ho pianto, ma quando ritornano io vedo quanto i nostri caratteri ci uccidono a vicenda. Possiamo amarci tanto, ma non possiamo fingere che non siamo opposti nella maniera più difficile da sorvolare. Io non posso essere chi tu vuoi, né tu chi voglio io. Perché così non vogliamo chi siamo, ma chi vorremo che fossimo.
Lui tace. Conosce a memoria quei discorsi e quel sentirsi divisi in due. Molla un po’ la presa e il cuore di lei perde un battito.
– Non sopporto l’idea che una storia come la nostra finisca così. E so che è da pazzi tenerti stretta al polso dopo anni di discorsi sempre uguali, ma questa è la mia inclinazione : io ritorno sempre da te.
Quando la lotta del cuore, raggiunge la testa, crolla il castello, crolla l’armatura. Una lacrima accompagna le parole di lei:
– Chiedimi di tornare.
– Come?
– Nel suo impeto di speranza improvvisa continuò tutto d’un fiato: – Chiedimi di tornare in questa città. Qui, insieme, non dovremmo più preoccuparci delle distanze. Sistemeremmo tutto più in fretta, con la presenza, con la maturità. Mi vedresti sorridere più spesso e così farei io, in quel caso sarebbe una prova che infondo non siamo poi così sbagliati.
Lui stringe di nuovo il suo polso e scivola fino a intrecciare le dita con le sue.
– Ci siamo già detti addio, e la cosa non ha mai funzionato. Ma nel silenzio, siamo cresciuti sempre più della volta precedente. E adesso posso dirti che non potrei mai chiederti di rinunciare ai tuoi sogni per me. Proprio per lo stesso motivo per cui non riesco a muovere un passo, non posso chiederti di mollare tutto per costruire qualcosa che si è rotta molte volte, per non farti ritrovare con un cuore ed una carriera spezzati. Tutto questo solo perché sappiamo bene che il nostro stare insieme non dipende dal nostro cuore, ma da una parte di noi che non possiamo governare. Quella parte di noi che ci ha allontanati molte volte…
– … E quella parte di noi che ci ha fatto sempre ritrovare qui, mano nella mano.
Lui la stringe a se e le da’ un bacio in testa, nascondendo degli occhi lucidi che non è solito mostrare.
Assaporano quel momento il più a lungo possibile, adesso sanno che è l’ultimo.
Parlò lei con la voce mozzata dal pianto: – Io avrei remato più forte, se così avessi fatto tu. Ti avrei seguito in capo al mondo e sarei tornata da te… Ma non posso remare solo io, si rema in due. Per questo riprendo la mia valigia e risalgo su quell’aereo, perché una storia è fatta di tante cose e quando la maggior parte di queste viene a mancare, siamo solo due esseri uniti che lottano tra di loro, da più vicino. Non credevo alla gente che mi ripeteva quella odiata frase, ma adesso è così : l’amore non basta.
Lui stranamente non replicò; quel suo silenzio era più straziante di una sua possibile risposta. Sanciva la fine di tutto.
Lei continuò: – Farò di tutto per non tornare più. Farò che questa sia la volta decisiva. Promesso.
– … Mi darò pugni al petto, quando il cuore vorrà prendere il sopravvento.
La interrompe lui e per lei fu una pugnalata allo stomaco.
La lasciò dalla stretta e lei salì in macchina con la sua valigia rossa. Avrebbero ricordato entrambi il sapore delle labbra umide di lacrime, quella luce del neon che illuminava la strada, il rumore delle macchine che ogni tanto passavano accanto, quella panchina ed il loro addio.
Pisa, 2014